L’unica cosa chiara nella famosa ingiunzione di dare a Cesare il suo, è che
è per tutti, ma non specifica né chi
sia Cesare, né che cosa gli si debba come suo. Ciò fu lasciato ai futuri
cristiani perchè lo studiassero e implementassero. Lo faremo a continuazione.
Prima Parte: Cesare
Per secoli si intese per Cesare l’istituto monarchico, dinastico o meno. Nel
mondo antico c’era di tutto un po’: l’Imperator
(greco Sebaste) romano, il tiranno ellenico, la diarchia spartana, la
democrazia ateniese e via dicendo. Cesare era anche aristocratico, con governi di
pochi uomini scelti. Non scenderò a particolari, ma faccio notare che i Somali
a tutt’oggi preferiscono governarsi per mezzo di clan autonomi senza governo centrale, e meno ancora monarchico.[1]
La Cristianità adottò la monarchia, per lo più dinastica ma anche elettiva,
come in Polonia. L’istituto monarchico aveva due caratteristiche e un problema:
Prima caratteristica: il comando
unificato del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo;
Seconda: il principio monarchico-gerarchico:
il monarca sceglieva il successore e lo formava. Si dava per scontato, non
sempre azzeccandocela, che le doti di comando fossero ereditarie. Nella
Cristianità il principio monarchico vigeva anche nei corpi intermedi: municipi,
giurisdizioni territoriali e personali, corporazioni, famiglie ecc.
Il problema, comune a ogni forma di governo, era il perenne Quis custodiet ipsos custodes? Cioè, chi
pone limiti alla tentazione di ogni monarca di trascurare il bene comune a
favore del proprio? La Cristianità lo aveva risolto con il principio del dovere, comune al monarca fino all’último
cittadino, suddito o vassallo che dir si voglia.
Passati i secoli siamo in grado di osservare, in quello che una volta fu la
Cristianità, i risultati pratici del processo sovversivo “divide et impera”, spinto dalla rivoluzione mal chiamata “francese”. I fini di essa vennero
particolareggiati dai suoi stessi fautori fin dal principio:
Uguaglianza e libertà erano i diritti
dell’uomo nella sua perfezione originaria e primitiva, assegnategli dalla
natura. Il primo attacco all’uguaglianza fu sferrato dalla proprietà; quello
alla libertà, dalle società politiche o governi. Il solo sostegno della
proprietà e dei governi sono le leggi, religiose e civili. Per restituire
all’uomo quindi i diritti primitivi di uguaglianza e di libertà, sono da distruggere
prima la religione, poi la società civile, e in fine la proprietà.[2]
Il ragionamento non fa
una grinza, sempre che l’idillio descritto dalle penne fertili di Jean Jacques
(1712-1778) e del suo predecessore Thomas Hobbes (1588-1679) sia storicamente
vero. Però nessuno dei due, e meno ancora l’infinito numero di adepti, si è mai
preoccupato dell’esistenza storica
dell’utopía detta Contratto Sociale.
I primi ad attaccare
l’ordine sociale cristiano con successo furono gli Umanisti, intellettuali
paganeggianti del XV secolo; seguì l’attacco morale della Riforma protestante del
XVI, e quello alle istituzioni con la rivoluzione summenzionata. Il medesimo
impegno continua oggi: smantellare qualunque
istituzione con tracce residue di unità in diversità, per sostituirla con altre,
uniformi e uguali. Vi campeggiano, come vedremo, le prerogative di Cesare.
Il suo comando unificato
fu il bersaglio di Montesquieu (1689-1755), che disquisì circa la separazione
dei tre poteri. Non ci volle molto per verificarne i risultati. Nel 1851, in poco
più di 60 anni di politiche rivoluzionarie, così scriveva Pierre Joseph
Proudhon (1809-1865):
Essere governato significa essere
guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato,
recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato,
censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la
scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, ad ogni azione, ad
ogni transazione, ad ogni movimento, annotato, registrato, censito, tariffato,
timbrato, squadrato, postillato, ammonito, quotato, collettato, patentato,
licenziato, autorizzato, impedito, riformato, raddrizzato, corretto. Vuol dire
essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso,
spremuto, mistificato, derubato, e, alla minima resistenza, alla prima parola
di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, braccato, tartassato,
accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato,
giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta
schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della
pubblica utilità e in nome dell'interesse generale. Ecco il governo, la sua
giustizia, la sua morale![3]
La giustizia e la morale stigmatizzate da Proudhon non erano quelle del “governo”
il cui potere si andava affievolendo, ma quelle dello Stato moderno che ne aveva usurpato le funzioni. Ecco come lo
giudicava il filosofo spagnolo Joaquín Costa (1846-1911):
La sola personalità, immensa, gigantesca, schiacciante,
pancosmica, che violando le leggi naturali della società, monopolizza la
legislazione con la legge del più forte.[4]
A 100 anni da codesta seconda citazione, è visibilissimo quel che è
successo sostituendo un comando unificato con un non-comando la cui descrizione
sfida ogni immaginazione.
I libri di testo di quel che passa per “storia” raccontano che dopo un
effimero passaggio di “monarchie costituzionali” siamo arrivati all’agognata
Democrazia insieme all’inseparabile “Stato di Diritto”, al di fuori dei quali
non è che pianto e stridore di denti.
La realtà è ben diversa. I tre poteri li si esercita, ma non separatamente.
Li si esercita temerariamente, cioè a completo casaccio. Innumerevoli leggi e
leggine, cambianti come nuvole, vengono promulgate giornalmente da parlamenti,
capi dell’esecutivo, tribunali più o meno “supremi”, municipi, burocrati
sguinzagliati, e generalmente parlando da chiunque si avvantaggia della “gran
finzione” come la chiamava Frédéric Bastiat (1801-1850) del Governo, attraverso
la quale ognuno si adopera per vivere a spese altrui.
Detto altrimenti, nello Stato di Diritto nessuno custodit ipsos custodes. Valga un esempio: un mirmidone della specie che
pullula in uno dei tanti uffici da dove comanda un pezzettino del fu Cesare, si
pianta davanti ad un impresario che dopo un anno di causa giudiziaria ha
ottenuto sentenza favorevole: “Ci rendiamo conto che il giudice ha sentenziato
a tuo favore, ma ti faremo la vita impossibile fino a mandare a picco il tuo
progetto se non ci dai (qui particolareggiava l’ammontare della mazzetta). Ogni
commento è superfluo.
La
perdita del comando unificato trascinò nella sua caduta il principio monarchico,
mentre si affermava, in una corsa ad ostacoli, quello elettivo. È più facile
seguirne lo sviluppo nella storia ecclesiastica, più lineare di quella civile.
Secondo
una tradizione, S. Pietro scelse personalmente Lino, Cleto e Clemente, i primi
tre successori. Ma presto si passò all’elezione per acclamazione “del clero e
popolo” di Roma, alla quale si aggiunsero “indicazioni” prima degli imperatori
bizantini e poi carolingi. Con le guerre tra i nipoti di Carlomagno, che
segnarono la perdita dell’unità politica, le elezioni papali degenerarono, verso
il secolo IX, in lotte dinastiche tra poderose famiglie romane, ognuna delle
quali mirava a piazzare un rampollo sul trono di Pietro.
Nel
secolo X (“di ferro” ssecondo alcuni) il papato lo gestiva un curioso istituto
che certi storiografi soprannominano “pornocrazia”. Ne erano in carica due
donne della famiglia dei Teofilatti: Teodora e la figlia senatrice di Roma
Marozia, che come suggerisce il titolo poco laudatorio, non andavano tanto per
il sottile nell’uso di metodi poco ortodossi.
Così
che quando l’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III si presentò a Roma
per farsi incoronare dal papa, ne incontrò ben tre, senza che nessuno sapesse
chi fosse quello legittimo. Espulse i tre e nominò papa Clemente II, che lo
incoronò.
Codesto intervento di Cesare nel mettere a salvo le cose di Dio crebbe meno
sopportabile con la nomina di una serie di papi germanici ad opera dei tre
Ottoni I, II e III. Ne seguì una lotta un tanto controproducente tra Impero e
Papato, che affievoliva sempre di più il principio che entrambi avessero il dovere di dare il suo tanto a Cesare quanto a
Dio. E così Papa Nicola II istituì il Collegio di cardinali nel 1059. Da un
lato voleva sbarazzarsi del potere imperiale, dall’altro salvare il salvabile
del principio monarchico. Agì però durante la minoranza di Enrico IV, sotto il
quale le due istituzioni, invece di avvicinarsi, cominciarono ad allontanarsi
l’una dall’altra. Gli storiografi di tendenza guelfa chiamano “libertà” della
Chiesa quella che in realtà fu la sua indipendenza
da Cesare, negandogli il contributo alla nomina del Sommo Pontefice.
Nonostante il cardinalato, Gregorio VII fu l’ultimo papa ad essere eletto
“per acclamazione” nel 1073. Al conosciutissimo confronto di Canossa (1077)
seguì la lotta per le investiture dei vescovi, risoltasi a Worms nel 1122 con
la completa indipendenza della Chiesa dall’Impero.
Fuori dalle due istituzioni, il principio monarchico rimaneva in forza tra
i Benedettini di Cluny, mentre l’elettivo lo promuovevano i Cistercensi di San
Bernardo di Chiaravalle. La debolezza del principio elettivo apparve
all’elezione papale del 1130, cuando un contrattempo provvidenziale salvo la
Chiesa da un papa giudeo.
Fu costui Pietro Pierleoni, romano e nipote di un convertito, che tra il
soborno e l’usura era arrivato al cardinalato. Quell’anno aspettava la morte di
papa Onorio II per essere eletto lui. Ma il francese Aymeric de la Châtre, insieme a un
ridotto numero di cardinali diaconi, presbiteri e vescovi, rapirono il morente
Onorio ad un monastero, ne attesero l’ultimo respiro e immediatamente elessero
papa uno di loro, Gregorio Papareschi con il nome di Innocenzo II. Mancavano
solo tre ore all’altra elezione.
Pierleoni, eletto come Anacleto II, non ottenne l’appoggio dei Cesare della
Cristianità. Nonostante esercitasse un potere de facto a Roma, rimase nella storia come antipapa.
L’intenzione iniziale del Conclave era di ovviare
a codeste debolezze, ma ne sorsero altre. Alla morte di Clemente IV a Viterbo
nel 1268, il tempo de sede vacante si
allungò a 33 mesi, il più durevole della storia. Vi si dibatteva non tanto il
merito personale di questi o quegli, ma se il papa dovesse essere francese o
italiano. Il sindaco e il popolo
viterbesi, impazientitisi con il ritardo, ridussero prima le porzioni di cibo
ai cardinali, e poi scoperchiarono parzialmente l’edificio.
La fame e il freddo ridiressero l’elezione verso
l’arcivescovo di Liegi Teobaldo Visconti, che però si trovava in quel frangente a S. Giovanni d’Acri, in
Crociata con Edoardo I d’Inghilterra. Accettò, ma dovette ricevere le
ordinazioni sacerdotale ed episcopale prima di essere coronato come Gregorio X.
Le sue regole per le elezioni papali rimasero in forza fino al XX secolo, quando le riformò
papa Paolo VI.
Il Cesare Franz Joseph di Austria-Ungheria
intervenne nel Conclave del 1903, impedendo che i porporati elegessero un
massone. Con il salto da 70 a 120 del Collegio cardinalizio decretato da
Giovanni XXIII, l’unica traccia di principio monarchico rimasta nel Conclave fu
il Concistoro Segreto, convocato dal Pontefice per far sì che i cardinali
potessero sviluppare opinioni circa i papabili e conoscersi tra di loro.
Però l’istituto del Conclave si indirizzò sempre
di più verso rappresentare popoli e culture diverse, piuttosto che dare
priorità allo scegliere un papabile. Sparito il Concistoro Segreto, l’elezione
papale è oggi alla mercè del puro caso, effettivamente al capolinea di un percorso
di 959 anni, 1059-2018.
L’assenza di comando unificato ha avuto effetti
più deleteri nella società civile del cosiddetto “Occidente”, ossia i frantumi
dell’antica Cristianità che sopravvivono alle mazzate rivoluzionarie di secoli.
In paesi orientali che hanno fatto caso omesso delle sirene democratiche le
cose vanno meglio, nonostante la proverbiale indifferenza culturale verso la
verità e conseguente libertà.
Mi si permetta una considerazione aneddotica circa
gli effetti sociali di uguaglianza e libertà rivoluzionarie.
Salvo il principio che le analogie non hanno
valore probatorio, esse certamente aiutano a capire che le due ideologie non
uniscono; possono solo dividere. Proprio come fa una certa sabbia.
Il pricipato islamico di Dubai volle costruire
delle isole artificiali sabbiose a forma di chioma di palma, oggi visionabili
in internet. Però i milioni di tonnellate di sabbia locale non servirono allo
scopo, giacché i granelli di sabbia autoctona sono, come le turbe di una
democrazia qualunque, uguali e libere,
cioé perfettamente sferiche. Non
esiste cemento che le faccia aderire l’una l’altra in unità. Però, invece di
abbandonare l’ovviamente folle progetto, il principato importò sabbia dall’Australia, lontana un quarto di circonferenza
terrestre.
Gli effetti della Rivoluzione egualitaria e
libertaria sono analoghi. Tanto le istituzioni quanto gli individui
dell’odierno “Occidente” si assomigliano sempre di più ai granelli di sabbia di
Dubai: liberi da ogni legame, indipendenti l’uno dall’altro, e tanto uguali
quanto inutili per impartire un che di unità a una società.
A chiederci se esista possibilità alcuna di tornare ad un ordine sociale cristiano
di società di società, diverse però unite come l’universo (unum in diversis), sotto un comando unificato e gerarchico,
esprimeremmo pii desideri, ma non faremmo storia. La domanda da fare è
un’altra: è esistito, nei due secoli e mezzo trascorsi, un solo caso di
capovolgimento controrivoluzionario che abbia avuto successo?
La risposta è affermativa, sebbene poco
conosciuta. Il ritorno alla Tradizione, con la sconfitta di metodi e princìpi
rivoluzionari, ebbe luogo nell’Ecuador di Gabriel García Moreno (1822-1875).
Avvenne in una repubblica presidenziale,
non in una monarchia. E il successo fu tale che la Massoneria condannò a morte
Garcia Moreno, facendolo assassinare il 6 agosto 1875.
Seconda Parte: quel che è di Cesare
Il Fuero Viejo de Castilla, un
testo di diritto feudale del secolo XIII, apre così:
Quattro cose appartengono per natura al
re, che non deve né cederle ad altro uomo, né separarsi da esse: la giustizia,
la moneta, il territorio e la sua rendita.
Andiamo in cerca delle quattro,
per verificare che fine hanno fatto.
Giustizia
Che amministrare
la giustizia fosse prerogativa reale non vuol dire che il sovrano si occupasse
di ogni causa civile o penale: in una società organica, cioè composta di
società a tutti i livelli, la giustizia era amministrata il più in basso
possibile. Il tribunale del re era di ultima istanza.
Si
racconta che tre cose piacessero alla regina Isabella di Spagna: a) una donna
incinta, b) un prete che celebra Messa, e c) un malfattore che pende da una
forca. Il pittore senese Ambrogio Lorenzetti (secolo XIV) ha lasciato quattro
affreschi nella Sala dei Nove del palazzo del Governo, due che rappresentano il
buon governo e due il malgoverno. Colpisce che il carnefice del buon governo,
dipinto nell’atto di decapitare un uomo, sia nientemeno che un angelo!
La
visione di giustizia, condivisa dal pittore e dalla regina, era quella di
Ulpiano, giurista romano del I secolo: dare a ciascuno il suo. Per farlo,
bisogna però sapere cosa sia il suo di ciascuno, per non rischiare o di non
darlo, o di dare il non suo, ingiustizie entrambi.
Nel mondo antico esistevano molte versioni della
giustizia di Cesare. L’aggettivo “draconiano” si riferisce a leggi promulgate
dal legislatore ateniese Draco (ca 620 a.C.), che contemplavano la pena
capitale per una lunga lista di delitti, ridotti da Solone al solo omicidio
circa 40 anni dopo. Racconta Erodoto che Cambise II di Persia, nel sapere che
un giudice aveva ricevuto una mazzetta, lo fece spellare vivo, conciarne la
pelle, farne strisce e impagliare con esse la sede giudiziaria, sulla quale
fece sedere il figlio del giudice a mo’ di avvertimento.
La giustizia di Roma non era esente da corruzione
(Ponzio Pilato docet), però mostra la
sua equità poco comune con Claudio Lisia, tribuno della guarnigione di Siria,
che non esitò a mobilizzare una forza di 470 militi per frustrare la congiura
di 40 giudei che si erano promessi di uccidere Paolo (Atti 24). La filosofia
classica chiamava “distributiva” la giustizia che premiava il dovere e puniva
la trasgressione.
I Cesare della Cristianità, nonostante i loro
difetti, facevano entrambe le cose. Il Re Sole Luigi XIV di Francia punì
l’intendente delle finanze Fouquet con l’ergastolo e la confisca dei beni per
malversazione aggravata e continuata di fondi pubblici, coserella oggi generalmente
detta “corruzione”. Si può dibattere –e lo si fa- se la pena imposta a Fouquet
fosse giusta, però seguì a un processo di tre
anni. La differenza è che oggi tutto un sottobosco si abboffa con gli
stessi (o peggiori) metodi dello sfortunato intendente, senza conseguenze
palpabili. Cioè, con Cesare la giustizia in qualche modo funzionava; remota iustitia, faceva notare Agostino,
quid
sunt regna nisi magna latrocinia? La democrazia non ne conosce neanche la
definizione.
Cesare non solo premiava il dovere compiuto, ma
anche si sottometteva alle leggi da lui promulgate. Negli anni Sessanta del XIX
secolo, Franz Joseph di Austria-Ungheria uscì a caccia in una delle riserve
imperiali. A sera, stanco, sudato e sudicio, tornò al padiglione dove soleva
passare la notte, e gli sovvenne che poteva evitare di aggirarlo facendo uso di
una porticina di servizio posteriore. Però una sentinella gli sbarrò il passo:
“Ho ordine di non far passare nessuno” disse il soldato semplice
all’Imperatore. Il quale, senza dir niente, salutò, battè i tacchi e se ne
andò.
Trascorsi pochi giorni, il colonnello fece
chiamare la sentinella: “Sei colpevole” gli disse un tanto severamente, “di non
aver riconosciuto Sua Maestà Imperiale. Pertanto Sua Maestà ti rimuove dal tuo
posto”. Davanti alla faccia afflitta del
giovane, il colonnello seguì: “E ti promuove a sergente. E perché non ti
dimentichi delle fattezze di Sua Maestà, ti manda venti ritratti suoi”. E
consegnò all’attonito nuovo sergente 20 monete d’oro con l’effigie del sovrano.
Si chieda il lettore se qualcosa di simile sia mai avvenuta in regime di democrazia.
L’uguaglianza rivoluzionaria ha devastato la
giustizia di Cesare. Lungi dal dare a ciascuno il suo, dà a tutti lo stesso, prima
però permettendo loro di fare ciò che vogliono, inventando “diritti”
inesistenti e concedendoli a destra e a manca, anche ad animali.
L’Aquinate enumera otto tipi di pena per
altrettanti tipi di delitti. L’uguaglianza rivoluzionaria conosce solo il
carcere e la multa, per omicidio come per lesioni personali gravi, danni alla
proprietà, e per azioni “discriminanti”, nuovo tabù della non-società
egualitaria. Azioni intrinsecamente ingiuste rimangono impunite, per esempio
citare qualcuno in giudizio senza ragione, o estorcere una mazzetta a cambio di
una agevolazione fiscale.
C’è di più: 250 anni di martellìo rivoluzionario
hanno inculcato l’idea che un delinquente politico sia di un genere più
“nobile” della sua controparte comune: da Platone fino al secolo XVIII costoro
venivano considerati nemici del bene comune, e giustiziati senza tanti ambagi.
Molti dei loro nomi decorano (se è il termine giusto) strade e piazze di città
che devono proprio a loro il disordine sociale che le attanaglia.
La libertà rivoluzionaria penalizza e depenalizza
secondo decisioni di “rappresentanti del popolo” crassamente ignoranti di
diritto, quando non secondo decisioni di logge massoniche. Quest’ultimo andazzo
lo si vide dalla sincronizzazione, non di rado a livello mondiale, di leggi a
favore del divorzio, l’aborto e ora la sodomia, che tuttora viene punita con il
linciaggio qua e là in Africa e in Islam.
La moneta
Stiamo per addentrarci in una fanghiglia dalla
quale non usciremo senza difficoltà. Il problema non è politico, sociale,
economico o storico, ma logico e metafisico, e quel ch’è peggio, irrisolto da
due millenni e mezzo. Tenterò di spiegarlo.
Il termine “moneta” o l’equivalente “denaro” da
sempre occulta due funzioni
contraddittorie: mezzo di scambio e riserva di valore.
Invito il lettore a verificarlo hic et nunc: che fa il “denaro” che in
questo momento ha in tasca? Può solo rispondere “è mio, fino a quando non
decida di spenderlo”. Arriva la spesa: quel “denaro” aiuta l’economia cambiando
di mano, ma sparisce dalla tasca del
lettore.
La semplice verifica suggerisce delle
considerazioni.
Prima: l’uso deallo stesso termine “denaro” per
entrambi gli elementi di una
contraddizione non può che generare confusione.
Seconda: spendere, o risparmiare, sono azioni
tanto contraddittorie quanto i termini “mezzo di scambio” e “riserva di
valore”.
Terza: i termini “riserva di valore” e “risparmio” necessariamente
implicano proprietà della “moneta”. La storiella che segue aiuterà a
capire.
Un turista appare alla reception di
un piccolo hotel di una cittadina sonnolenta, con scarsa attività economica e un
debito diffuso. Lascia 100 dollari di caparra alla cassa e va ad ispezionare le
facilità. Il gestore acchiappa i 100 dollari e corre ad estinguere il suo
debito al supermercato; il padrone di questo fa lo stesso con il macellaio, che
agisce ugualmente con il veterinario, che si ricorda di dover proprio 100
dollari alla signora di facili costumi residente all’hotel, dove costei è
debitrice di una somma uguale, che deposita in cassa. Torna il turista,
insoddisfatto di quello che ha visto; riacchiappa i 100 dollari e se ne va.
Analizzando l’accaduto, durante i cinque rapidi cambi di mano della
banconota, questa non ha avuto padrone.
Si è comportata come puro mezzo di scambio, estinguendo debiti per cinque volte
il suo valore facciale. E in assenza di padrone, nessuno avrebbe potuto
sottrarla alla circolazione per imporre un tributo a chi avesse bisogno di
mezzo di scambio: non era altro.
Codesto tributo non è che l’USURA, figlia primogenita della contraddizione
suvventilata, il cancro che sta consumando tutta una civiltà passando
inosservato.
E l’usura, con le sue confusioni, ha generato una seconda figlia: la crematistica, condannata a suo tempo da
Aristotele, ma che è una specie di magia, incantesimo o superstizione che dir
si voglia, cioè la credenza che essere ricco vuol dire possedere molto denaro.
Però è impossibile possedere “denaro”, poco o molto: la sola cosa che si
può possedere è la riserva di valore,
che chiameremo con il suo nome da ora in poi.
Tutta una civilizzazione si è lasciata irretire dall’incantesimo.
Trascinando nella sua caduta gente di ogni lega, da intellettuali più o meno
accademici a strozzini professionisti che circolano camuffati da benefattori
dell’umanità. La confusione concede il titolo di “investitore” a chi, davanti a
uno schieramento di schermi di computer, si dedica a estrarre riserva di valore
manipolando la medesima, senza prestar attenzione (benevolmente parlando) che guadagnare senza lavorare necessariamente
forzerà qualcuno a lavorare senza guadagnare.
La suddetta è la legge inviolabile
della crematistica. Funziona a livello personale, sociale, politico, economico
ecc. Chiamando le cose con il loro nome aiuta a capire.
Orbene, la “moneta” ambigua non può “appartenere”
né a Cesare né a nessun altro. Neanche può il mezzo di scambio, come visto,
però è dovere di Cesare emetterlo,
per esercitare il diritto di
tassazione.
Poco più di un secolo prima della redazione del documento medievale sopracitato,
circolavano, nell’Inghilterra di Enrico I ultimogenito di Guglielmo il
Conquistatore, i tally sticks
(bastoncini combaciantisi), che con una durata di 726 anni (1100-1826)
mantengono ancora oggi il record mondiale di stabilità monetaria. Vediamo come
funzionarono.
Erano i tallies
bastoncini di salice, nocciolo o bosso, di 12 x 3 x 0,8cm circa. Un debitore
scriveva il suo nome sulla parte piatta del tally, vi intagliava tacche
laterali di dimensioni corrispondenti a sterline, scellini e pence, e poi
spaccava il tally longitudinalmente,
lasciando così un doppio testimone infalsificabile
della transazione. La scarsezza cronica di moneta metallica faceva sì che i tallies fossero accettati come mezzo di
scambio, e perfino dallo Scacchiere in pagamento di imposte. La pratica si
estese altrove.
Qui interviene la legge inviolabile summenzionata.
Come puro mezzo di scambio, i tallies
erano inutili come riserva di valore.
Si sottraevano pertanto all’usura: non era possibile prestarli a interesse,
cioè imporre un tributo a chi ne avesse bisogno.
Alla fine della guerra dinastica tra la casata di
York e quella di Lancaster (1485) entrarono le banche nel paese. Queste
immediatamente individuarono i tallies
come ostacoli ai loro disegni, e mossero loro guerra senza indugio. Ci vollero
tre secoli e mezzo prima di vincerla.
Con la fondazione della Banca di Inghilterra (1694)
la guerra si intensificò, ma solo nel 1826 le banche riuscirono a liberarsi dei
tallies per legge. Ritirati dalla
circolazione, vennero immagazzinati negli scantinati del Parlamento. Nel 1834
qualcuno ebbe la malaugurate idea di bruciarli in un caminetto; l’intensissimo
calore appiccò il fuoco all’edificio e lo rase al suolo.
Il secolo XIX vide il passaggio lento ma
inesorabile dell’emissione di mezzo di scambio da Cesare alle banche, che
emettono e manipolano però il cosiddetto “credito”, continuando a muovere
guerra senza quartiere al mezzo di scambio, come testifica la sparizione dei
grossi tagli di euro e di rupie. Il credito bancario copre più del 95% del
potere di acquisto di un paese.
Il credito non è che un atto di fede, con il quale
Tizio, autorizzato dal direttore di una banca ad emetterlo, si ritiene prestatario, impegnandosi a pagare
interesse su una somma che ha contrattato di emettere però che non esiste fino
a quando lui non firma il primo assegno.
La banca, però, non autorizza il prestatario a
creare interesse. Questo lo deve produrre o lavorando di più, o facendo
lavorare di più un altro prestatario, o indebitandosi ulteriormente per
pagarlo. Così che se dieci prestatari autorizzati ad emettere 10mila unità di
riserva di valore dopo un anno devono “restituirne” 11mila, è matematicamente
certo che prima o poi uno di essi andrà in bancarotta.
Quando le banche prestavano contante, correvano
uno di due rischi: lucro cessante,
per non usare loro il mezzo di scambio prestato, o danno emergente, se il prestatario non fosse stato in condizioni di
resteituire il prestito. Con il credito, i due rischi non esistono, e pertanto non esiste ragione per domandare
interesse, o che è lo stesso, imporre usura.
La stessa usura le banche la impongono a Cesare, a
cui “prestano” quello che Cesare stesso potrebbe emettere senza indebitarsi. Ma
i Cesare che tentano di farlo, leggono con attenzione la lunga lista di quelli di
loro che lo hanno tentato, facendo una brutta fine. E i più si astengono.
In ogni caso, sappiamo ora chi ha usurpato la
seconda prerogativa di Cesare.
Il territorio
Una qualsiiasi delle seguenti tre condizioni è necessria e sufficiente per
determinare la proprietà di qualsiasi cosa: o l’hai fatta tu, o l’hai scambiata
con qualcosa fatta da te, o si tratta di res
nullius, cioè senza padrone apparente. A quale delle tre appartiene un
territorio?
Chiaramente non alla prima. La seconda sarebbe difensibile con un titolo di proprietà, se la storia non
insegnasse che all’origine di un titolo fondiario qualsiasi, dovunque, ci si
imbatte in un atto di violenza: una
invasione militare, una espulsione armata, un assassinio, e “formalità” del
genere. Res nullius passerebbe, fino
a riflettere che un fondo non è res,
ma locus, o meglio situs, una delle dieci categorie
aristoteliche.
Ne segue che un titolo di proprietà fondiaria è un costrutto giuridico
senza fondamento in re. Può sembrare
una follia una tale affermazione in
pieno secolo XXI, ma qualunque analisi: storica, filosofica o scientifica,
porta alla stessa conclusione. Vediamolo.
La ragione più naturale è metafisica: la terra,
immortale, non può appartenere a un mortale di passaggio. Ma senza di essa non
si produce ricchezza, dal che segue che ogni essere umano, sebbene mortale, ha
diritto ad occuparne una superficie
che gli permetta di lavorare.
La storia corrobora. Nell’antichità, dovunque nel
mondo, la proprietà terriera era collettiva, non individuale. Ma avvenne che
nelle terre confiscate da Roma ai popoli che ne avevano ostacolato
l’espansione, il diritto romano concesse ai senatori proprietari lo ius utendi et abutendi del possedimento,
che già nel secolo II a.C. poteva chiamarsi latifondo.
È importante afferrare che l’istituto del titolo
di proprietà porta necessariamente
dall’agricoltura intensiva a quella estensiva, cioè al latifondo, grazie alle
differenze naturali presenti in ogni aggregato di esseri umani, sie esso un
municipio, regione, nazione, ecc. Il processo è sempre lo stesso.
Nel momento in cui un proprietario, abile e
operoso, arriva all’uso completo della sua proprietà, si accorge che un vicino,
meno abile o meno operoso, ha trascurato la sua. Gli offre un prezzo attraente,
e così incorpora un secondo fondo all’anteriore. E un terzo, e un quarto...
fino al latifondo. Plinio il Vecchio lamentava che latifundia perdidere Italiam. E Plinio il Giovane faceva notare
come l’intera superficie coltivabile di Egitto fosse proprietà di sei persone
Ma coltivare un latifondo con la manodopera di un
fondo familiare non è fattibile, cosicché il latifondista ne ha bisogno da
fuori. La può attrarre in due modi.
1.
Mantenendo
una grande superficie in proprietà, ma lasciandola incolta. Così paga salari
bassi, che i braccianti non possono rifiutare senza diventare disoccupati;
2.
Affittando la
superficie posseduta, con canoni così alti da non lasciare molta scelta
all’affuttuario tra accettare o andare altrove.
Altrimenti detto, il latifondo ha la schiavitù come compagno inseparabile di
viaggio. Ecco la sola ragione per cui nessuna, ripeto nessuna “riforma agraria” basata sul titolo di proprietà abbia
avuto successo in qualunque epoca o parte del mondo sotto considerazione.
Si impone un’osservazione: il valore reale di
qualsiasi titolo di proprietà è né più né meno che quello della forza fisica,
armata o no, con la quale se ne possa impedire l’occupazione. Cesare, pertanto,
non è che un proprietario fondiario, disposto a difenderne l’integrità con le
forze armate. Ciò fecero i sovrani Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona
nel distruggere a cannonate i numerosi castelli di quei baroni che si
opponevano all’unità politica di Spagna.
Non è difficile verificare come la proprietà
privata del suolo porti a guerre senza fine, quando non inutili e sanguinose.
La storia non racconta molto di più.
Dopo aver accettato il battesimo con il nome di Afonso nel 1491, il manikongo (capo del già Kongo, oggi
Angola settentrionale) Mvemba Nzinga mantenne contatti politico-culturali con
il Portogallo fino alla sua morte nel 1543. I Portoghesi lo onorano ancora come
“Costantino d’Africa” per il suoi meriti di evangelizzatore. Orbene, Re Afonso
si rifiutò sempre di vendere terre
ai Portoghesi. Scherzava con l’ambasciatori di Lisbona: “Castro, qual è il
castigo per chi tiene i piedi a terra”?
Nel
senso contrario un decreto di Costantino il Grande, datato 321, permise ai
terratenenti cristiani di trasferire le loro proprietà (con lo ius utendi et abutendi) alla “Chiesa”.
Stiamo ancora pagando le conseguenze, a volte sorprendenti, di codesta
decisione.
Secondo
quanto affermato poc’anzi la Chiesa, istituzione immortale, può possedere
terra, anch’essa immortale. Sempre che lo scopo della proprietà sia anch’esso
immortale, come costruire edifici di culto et
similia.
Ma il decreto costantiniano riduceva la Chiesa alla sua gerarchia, fatta da
mortali in carne ed ossa come papi. vescovi e clero. I quali, per garantirsi il
vivere di rendita, inventarono il “titolo” di proprietà. Così lo loda Paul
Johnson (1928- )
La
Chiesa ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà, e lo inserì nei
codici legislativi da essa elaborati, e in maniera così indelebile da far
sopravvivere la proprietà alle forme di feudalesimo impostele succcssivamente.
Lo striumento giuridico del titolo (o carta) fondiario, che intesta con
proprietà assoluta tanto l’individuo privato quanto la corporazione, è una delle grandi invenzioni della
storia umana. Insieme alla nozione di Stato di Diritto, si tratta di un
istituto economicamente e politicamente importantissimo. In quanto Tizio è in
condizioni di possedere terra assolutamente, senza qualifiche sociali o
economiche, e in quanto un tale diritto viene protetto, perfino contro io
governo. Dallo Stato di Diritto, Tizio gode di una vera sicurezza di possesso.[5]
Le sperticate lodi di Johnson vanno
leggermente moderate. La “sicurezza di possesso” della qualo poteva parlare nel
1980, viene smentita oggi dai numerosi casi di governi che proteggono gli
occupanti illegali di una supposta “proprietà”. Non è un mistero, ma il
verificarsi della profezia di Rousseau circa la “libertà primitiva” anteriore
all’immaginario Contratto Sociale. I governi seguono i dettati della
Rivoluzione con principi e metodi adeguati al tempo e al luogo. E per di più
puniscono la proprietà con tasse ingiustificate e liberticide.
L’affermazione di Johnson circa
“le forme di feudalesimo imposta alla proprietà” si riferisce,
involontariamente forse, al citato Fuero
Viejo de Castilla. che affermava come la fonsadera appartenesse naturalmente al re, così come lo affermava
il manikongo Afonso Mvemba Nzinga.
La gerarchia ecclesiastica montò su
nei secoli una immensa rete di previdenza sociale, pagata parzialmente con la
rendita delle sue proprietà. Era un modo di mitigare lo ius abutendi mettendo in salvo lo ius utendi. In realta si
trattava di una foglia di fico che nascondeva profonde divisioni sociali: lo
spacco tra il basso e l’alto clero, i privilegi ingiusti accumulati da nobili
che sempre più rifiutavano di accollarsi doveri liberamente assunti,
specialmente quello militare, la mancanza di libertà di movimento, la servitù
della gleba e tantaltro.
Il castello di carte venne giù alla Riforma, che sotto cappa di sola scriptura, sola fides e slogan
pseudo religiosi del genere, fu in realtà manovra di “una masnada di ladri”
come li apostrofava Hilaire Belloc, a caccia di rendite già ecclesiastiche.
La fonsadera non tornò mai più
nelle mani di Cesare, né lo fecero los
yantares, la rendita di ubicazione
della quale tratteremo sotto.
Rendita
La prova più lampante che la rendita sia il prodotto del lavoro umano e non
della superficie del suolo è offerta dagli insediamenti umani abbandonati, ghost towns di tanti film Western.
Dovunque si trovano, li accomuna l’assenza totale di canoni di affitto, o altri
compensi, per occupare qualunque casa, stanza, castello o altro.
I trattati di economia non distinguono abitualmente tra due rendite: una, prodotta del lavoro
del proprietario; una seconda, prodotta dal lavoro di chi vive e opera attorno alla proprietà,
Orbene, codesta seconda rendita (da ubicazione) appartiene in giustizia a coloro che la creano lavorando
nello stesso territorio dove si erge la proprietà. La prima fetta di tale
rendita, come tassa giusta,
pagherebbe un congruo stipendio alle madri produttrici ed educatrici di
capitale umano; il resto pagherebbe per vari servizi pubblici. Il tutto in stretta giustizia.
Vengono spontanee due domande: a) non è questa un’utopia? Perché non
avviene? È fattibile? Le tre domande le risponde un breve resoconto di quel che
avvenne in Libia tr il 1979 e il 2011.
Nel 1979 il colonnello Gaddafi nazionalizzò la terra, le banche e il
petrolio. Non ebbe pertanto bisogno di tassare il valore aggiunto dal lavoro dei cittadini; tassò invece quello sottratto alle risorse naturali del
paese. Nel 2011 la Libia era il paese più prospero d’Africa: elettricità,
istruzione e sanità erano gratis;
gli agricoltori ricevevano terra, attrezzi agricoli, il primo bestiame e le
prime sementi gratis; la banca nazionale
offriva un prestito di 50mila dollari senza interesse ai contraenti matrimonio;
la benzina costava 14 centesimi di euro al litro. E come se fosse poco, in 25
anni di lavoro silenzioso e ininterrotto, 1986-2011, si era costruito il Gran
Fiume Artificiale, un acquedotto di 6mila km con tubature di 4m di diametro,
che dalle profondità freatiche di Kufra convogliavano acqua alla cosa
mediterranea. Il tutto senza chiedere un centesimo in prestito a nessuno.[6]
È tutt’altra storia nel Regno Unito, dove le cose vanno in senso opposto.
Nel 2016 la rendita del paese ammontava a 493
miliardi di sterline, senza che nessuna andasse a impinguare lo Exchequer,
l’erario pubblico britannico. La intascarono i discendenti dei landlords ai quali Enrico VIII aveva
dissennatamente venduto le terre di
900 monasteri distrutti dal suo scagnozzo Thomas Cromwell nel 1536-1541. Cesare
aveva ceduto il diritto di sovranità sul suolo a cambio di effimere somme
sprecate in guerre inutili. E ne aveva rinforzato la sicurezza con... titoli di
proprietà!
Ecco la patata bollente tra le mani di Mme May, che continuerà a bollire in
quelle del suo successore chiunque egli (or ella) sia. Brexit non risolverà il problema se chi lavora verrà sottomesso a
tasse che, come un tapis roulant,
forzano i creatori di rendita a correre sempre piu veloci per rimanere nello
stesso posto.
Nel lontanissimo 1899 Thorstein Veblen
(1857-1929), economista norvegese emigrato negli Stati Uniti, pubblicò Theory of the Leisure Class, dove
dettagliava il “consumo cospicuo” di tutta un’accozzaglia di persone con più
denaro (riserva di valore, non dimentichiamo) che buonsenso. Ma gli sfuggì la
natura di un tale consumo come rendita della fonsadera di Cesare. Detto consumo è visibilissimo: costosissimi
yachts da crociera, auto Ferrari, Rolls Royce ecc., abiti e profumi griffati,
viaggi senza meta eccetto ostentarli in faccia a rivali, e capricci quanto più cospicui
e cari tanto meglio. Un duca britannico morì nel 2018 lasciando un’eredità di otto miliardi di sterline. Ecco dove
dovrebbe rivolgersi l’attenzione di chi lamenta “non ci sono soldi” per le
spese pubbliche. Ci sono e come, ma non dove dovrebbero essere.
Che il lettore tragga le sue conclusioni, e
smettiamo di lamentare il divario tra i ricchi e i poveri. Aver sottratto a
Cesare l’emissione di mezzo di scambio e la rendita di ubicazione del suolo è causa
più che sufficiente per portare un apparente mistero alla luce del sole.
29 settembre 2018
[1] Nonostante gli sforzi della cosiddetta “comunità internazionale” che tenta imporre
loro il sistema centralista occidentale, senza riuscirci.
[2] Augustin Barruel (1741-1820). Citato da H.
Delassus, in Le problème de l’heure
presente, XIII 4.
[4] Citato da J. Vallet de Goytisolo, in Verbo n. 561-562 (2018) p. 104.
[5] “Is there a Moral Basis for Capitalism?” in Democracy and Mediating Structures, ed. Michael Novak (Washington D.C.: American
Enterprise Institute, 1980, p. 52). Neretto aggiunto. Corsivo nell’originale.
[6] Il contenuto del paragrafo è verificabile in Rete. La política economico-sociale
del colonnello è reperibile nel libretto The
Green Book, di 33 pagine, scaricabile.