UNA “PANDEMIA”
PER CAPIRE
I TRUCCHI DEI SISTEMI MONETARI
E DELLA COMUNICAZIONE
DI
SILVANO BORRUSO
ECONOMIA,
POLITICA E CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME
1.
Economia, definizioni e storia
Gli uomini ingannano a volte, le apparenze spesso,
per non dire sempre. Ecco perchè analisti di tutte le leghe, storiografi
incastonati e blogghisti variopinti marciano imperterriti senza percepire a) la
frode della definizione accademica dell’economia, b) la sua doppia natura, c)
la sua deliberata confusione con la crematistica, e d) dulcis in fundo, il perdurare di una questione fondiaria tuttora
irrisolta. Codesta multiple cecità impedisce di accorgersi che parecchio di
quel che passa per “moderno” ha secoli, quando non millenni, di presenza
storica.
La frode
Dal 1945 più o meno, si viene definendo l’economia
come “assegnazione di risorse scarse”. E nessun studente si alza dicendo:
“Prof, ci potrebbe dare un solo esempio di risorsa naturalmente scarsa”? Sotto
pressione, il Prof dovrebbe ammettere che una tal cosa non esiste, e che se una
risorsa scarseggia non è colpa della natura, ma di interessi creati che traggono
vantaggio da quella scarsezza artificiale,
creata da loro stessi o dai loro mirmidoni.
La frode perdura. La parola apparentemente innocua
“assegnazione” nasconde l’insinuazione totalitaria che essa sia compito per
“esperti”, cioè burocrati assortiti, e che un padre di famiglia, un artigiano,
un agricoltore, un pedone, una casalinga e via aggiungendo, non abbiano né
qualifiche né autorità per “assegnare” alcunché. Questo tanto per cominciare.
La doppia natura dell’economia
La vecchia definizione di economia era “Scienza
della produzione e distribuzione di ricchezza”, quest’ultima definita da
Frédéric Bastiat (1801-1850). L’economista francese si accorse che tutta la
ricchezza reale consiste alla fin dei conti di servizi, o offerti da persona a
persona (insegnamento, cure mediche ecc.), o incorporati in oggetti chiamati
“beni” (orologi, scarpe ecc.). Con il rasoio di Ockham (entia non sunt multiplicanda sine necessitate), Bastiat ridusse
“beni e servizi” a “servizi”.
Definiamo ora l’economia. Henry George (1839-1897),
nel trattato incompiuto di economia politica, fece notare che la produzione e
distribuzine di ricchezza sono due
scienze, non una.
Produrre ricchezza è un fatto fisico con due fattori di produzione: terra sotto i piedi e lavoro,
che modificando l’ambiente produce non solo servizi, ma anche capitale, cioè un tipo speciale di beni
non destinati al consumo ma a produrre ulteriore ricchezza (cesto, coltello,
ago e filo, ecc.). Distribuire ricchezza, in cambio, è affare morale, anch’esso con due fattori di
distribuzione: salari e rendita.
L’affare è morale perchè “distribuire” significa decidere quanta ricchezza prodotta e in
che forma vada a parare nelle tasche dei suoi produttori, e quanta in quelle di
personale non produttivo (burocrati, militari ecc.) il cui stipendio deve uscire dal prodotto del lavoro
altrui. Ogni tale decisione è un atto umano, libero e responsabile, o
irresponsabile secondo il caso; pertanto giusto o ingiusto.
Orbene, vi sono tantissime maniere di distribuire
la ricchezza creata da chi lavora: la tassazione in primis, ma anche la corruzione, il commercio, il contrabbando,
l’inganno, il furto, il gioco d’azzardo, e una lunga serie di eccetera che
sarebbe noiosissimo tentare di esaurire.
Se è questione di efficienza pura e dura, tralasciando
la moralità, alcuni di essi la fanno da asso vincente. La corruzione unita al
buon gusto, per esempio, può lasciare monumenti imperituri, come il magnifico chateau di Vaux-le-Vicomte costruito con
denaro malversato dall’Intendente di Finanza del re Luigi XIV Nicolas Fouquet
(1615-1680), che però pagò per la sua condotta impropria con l’ergastolo e la
confisca dei beni.
Confusione con la crematistica
Qualche lettore si è forse sentito a disagio nel
notare la totale assenza del denaro nel discorso precedente. È così perchè il
denaro non è che invenzione – certamente utilissima- dello spirito umano,
capace di aiutare l’economia se usato secondo giustizia, o di rendersene
padrone con conseguenze negative da analizzare infra. Qui facciamo notare la confusione, diffusissima, tra
l’economia, scienza basata sul lavoro, e la crematistica, o superstizione, che
essere ricco equivale a possedere molto
denaro.
Cominciamo quindi dimostrando la fattibilità di
una economia senza moneta, ma non quella di una moneta senza una economia che
la sostenga. Valgano due esempi, entrambi storici.
Una economia senza moneta fiorisce, hic et nunc, in migliaia di chilometri
quadrati di regioni aride e semiaride confinanti: il nord del Kenya, nordest
della Somalia, l’est dell’Uganda e il sud del Sudan. Le tribù pastorizie
semi-nomadi posseggono milioni di capi di bestiame come unica fonte di ricchezza.
E senza suddivisione di lavoro non hanno bisogno di moneta.
Una moneta senza economia ebbe un’esistenza fugace
100 anni fa, in circostanze che vale la pena ricordare. Allo scoppio della
prima guerra mondiale, il governatore della colonia tedesca del Tanganyika Herr
Schnee si era proposto di non svegliare i cani che dormono, prima perchè una
guerra tra forze armate germaniche e britanniche non era di interesse alcuno
per gli africani, e poi perchè le forze armate del Tanganyika ammontavano a non
più di 4000 askari africani, al
comando del generale von Lettow (1870-1964) coadiuvato da 200 sottufficiali tedeschi,
assolutamente insufficienti per qualsiasi azione bellica di rilievo.
Ma von Lettow aveva altre idee: “Dobbiamo
attaccare i britannici” disse al governatore.
-
Lei è matto.
-
Nossignore;
non è questione di battaglie campali, ma di costringerli a sottrarre quanto più
personale combattente dal teatro di guerra europeo, così da indebolire il loro
sforzo bellico colà e tenerli in Africa con azioni di guerriglia.
Von Schnee si convinse, e tutto il personale
germanico, militari e civili, uscirono da Dar es Salaam verso la savana, in
puro spirito di avventura.
Tra i bagagli che il governatore voleva portare
con sé erano delle casse piene di moneta coloniale tedesca. Questa volta fu il
generale a dar del matto al governatore:
-
Signore, è
una follia. Questo non è denaro, è carta straccia. Nessuno lo accetterebbe in
pagamento di alcunché.
-
No, generale.
Il denaro ha valore intrinseco, è prezioso per se.
-
Bene, signore,
un bel giorno gli appiccherò il fuoco con le mie mani.
Dopo un paio di anni di facchinaggio inutile di Träger stanchi e sudati, von Lettow
mantenne la promessa. Q.E.D. Una moneta senza una economia che la sostenga vale
zero.
La superstizione di Creso
L’idea di Schnee che il denaro avesse “valore
intrínseco” l’aveva presa il buon uomo da una decisione di Re Creso di Lidia
(m.546 a.C.), di monetizzare una lega naturale di oro e argento chiamata electrum abbondante a quei tempi nelle
sabbie del fiume Pactolus in Asia Minore.
Che un “valore intrinseco” sia innecessario lo
avevano capito secoli prima statisti come Licurgo di Sparta e Numa secondo re
di Roma, che monetizzarono metalli vili come il ferro e il rame. I cinesi, a
loro credito, non monetizzarono mai l’oro.
Ma gli artigli della superstizione di Creso sono
tali che ancora oggi, incredibilmente, esiste un assurdo World Gold Council che fa pubblicità della stessa scapigliata idea.
Le monete di Numa, Licurgo e degli imperatori
cinesi erano esclusivo mezzo di scambio. Quella di Creso, al contrario, acquisì
la funzione di “riserva di valore”. Codesta decisione epocale continua a
costare fiumi di sangue, nonché far strame di tutta una civilizzazione.
Tentiamo di capire. Mezzo di scambio e riserva di
valore sono funzioni contraddittorie.
Con buona pace di Hegel e del suo metodo con cui si conclude tutto e il
contrario di tutto, “contraddittorio” vuol dire che se una funzione è vera
l’altra è necessariamente falsa, e viceversa, se una è falsa l’altra è necessariamente vera.
Lo verifichi il lettore. Che fa il denaro che ha
in questo momento in tasca? Agisce come pura riserva di valore. Gli appartiene?
Sì. Aiuta l’economia? No. Però arriva un momento in cui lo spende. Attenzione a
quel che avviene: nell’istante fugace in cui lascia la sua mano per arrivare a
quella del venditore, codesto denaro agisce come puro mezzo di scambio: aiuta
l’economia, ma senza appartenere a
nessuno dei due. Un istante dopo, e si ritrasforma in riserva di valore per
il venditore.
È ora di chiedersi: un compratore è obbligato a
spendere la sua riserva di valore? Evidentemente no. Può risparmiarla fino a
quando vuole spenderla. Ma un
venditore, è obbligato a vendere la sua mercanzia? Ebbene sì, sotto pena di
vederla marcire, ossidare, passare di moda, rubare, incendiare ecc. in un
elenco senza fine di disgrazie naturali o artificiali.
Così che la tanto strombazzata “legge” di domanda
e offerta non è affatto legge. La domanda, sostenuta da riserva di valore
imperitura, ha un vantaggio indebito sull’offerta, sostenuta dai rischi
sunnominati. Il venditore, costretto a vendere da circostanze fuori dal suo
controllo, deve pagare un certo tributo
al possessore di riserva di valore, non sempre in termini di moneta che gli
esce di tasca, ma di mancato guadagno o di altri inconvenienti
Chiamando le cose per il loro nome, caro lettore, codesto
tributo non è che usura, così definita
da Silvio Gesell (1862-1930).
Questa nasce agli scambi e non ai prestiti, come si crede ab immemorabili. L’interesse che il prestatario paga al prestatore
è una delle tante forme di tributo
usurario, ma niente affatto l’unica. Quante siano alcune di esse lo si vedrà
dopo aver studiato il grafico seguente.
La curva A rappresenta l’incremento degli esseri
viventi: rapidissimo al principio, arriva presto all’equilibrio. In economia, A
rappresenta ogni attività agricola e para-agricola.
La curva B è quella dell’incremento industriale.
Intersecandosi con A nella decade indicata (Inghilterra e America), marcò
l’inizio del consumismo, e di una pubblicità diretta a creare bisogni fino
allora sconosciuti.
La curva C è l’esponenziale dell’interesse
composto, anima dell’usura. Moderata al principio, prima o poi si impenna quasi
verticalmente, trascinando con sé il resto dell’economia. Intersecandosi con A
determina la distruzione del medio ambiente per pagare interessi crescenti;
intersecandosi con B istituzionalizza l’economia di guerra, cioè produrre per
distruggere, la sola in condizioni di pagare un interesse crescente
all’infinito.
L’industria bellica apre la sfilata come unica
industria ancora di casa negli Stati Uniti, dove garantisce occupazione a circa
60mila disegnatori e produttori di strumenti di morte.
Segue la sottrazione di contante dall’economia,
che inevitabilmente danneggia le forze del lavoro per favorire quelle
dell’usura. Non tratto di risparmi famigliari, ma di somme ingenti come negli
esempi che seguono.
Il 30 marzo 1925
il ministro dell’economia del primo governo Mussolini Alberto De Stefani fece
bruciare in piazza, a Milano, 320 milioni di lire in contanti “per combattere
l’inflazione”, secondo un mantra ancora oggi in auge, ma che esaspera la
secolare lotta di classe tra le forze del lavoro e quelle dell’usura. L’anno
seguente, 1926, quattro usurai
convinsero il Duce che il tasso di scambio con la sterlina britannica, arrivato
a 154:1 dati i salari remunerativi che favorivano le forze del lavoro,
“toglieva prestigio” all’Italia, dove quattro anni prima quel tasso era di
90:1. Il Duce, digiuno di economia, cadde nel tranello e decretò il ritorno a
“Quota 90”. La cosa favorì la compra di materiale bellico, ma fece affondare
centinaia di piccole e medie imprese.
Il gigante
Microsoft si vanta di tenere 56 miliardi
di dollari in contante pronti per fronteggiare “un possibile anno senza
vendite” dei suoi prodotti.
Nel luglio 2002
moriva a Londra il banchiere Lord Weinstock. Diceva il necrologio in The Economist che nel caveau della banca giacevano “diversi”
(several) miliardi di sterline in
contanti, con lo scopo di convincere i clienti della sua solvibilità. Se several avesse voluto dire più o meno
sette, Lord W. avrebbe potuto pagare per la costruzione del tunnel sotto la
Manica in contanti e alla consegna, secondo il preventivo iniziale di sette
miliardi. Invece, l’impresa costruttrice dovette indebitarsi con un consorzio
di 200 banche. Ecco perchè un biglietto Londra-Lille, una distanza di circa
300km, costa 200 sterline invece delle più o meno 20 che costerebbe senza
usura.
Ciò a cui mirano le banche, senza ancora ottenerlo
ma muovendogli una guerra che si protrae da mezzo millennio a questa parte, è
la totale eliminazione del contante, ultimo baluardo di libertà economica. Lo
aveva profetizzato Lord Acton (1834-1902), Chief
Justice del Regno Unito nel 1875:
La questione che
si trascina da secoli, e per la quale prima o poi bisognerà combattere, è
quella del popolo contro le banche.
Eccola,
davanti ai nostri occhi: l’usura, che esaspera la lotta di classe e che le
banche praticano surrettiziamente semplicemente chiamandola “credito”. Vediamo
come funziona.
Tu,
lettore, chiedi un prestito alla tua
banca, diciamo, di 100mila euro. Ebbene, “prestare”, dice un dizionario
qualsiasi, vuol dire
“Dare qualcosa a
qualcuno perchè lo utilizzi durante un certo tempo, per poi restituirlo.”
Il
prestito viene autorizzato. Cosa ti dà la banca per utilizzarlo durante un certo tempo? Non moneta sonante e
contante, ma un libretto di assegni, allo stesso tempo registrando la cifra di
100mila euro come “prestito a…” in una colonna e “deposito da…” in un’altra.
E tu,
lettore, ora divenuto “prestatario”, non fai che immettere nell’economia potere
di acquisto sotto forma di assegni fino alla somma di 100mila euro. In cambio
ti impegni a pagare un certo interesse da un anno dalla concessione del
“prestito”. Se tardi a pagare, si scatena il meccanismo dell’interesse
composto, osservato nel grafico supra.
Scrutiamo
l’operazone al rallentatore per prendere coscienza dell’irreale dell’accaduto.
Primo:
la banca non ti ha prestato un bel nulla. Non si è privata di niente per
fartelo usare durante un certo tempo.
Secondo:
le cifre che tu scrivi su ogni assegno trasformano un semplice pezzo di carta
in mezzo di scambio, equiparato a moneta ufficiale dello Stato.
Terzo:
prima del 1609, data fondazionale della Banca di Amsterdam, le banche
prestavano realmente, cioè si privavano
di denaro fisico per farlo usare ad altri. Così facendo correvano un doppio
rischio: lucrum cessans, cioè rinunciavano alle somme trasferite al
prestatario, o damnum emergens, cioè
che il prestatario, per qualsiasi motivo, non restituisse il denaro preso in
prestito. Ma con il credito nessuna delle due condizioni si verifica. Non vi è
prestito, pertanto non vi è rischio. A che titolo la banca pretende interesse?
La
risposta evidente è: nessuno. Ma le banche hanno codesto potere, usurpato dal
potere politico secoli fa e oggi praticato sempre più sfacciatamente. E ce
l’hanno a tal punto, che perfino “prestano” ai governi, rinchiudendoli in una
gabbia infernale dove l’usura domina tutto, imponendo tributi a destra e a
sinistra. Valgano gli esempi che seguono:
La
disoccupazione, forse il tributo più crudele imposto dall’usura all’umanità. Non
esisteva una tale piaga prima della
tanto strombazzata Rivoluzione Industriale, che introdusse invenzioni di
indubitabile utilità, però che strappò alle famiglie i mezzi di produzione di
beni di prima necessità, cioè cibo, vestiario e costruzione, e quelli di
distribuzione, come il piccolo negozio all’angolo.
Nel tardo secolo
XIX Vilfredo Pareto (1848-1923) osservò che un paese industrializzato non
bisognava di più del 20% della sua forza lavoro per coprire il 100% dei suoi
bisogni. Codesta scoperta la si conosce come “primcipio” di Pareto.
Riflettendo, non si tratta di principio come punto di partenza, ma di una
costatazione, cioè di punto di arrivo.
Il
problema insolubile che da allora aleggia attorno ad ogni economia è, “e che
fare con il resto”? Si è tentato di tutto: burocrazie civili e militari
smisurate, posti di lavoro fantasma dove si percepisce uno stipendio senza far
molto che lo giustifichi, eccetera. Gli è che il furto iniziale ha lasciato sul
marciapiede agricoltori, sarti, calzolai e costruttori a decine di migliaia,
sostituendoli con un modesto numero di impiegati e con macchinaria sofisticata
in supermercati, industrie alimentari, calzaturifici, di vestiario e via
dicendo.
In
valido aiuto a codesto tipo di usura è arrivato, come guanto alla mano, la
cosiddetta “legge” della domanda e
offerta, che riduce il lavoro a “costo di produzione”. Così che questo lo
si retribuisce non in funzione della sua indispensabilità, o della dignità di
chi lo fa, o di criteri di giustizia o di umanità, ma in funzione della sua
abbondanza o scarsezza.
Per
capire l’assurdità di una tale pratica, si consideri cosa avverrebbe in
qualsiasi edificio pubblico, se venissero a mancare per un solo giorno gli incaricati di pulire i servizi igienici. La loro
assenza si noterebbe in questione di ore, e dopo un paio di giorni l’edificio diverrebbe
praticamente inabitabile. Ma siccome chiunque può espletare un lavoro del
genere, lo si retribuisce con salari da miseria, per di più disprezzando,
quando non insultando, chi lo fa.
Paradosso dei paradossi, la maternità, il lavoro più necessario –e duro- non
viene affatto retribuito, giacché metà
della popolazione può espletarlo.
Aggiungiamo
qui l’obsolescenza pianificata,
aspetto dell’economia di guerra del grafico: si manifatturano beni che non
durano, ma ai quali si concede una esistenza ragionevole invece di farli
esplodere come bombe, missili o obici da artiglieria.
I libri
di testo addebitano la famigerata inflazione,
a “troppo denaro in circolazione”. Ma i prezzi aumentano anche quando il
contante scarseggia. Cosa succede? Semplicemente, agisce l’usura. Un
commerciante indebitato non può che alzare i suoi prezzi per pagare l’interesse
composto, inoltrando il rialzo ai
clienti sotto pena di andare in bancarotta.
Segue
una serie di spese innecessarie però obbligatorie da pratiche come
l’impacchettamento, che non permette di comprare roba sfusa o oggetti singoli;
la rottamazione forzata di auto dopo un tempo giudicato tale burocraticamente;
mode che cambiano ogni sei mesi, terrorizzando chi non si conforma;
assicurazioni obbligatorie per legge, ecc. Si volga lo sguardo dove si voglia,
ci si imbatte nell’usura come un vascello si imbatte nelle onde del mare.
Pochi
sono al tanto di quanto pesi l’usura sul mondo dell’energia. Nikola Tesla
(1856-1943), il genio a cui dobbiamo la corrente alternata, nel trasferirsi
negli Stati Uniti dalla sua Serbia natìa ebbe la disgrazia di imbattersi in una
sfilata di biscazzieri e usurai, ai quali non piacque affatto la sua idea di
attingere energia dal cosiddetto “vuoto” cosmico per distribuirla gratis a
tutto il mondo. Il banchiere J.P. Morgan (1837-1913) gli disse in faccia: “Se
non possiamo mettere un contatore di corrente, non ci interessa”. Ecco l’origine
di quei festoni su festoni di cavi elettrici che decorano (si fa per dire) i paesaggi
di tutto il mondo.
Nel 1930 Tesla
smontò il motore a combustione interna di un’auto Pierce Arrow e lo sostituì
con un motore elettrico di potenza equivalente. Un’antenna riceveva cariche
elettriche dal suddetto “vuoto” cosmico; un circuito con dodici valvole
termoioniche sul cruscotto faceva fluire le cariche in forma di corrente,
convogliandole al motore. Tesla guidò la Pierce
Arrow per un giorno intero. Se si fosse commercializzata l’invenzione, non
vi sarebbe bisogno di comprare prodotti petroliferi a prezzi gonfiati
dall’usura nonché da una tassazione iniqua.
Citiamo
ora la Borsa, strumento principe della manipolazione del denaro. Colà si
comprano e vendono pezzi di carta variopinti dai nomi altisonanti di “azioni”,
“valori”, “derivati” ecc. sotto pretesto di facilitare “risparmi e
investimenti”. Il termine “investimenti” non rivela se questi siano in attività
produttrici di ricchezza o in attività speculative che permettono ad alcuni di
imporre tributo ad altri. È usura con un’altra maschera.
Lord Keynes
(1883-1946) non disdegnava la pratica di guadagnare senza lavorare. Prima di
colazione scrutava i listini di Borsa, e con un paio di telefonate ai suoi
agenti di cambio si assicurava un discreto gruzzolo giornaliero.
È
evidente che se si facesse sparire l’interesse, tutto il castello di carte
crollerebbe rumorosamente. Ma come? I fautori della pratica hanno saputo bene
come proteggersi da un tale pericolo. La linea divisoria tra le due classi,
infatti, non è così netta da separarle a vista. Molti tra gli sfruttati si
servono dell’interesse per guadagnare qualcosa proprio speculando.
Fu ciò che
avvenne prima della crisi del ’29. Una propaganda stampa martellante convinse
milioni di lavoratori a “investire” i loro risparmi in Borsa, per poi rovinarli
con una offerta improvvisa di titoli invendibili. L’incantesimo non è affatto
sparito. Ancora oggi migliaia di irretiti considerano perfettamente normale
vivere di interesse.
Il Magistero ecclesiastico e l’usura
Non va male qui un excursus circa
la lotta del Magistero ecclesiastico contro l’usura, mossa durante secoli, ma
definitivamente perduta per combatterla su un terreno scelto dal nemico, e per giunta
con una strategia e tattiche entrambe sbagliate.
L’errore strategico di base fu non aver afferrato la contraddizione tra
riserva di valore e mezzo di scambio come origine del tributo imposto dalla
classe usuraia di chi guadagna senza lavorare a chi è costretto a lavorare
senza guadagnare.
Il primo errore tattico fu non aver localizzato l’usura agli scambi,
giudicandola una questione di soli prestiti.
Il secondo fu di stimare che le pene canoniche avessero un valore
deterrente che si mostrò storicamente infondato.
E così l’usura entrò a gamba tesa nella Cristianità, da cancro che continua
a distruggere una intera civilizzazione. La sua ultima condanna formale risale
al Concilio di Vienne, nel Delfinato, del 1311.
I nobili, che durante l’Alto Medioevo si accollavano doveri extra (e.g. il
militare) che venivano corrisposti con privilegi giusti, cominciarono a liberarsene nello spirito della Magna Charta (1215), il che introdusse
la plurisecolare lotta di classe nella Cristianità stessa.
Il tardo Trecento vide numerosissime rivolte sociali: i Ciompi di Firenze,
i contadini di Wat Tyler e John Ball in Inghilterra, ecc., causate da paghe sottratte
a chi lavorava per convogliarle ai signori che avevano scoperto la fecondità
pratica del denaro. Sempre con meno doveri, i nobili mantennero però i
privilegi, che da giusti divennero ingiusti. Ciò non causò, ma esasperò, la
Rivoluzione dal secolo XVIII ai nostri giorni.
Alla Riforma, furono dei nobili che strapparono al popolo anche la fede, ed
ecco il primo spargimento di sangue tra le due classi. A Frankenhausen i nobili,
aizzati da Lutero, inflissero ai contadini una sconfitta sanguinosa con decine
di migliaia di caduti.
I doveri furono a poco a poco imposti al popolo,
fino a mandarli a perire a milioni in scontri epocali come le due guerre
mondiali del XX secolo.
Menti acute come Dante (1265-1321) capirono
l’essenza del fenomeno usurario. Nella Commedia,
il poeta accomunò sodomiti e usurai nella stessa bolgia infernale, i
primi per sterilizzare l’atto sessuale di natura sua fecondo, e i secondi per
dare fecondità al denaro, di natura sua sterile. Le due pratiche attuano contro
natura in due direzioni opposte.
Nessuno notò la natura usuraria del credito bancario
al suo sostituirsi al contante dal 1609 in poi. Cosicché la Chiesa non lo
condannò.
Un secolo e mezzo più tardi, 1745, Papa Benedetto
XIV promulgava Vix Pervenit,
primissima enciclica nella storia ecclesiastica, vertente precisamente
sull’usura.
Il papa, seguendo la dottrina di S. Tommaso, fa una distinzione importante tra
l’usura come prezzo del
denaro-mercanzia, e l’interesse come tariffa del servizio di chi presta, banca o non
banca.
Ciò ci permette di giudicare l’operato di coloro che
in inglese vengono bollati con il nome infamante di loan sharks, pescecani dei prestiti. Costoro si piantano
all’entrata dei mercati locali, offrendo contante
a chi ne ha bisogno. Chiedono un minimo di interesse del 10% per diem, a volte anche del 20 o 40%. E
l’ottengono, nonostante le condizioni precarie tanto del prestatario quanto del
prestatore! Come tasso di interesse sarebbe mostruoso, ma come tariffa per il
lavoro duro e sfiancante di dover racimolare un contante reso deliberatamente
scarso da politiche bancarie usurarie, il loro operato entra nei termini dell’enciclica
benedettina.
Il 1830 segnò il trionfo dell’usura sul Magistero. Interpellata
la Congregazione competente (sotto Gregorio XVI) circa un caso di conscienza,
la risposta fu di non inquietare “inopportunamente” i penitenti. Da allora, il
termine stesso “usura” è sparito dai documenti pontifici, salvo un accenno in Quadragesimo Anno di Pio XI (1931).
Non c’è da sorprendersi. Come si può giudicare
qualcosa che non si sa cosa sia?
Il trionfo di Marx
La zuffa tra Proudhon (1809-1865) e Marx (1818-1883)
viene menzionata (quando lo viene) in sordina nelle facoltà di economia. I socialismi
dei due non coincidevano affatto.
Proudhon capì perfettamente non solo l’usura, ma
anche il latifondo, e l’uso perverso del denaro a ragione dei due fenomeni.
Diceva: “Il denaro non è la chiave che apre le porte del mercato: è il
chiavistello che le sbarra”.
Marx fece uso della conosciutissima
arte di cambiare il nome delle cose, a cominciare dal suo proprio. Kiessel
Mordechai Levy, un tanto ostico alle
orecchie del pubblico, divenne Karl Marx, breve ed eufonico. Poi chiamò capitalismo l’insieme di pratiche già
analizzate che impongono tributi indebiti a chi lavora, e occultò usura,
usurai, latifondisti, nonché la lotta di classe plurisecolare sotto una coltre di
pomposità semicomprensibili.
Tra le quali spicca una spettacolare
non causa pro causa: il Capitalismo
come effetto della proprietà privata dei mezzi di produzione! Egli o non vide,
o non volle vedere, il furto di questi mezzi alle famiglie da parte di grandi
conglomerati, antenati di una industria produttrice e spacciatrice di cibo
spazzatura, di medicine che uccidono, di bruttezze artistiche di ogni tipo,
ecc. E propose di trasferirne la produzione allo Stato, con i disastrosi risultati
sovietici del settantennio 1917-1989.
Una divisione più razionale sarebbe
stata chiamare Grande Usura l’insieme delle pratiche suddette, e usura simpliciter quella riservata ai prestiti
ad interesse. Ma tant’è.
Poi si inventò, di sana pianta, una
lotta di classe fittizia tra datori di lavoro e operai, classica applicazione
di divide et impera. Il marxismo
appare così in tutta la sua crudezza di foglia di fico che copre le vergogne di
chi si arricchisce senza lavorare.
La zuffa tra Proudhon e Marx fu
interrotta dalla morte prematura del primo, ad appena un anno dalla pubblicazione di Kapital. Il campo di battaglia rimaneva sgombro per Marx, che da
trionfo in trionfo ha finito per dominare l’insegnamento dell’economia nella
gran maggioranza delle facoltà accademiche occidentali. Non è difficile capirlo:
usurai e latifondisti guazzano nell’ombra, dalla quale finanziano lautamente un
esercito di ammiratori della gran foglia.
Milioni di seguaci, generalmente limitati,
quando non privi, di capacità di analisi –e a
fortiori di sintesi- vagliano Das
Kapital, ma disattendono il documento che veramente segna il trionfo di
Marx
nella geopolitica dei secoli XIX – XXI: il Manifesto
Comunista del 1848.
I dieci punti programmatici comprendono
2. Imposta sul reddito (pesante, progressiva e graduale), 5. Banca centrale
(per controllare il credito della nazione, non per facilitare mezzo di scambio
a chi lavora), e 10. Istruzione obbligatoria e gratuita, i cui disastri stanno
davanti agli occhi di tutti. L’implementazione globale del Manifesto dovrebbe dar da pensare.
L’ingresso dell’usura nella
Cristianità segnò la fine di pratiche culturali come l’ozio creativo motore di
costruzioni di cattedrali e monumenti di alto valore artistico, l’inizio del
culto della bruttezza nelle arti figurative ed estetiche, e altro.
Ritornanndo ad economia e politica,
è da allora sempre più chiara la differenza tra due tipi di governo: quello che
protegge il popolo contro le forze dell’usura, e quello che lo opprime in
combutta con esse. Tertium non datur.
Accanto al socialismo genuino originario
di Proudhon e quello truffaldino di Marx (non per niente lo bollava Henry
George come prince of muddleheads)
vi è l’intervento statale nell’economia, caldeggiato dall’enciclica Rerum Novarum ma osteggiato da
latifondisti, usurai e compagni d’arme.
Il successo più spettacolare di quest’ultima
politica spetta alla Cina, che in 20 anni ha surclassato –e continua
surclassando- tutte le economie occidentali a cominciare dagli Stati Uniti. La
ragione è semplice: la Cina si è scossa
di dosso l’usura, emettendo moneta ad interesse zero per opere pubbliche
generanti ricchezza. Non lo sbandiera in altrettanti termini, ma chi vuol
controllarne lo sviluppo 2000-2020 non ha che da fare una rapida ricerca in
Rete.
I cinesi hanno capito quel che gli
occidentali offuscano sotto un linguaggio fuorviante. Economisti di grido ripetono
Keynes parlando di deficit spending
come mezzo per finanziare infrastrutture, enfatizzando che non è necessario
farlo con il ricavato delle imposte. Il che è vero, ma non nei termini veri del
problema.
I quali sono che esistono due tipi
di spese pubbliche: produttive e improduttive. Tra queste ultime campeggiano
gli stipendi dei militari, le spese per materiale bellico, il mantenimento di
una burocrazia anche necessaria, ecc. Se si stampasse moneta per pagare tali
spese, evidentemente ne seguirebbe una inflazione imparabile.
Ma stampare moneta per spese
produttive come viabilità, industrie, o anche bebé futuri possessori non solo
di bocche che mangiano ma anche di braccia che lavorano e teste che pensano,
non produce inflazione; semplicemente fa aumentare i mezzi per scambiare ricchezza
pari passu con l’incremento della
medesima.
2.
Latifondo, schiavitù e amenità collaterali
Le disgrazie non
vengono mai sole, dice un noto proverbio. Per chi conosce la storia dell’usura
e del latifondo, è difficile giudicare quale dei due abbia causato più danno
all’umanità. Per chi non la conosce, la prima fa un certo senso; della seconda
forse non sospetta neanche l’esistenza, o la considera risolta da secoli.
Il cardine della
questione è la proprietà fondiaria, cioè l’insieme di diritti che un individuo, o una comunità, possono
esercitare su di una superficie territoriale determinata. Non la si creda una
questione facile da dirimere. Cominciamo con un paragrafo di Paul Johnson
(1928-), saggista, giornalista e storico britannico:
“Considerando che la storia della
proprietà fondiaria collettiva si perde nelle nebbie dell’antichità, quella
della proprietà assoluta ha un chiaro inizio storico.
La proprieta assoluta era
sconosciuta tra gli invasori barbari; era sviluppata a Roma e a Bisanzio, ma
imperfettamente. La Chiesa ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue
proprietà, cosicché la incorporò nei suoi codici legali, tanto indelibilmente da
sopravvivere e sfidare le forme superimposte dal feudalesimo. Lo strumento di
titolo o carta di proprietà, che concede il possedimento assoluto di terra a un
individuo o ad una corporazione privata, è una delle grandi invenzioni
storiche. Insieme al concetto di Stato di Diritto, è economicamente e
politicamente molto importante. Quendo un individuo può possedere terra
assolutamente una volta per tutte, senza qualifiche sociali o economiche, e il
suo diritto su quella terra è protetto perfino contro lo Stato dallo Stato di
Diritto, costui ha una vera sicurezza di
proprietà”.
Le affermazioni
francamente trionfaliste di Johnson fanno parte di un coacervo di opinioni
comuni a molta gente, specialmente se occidentali, però che non regge ad una
analisi particolareggiata. Facciamola, vagliando i suoi punti uno per uno.
Lungi dal “perdersi
nelle nebbie dell’antichità”, ci si imbatte nella proprietà fondiaria collettiva
oggi, viva e vegeta, in molte parti del mondo non occidentale.
Per esempio,
codesto tipo di proprietà lo incontrarono tutti i colonizzatori europei su
terre “nuove” di altri continenti. Il Manikongo
Afonso Mvemba Nzinga (m. 1543), “Costantino d’Africa” come lo chiamavano i
portoghesi, non concepiva che la terra potesse vendersi o comprarsi come res, cosa. Sempre si rifiutò di venderne
ai portoghesi.
La Chiesa
decisamente tentò di “incorporare la proprietà assoluta (freehold) nei suoi codici legali tanto indelebilmente da
sopravvivere e sfidare le forme superimposte dal feudalesimo”.
Modifichiamo
questa affermazione così perentoria di Johnson dicendo che la sfida non sempre
ebbe successo. La proprietà fondiaria collettiva
vigeva nel Regno delle Due Sicilie fino al 1860, l’anno dell’invasione
piemontese. Il diritto napoletano aveva riformato quello feudale, istituendo un
demanio che concedeva a chiunque il diritto di occupazione, ma non di
possedimento. Nove milioni di napoletani vivevano e lavoravano senza bisogno di
emigrare. Ma nel 1861, con l’entrata in vigore del diritto di proprietà
assoluta con le leggi degli invasori piemontesi, milioni dovettero espatriare da un anno all’altro in America per
lavorare.
Jean-Jacques
Rousseau (1712-1778), nella stessa traedizione però intestardito dalla sua
mancanza di volontà per pensare (ammessa da lui stesso) e dal suo odio
anticattolico, aggiunse dei tocchi infausti circa l’inizio della proprietà
assoluta:
“Il ;primo a cui venne in mente
di recintare un plotto chiamandolo “suo” per i sempliciotti che gli credettero, fu il
vero fondatore della società civile”. Continuava facendo notare come la
proprietà assoluta fosse fonte di tutte le ineguaglianze, e che ogni legge,
tanto civile quanto ecclesiastica, esistesse per proteggere codesto diritto.
Pertanto, proponeva il sognatore, “per tornare all’uguaglianza primigenia
bisogna prima far strame della religione, poi dell’ordine sociale, e infine
della proprietà”.
È il
programma della Rivoluzione, che con il fenomeno delle occupazioni abusive
tollerate da governi che chiudono un occhio, sembra aver raggiunto la sua
ultima tappa.
Ora, se un
fenomeno di portata così universale come la proprietà collettiva, anche se sconosciuto, occultato da “nebbie
dell’antichità”, o da supina ignoranza come quella di Jean-Jacques, merita una
analisi per verificare se è giustificabile filosoficamente. Vediamolo.
Dicono i
manuali di diritto che vi sono tre maniere di possedere una “res” assolutamente. Prima, facendola con
le proprie mani; seconda, scambiandola con qualcosa fatta da un altro; terza,
se è res nullius, una cosa abbandonata senza un proprietario
tracciabile.
Orbene,
quale delle tre sarebbe applicabile ad una parcella di terra?
Sembrerebbe
che la terza; riflettendo, però, una parcella non è res, cioè sostanza; è locus,
o meglio situs tra le categorie
aristoteliche.
Si
rifletta anche che la terra è immortale. La si trova alla nascita, la si lascia
alla morte. Non è pertanto naturale che un mortale la possegga con diritto
assoluto. Chiunque ha il diritto di occuparla per lavorare, ma non di
comprarla o venderla come se fosse res,
cosa. Chi dunque può possedere terra naturalmente e assolutamente? Un essere
altrettanto immortale: una comunità
di qualsiasi natura.
Devo
ammettere di aver provato un certo disagio nel raggiungere una tale
conclusione, ma non vi fu modo di schivarla senza far violenza alla ragione.
Per cui l’onestà intellettuale mi obbligò a continuare con i suoi corollari,
che condivido qui con i lettori in cerca di verità.
Il “chiaro
inizio storico” della proprietà assoluta, quindi, non fu “la Chiesa che ne
aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà”, come afferma Johnson, ma
Roma, in circostanze tutt’affatto diverse.
Quel che
fecero i piemontesi a Napoli nel 1860 lo aveva fatto Roma 22 secoli prima,
espellendo dall’Italia Centrale le tribù che avevano ostacolato la sua
espansione, e che punì con la confisca delle terre.
Ciò ci
permette di verificare quel che Henry George afferma in Progress and Poverty: all’origine di ogni titolo di proprietà, dovunque
nel mondo, si trova invariabilmente un atto
di violenza: un’aggressione militare, una espulsione da parte di un più
forte, un omicidio, una frode, ecc. Titolo di proprietà assoluta e violenza
sono le due facce della stessa medaglia.
Roma
concesse le terre confiscate ai suoi senatori, con tanto di quello ius utendi et abutendi così lodato da
Johnson, ma con la Chiesa tre secoli nel futuro. Sette secoli dopo, quando
alcuni discendenti di codesti proprietari accettarono la fede cristiana, e
sapendo che non avrebbero potuto trasferire la proprietà all’al di là, venne
loro in mente di “lasciarla alla Chiesa”. Il decreto di Costantino che
permetteva loro farlo è datato 321, otto anni dopo l’Editto di Milano del 313.
È ora di
chiedersi: la Chiesa “aveva proprio bisogno”, come afferma Johnson, di titoli
“per la sicurezza delle sue proprietà”? In che senso doveva avere proprietà
“sue” di diritto o di fatto?
Come
istituzione immortale, come già detto, la Chiesa ha un diritto naturale di possedere terre. Sempre, si intenda, che le
attività da sviluppare su queste terre siano anch’esse immortali: culto,
assistenza sociale, et similia.
La Chiesa
tentò di praticare lo ius utendi mettendo
in sordina quello abutendi, però la
storia insegna che non vi riuscì. Somme ingenti di rendita vennero spese in
opere di previdenza sociale come scuole, ospedali, alberghi per pellegrini,
ecc., ma somme altrettanto ingenti andavano a parare nelle tasche dell’alto
clero, vescovi e papi nonché di folle di parassiti non-clericali una cui
analisi, anche incompleta, ci porterebbe fuori dal seminato.
La lotta
per le investiture, è ben saputo, non fece che stabilire una inimicizia
permanente tra il Papato e l’Impero, dove prima c’era almeno una armonia di
vedute, anche se non al 100%.
La caccia
al beneficio caratterizza generazioni di preti desiderosi di vivere senza
lavorare, che alla fin dei conti era l’idea. I seguenti episodi ne mostrano la
variopinta storia.
1155: Arnaldo da Brescia impiccato,
cremato e le ceneri sparse sul Tevere per aver osato di condannare la vita
oziosa dell’alto clero, vescovi e papi. L’imperatore Barbarossa eseguì la
sentenza per crimine di eresia, in una confusione mai risolta tra codeste idee,
che di eresia non avevano nulla, e di vere eresie arnaldine, che nulla avevano
a che vedere con codeste idee.
1253: Robert Grosseteste vescovo
di Lincoln, pochi mesi prima di morire, scrisse a Papa Innocenzo IV, rifiutando
di concedere un beneficio a un nipote del papa, che voleva godere della rendita
del medesimo ma senza vivere in Inghilterra. Il papa accettò la decisione
vescovile senza batter ciglio.
1381: I contadini inglesi si
ammutinarono al comando del laico Wat Tyler e del prete John Ball. La questione era chiara nel ritornello
ripetuto da Ball durante la marcia su Londra: “Quando Adamo zappava ed Eva
filava, dov’era il gentiluomo”? Si percepiva chiara la lotta tra chi si
guadagnava la vita lavorando e chi speculando.
1751: L’abate Ferdinando Galiani
(1728-1787) inviò sette scatole con la sua collezione di minerali a Papa
Benedetto XIV, con la petizione un tanto irreverente di Beatissime Pater, fac ut lapides isti panes fiant, che tradotto
voleva dire, Santo Padre, vediamo se mi concedete un beneficio in cambio di
queste pietruzze, che mi sono costate tanto lavoro raccogliere e catalogare.
La
proprietà fondiaria assoluta creatura del diritto romano non fu innocua neanche
per Roma. Plinio il Vecchio lamentava nel secolo I che latifundia perdidere Italiam, per aver notato a) che il latifondo
ha la schiavitù come contropartita, b) che gli schiavi sono pessimi soldati, c)
che bisogna reclutare mercenari per l’esercito, d) il che indebolisce la capacità
militare della nazione, ed e) determinando la sua sparizione dallo scenario
storico. Lo stesso sarebbe avvenuto con Bisanzio un 1000 anni più tardi.
Le
proposizioni a) –e) sono evidenti; a) non lo è tanto, cosicché va provata. Lo
si può fare osservando il fallimento, monotono, di tutte le cosiddette “riforme
agrarie” dovunque nei numerosi tentativi durante il secolo XX.
Quel che
fa strame di tali riforme non è cattiva volontà, ma un cattivo comprendonio.
Presumono, i fautori di tali riforme, una uguaglianza umana inesistente.
Cosicché dividono un latifondo in un certo numero di parcelle, e le
distribuiscono tra un numero uguale di beneficiari, aspettandosi che costoro ne
facciano uso con uguale abilità e interesse.
Però
avviene che uno dei beneficiari, dotato di tali desiderabili caratteristiche, e
dopo aver fatto uso eccellente della sua parcella, nota che il vicino, o
incapace o pigro o le due cose insieme, disattende la sua, che produce grandi
quantità di erbacce e poco altro. Gli offre un prezzo equo e incorpora un
secondo plotto al primo. In poco tempo si ritorna al latifondo.
Il quale
produce un doppio guadagno al proprietario: a) affittando terre ad un canone
più alto possibile; b) contrattando manovalanza a salari più bassi possibile, o
le due cose quando la proprietà è sufficientemente estesa per permetterlo. In
entrambi i casi, si fa lavorare senza corrispondere la giusta mercede: è
schiavitù camuffata sotto spoglie più o meno magiche.
Non finiscono qui le caratteristiche della proprietà fondiaria privata. Nel
definire l’economia, dicevamo che il lavoro umano produce non solo salari, ma
anche rendita, valore aggiunto alla
superficie territoriale del paese. Ogni parcella, quindi, produce due rendite, non una. La minore è prodotta
dal lavoro del proprietario: raccolti, costruzioni, o qualunque attività
economica personale. In giustizia, questa prima rendita gli appartiene al 100%.
La maggiore, al contrario, non la produce il proprietario lavorando nella proprietà, ma tutti coloro che lavorano
attorno ad essa, qualsiasi cosa
facciano. È la rendita da ubicazione, direttamente proporzionale alla densità
di popolazione della zona.
In giustizia, se codesta virtù
presiedesse l’azione politica odierna, questa seconda rendita dovrebbe
aggiungersi alle paghe di coloro che la creano, non necessariamente in forma
monetaria, ma di servizi sociali, inclusa la spesa pubblica.
Segue un relato del solo esempio di un tale operato in pieno secolo XX-XXI.
Nel 1969 avvenne in Libia il
colpo di Stato che vide il colonnello Muammar Gaddafi al potere. Il regime
coloniale italiano, 1911-1951, aveva imposto lo stesso sistema fondiario
responsabile per l’emigrazione massiccia di napoletani durante il tardo secolo
XIX. Nel 1979, dopo aver studiato la questione, il colonnello distrusse tutti i
titoli di proprietà assoluta, nazionalizzando il suolo, la moneta con
l’erezione di una banca di Stato, e il 35% della produzione petrolifera.
Un tale intervento dello Stato
nell’economia, effettivamente un socialismo alla Rerum Novarum, permise alla Libia di costruire il Gran Fiume
Artificiale, un acquedotto di 6mila chilometri per quattro metri di diametro,
che nei 25 anni 1986-2011 convogliò acqua dalle falde acquifere sotterranee
della Nubia alla costa. I cittadini libici godevano adesso di “oro bianco”
gratis.
E non solo. Per il 2011 la Libia
godeva anche di elettricità, istruzione e sanità gratis; gli agricoltori ricevevano terra, sementi e bestiame
iniziale gratis; la Banca di Stato
faceva un dono di 5mila dollari ad ogni neonato, e un prestito senza interesse
di 50mila a una coppia di sposi novelli. Sfortunatamente, venne in mente al
colonnello di metter su un sistema monetario basato sulla superstizione di
Creso, nell’illusione di poter liberare il continente dalle strette dell’usura.
Fu di troppo per usurai e
latifondisti, che affossarono il progetto con i bombardamenti “umanitari” NATO
e fecero assassinare Gaddafi dai mirmidoni del presidente “francese” Sarkozy.
Zambia è l’altro stato africano dove la proprietà fondiaria collettiva vige
dal 1975. I suoi effetti si vedono contrastando il paese con il Kenya, dove
vige il titolo tanto lodato da Johnson.
Lusaka, la capitale, ha una rete
di strade a doppia carreggiata; il traffico fluisce da una rotonda all’altra
senza difficoltà; i soli grattacieli sono edifici pubblici nel centro
commerciale; gli altri sono villette ad uno o due piani con giardino attorno;
il parcheggio è abbondante e gratuito in tutte le zone della città, giorno e
notte. Si può occupare terra, ma non comprarla o venderla: le agenzie
immobiliari sono chiuse dal 1975. Ma quel che più attrae l’attenzione è che da
allora non una goccia di sangue è stata sparsa a ragione di conflitti aventi a
che fare con la proprietà fondiaria.
Il Kenya e tutt’altra storia.
Negli anni 2009-2019 una spropositata quantità di grattacieli, ognuno sfoggiante
i gusti di un architetto diverso, sono stati costruiti vicinissimi l’un
l’altro, in agglomerati confusi che non lasciano spazio neanche per parcheggi;
il traffico si muove (quando può) da un ingorgo ad un altro; si può comprare
terra, fino a quando arriva un secondo proprietario dello stesso plotto con un
titolo ottenuto per corruzione; processi per occupazione abusiva tardano fino a
dieci anni in tribunale; ma quello che attrae di più l’attenzione è lo
spargimento di sangue a volte tra membri della stessa famiglia, se non
giornalmente spesso settimanalmente.
Nel 2007, in seguito ad una
elezione truccata, esplose una guerra civile tra alcuni Kikuyu, ai quali il
primo presidente aveva concesso terre nel territorio di altre tribù, e gli
autoctoni che ne reclamavano la proprietà, senza che le forze armate dello
Stato fossero o capaci o vogliose di intervenire. Il risultato furono 1500
massacrati e 300mila senza tetto, che dovettero fuggire con quello che avevano
addosso per non rischiare la vita. Per dieci anni vissero come profughi nel
loro paese, tutti con titoli di proprietà variopinti
però inutili.
Che la “grande invenzione storica” di Paul Johnson si riveli nella sua
innaturalità in pieno secolo XXI in Africa lo si può capire; capiamo anche,
però, come cessò di funzionare nella Cristianità del secolo XVI con la
cosiddetta “Riforma” protestante, che sotto slogan più o meno pii come sola scriptura e sola fides occultava la smisurata ingordigia di una masnada di
ladri.
A Enrico VIII Tudor, dopo aver espulso 10mila monaci da 900 monasteri, non
venne in mente di confiscarne le terre a beneficio dello Scacchiere, che gli
avrebbe permesso di non opprimere il popolo con imposte ingiuste. Vendette
invece le terre produttrici di rendita ai ladri. Costoro si scrollarono di dosso
immediatamente gli obblighi sociali espletati dai monasteri per secoli, e i
poveri riapparirono sulla scena per non andarsene più.
Nel 1864 il Professore Edwin
Thorold Rogers di Oxford (1823-1890) pubblicò una storia di Inghilterra dove
mostrava, cifre alla mano, che ogni
sovrano da Enrico VIII in poi aveva lasciato più poveri alla sua morte di
quanti non ne avesse trovati alla sua accessione al trono. La pubblicazione non
fu gradita al potere. Thorold Rogers venne radiato da Oxford.
La situazione economica dei
poveri era peggiorata in due tappe. La prima, al venir espulsi dalle terre che
coltivavano in affitto al tempo della distruzione dei monasteri, 1536-1541; la
seconda, quando vennero espulsi dai pascoli comunitari dove si erano rifugiati
per sopravvivere. I pascoli (commons)
vennero recintati per l’allevamento di ovini, molto più profittevole dei canoni
di fittavoli. In Scozia, dal 1750 al 1860, centinaia di villaggi vennero
cancellati dalla faccia della terra, e i loro abitanti forzati ad emigrare per
fare arricchire latifondisti, usurai e malfattori. Non rimane traccia di una
popolazione rurale un tempo vibrante ed operosa, le cui terre fanno oggi da
riserve di caccia per gentlemen che
vivono senza lavorare.
Gli espulsi sarebbero morti di fame
senza la Rivoluzione Industriale di fine secolo XVIII, che li salvò dalla morte
con un salario da miseria, ma salario alla fin dei conti. Salario che in pieno
secolo di crescita industriale (il XIX) non permetteva ad una famiglia neanche
un piatto di carne all’anno.
Ora chiediamoci: a) È giudicabile la situazione odierna nei termini discussi
fin qui? b) Può un uomo della strada far qualcosa almeno per palliarla?
La situazione odierna
Alla fine della seconda decade di un secolo XXI già alquanto ineunte, stiamo assistendo a rivolte
sociali che, con nomi diversi, ricordano quelle di 700 anni fa. Le forze del
lavoro, sulle quali si regge tutta l’economia reale, sono stufe di essere
oppresse, sfruttate, penalizzate eccetera, da un sistema fiscale perverso in radice, ossia progettato per castigare chi lavora e premiare i
fannulloni.
Ciò non è evidente. Se lo fosse, vari popoli inferociti lincerebbero altrettanti
arcivescovi di Canterbury come fecero con Simon of Sudbury i contadini inglesi nel
1381. Va provato.
Il Regno Unito offre un buon paradigma.
Quel che gli arraffaterre della Riforma temevano di più durante la breve
restaurazione cattolica ad opera di Mary Tudor (1553-1558) era che la regina li
obbligasse a restituire le terre strappate ai monasteri. In consulta con il
legato papale Reginald Pole, la regina si astenne prudentemente da una tale
misura, che avrebbe peggiorato le relazioni tra l’Inghilterra e la Santa Sede
dopo i regni turbolenti di Enrico VIII e il figlio Edoardo VI.
Cosicchè i discendenti dei nouveaux
riches del secolo XVI continuano vivendo di una rendita che cresce senza
sosta anno dopo anno fino adesso. Pochi sanno che il compito preponderante se
non esclusivo della Camera dei Lords è di impedire che venga in mente ai Commons di metter le mani sulle loro
rendite, anche con una pubblicità inopportuna.
La cosa è occultata così bene che non esistono dati ufficiali, o algoritmi
“scientifici” che permettano di calcolarla. Esistono studi di ricercatori
indipendenti come Fred Harrison (1928-2019), britannico e Mason Gaffney (1923-)
americano. I due calcolarono la rendita del Regno Unito per il 2016 a 493
miliardi di sterline, tutti intascati da privati.
Di tanto in tanto sprazzi di luce, per chi capisce, appaiono nei necrologi
di usurai e latifondisti VIP. Quello del banchiere Weinstock (luglio 2002)
rivelava come la pratica squisitamente usuraria del tesoreggiamento del
contante impone un pesante tributo di disoccupazione ad un numero sconosciuto,
però imponente, di lavoratori. E quello del Duca di Westminster, deceduto nel
2018 con un lascito di otto miliardi di sterline, rivelava quelli della rendita
fondiaria. Non c’è male per nessuno dei due.
Il suddetto va inquadrato nell’ottica di Brexit, che ha segnato la vittoria delle forze del lavoro su quelle
dell’usura abbandonando l’Unione Europea.
Non ci si lasci ingannare dalle apparenze: le forze dell’usura latifondista
continuano a fare il possibile per mettere i bastoni fra le ruote di Brexit, non perchè importi loro il
classico fico secco della prosperità di chi lavora; quel che importa è la loro libertà di azione, che verrebbe
severamente limitata da una politica di interessi nazionali al di sopra di
quelli globali.
I gilet jaunes francesi si
muovono nella stessa ottica, così come il partito Vox in Spagna ed altri. Quel che ogni oppresso, sfruttato ecc.
desidera è una distribuzione di ricchezza ispirata alla virtù della giustizia, negata fin qui dalla
perversione fiscale ventilata.
Approfondiamo. Tutti, perfino i manuali di tassazione, danno per scontato
che l’imponibile fiscale debba essere il valore aggiunto dal lavoro umano. E
questo nonostante l’esempio eclatante della Libia di Gaddafi fino al 2011, che
dimostra la falsità della proposizione. Il colonnello aveva usato come imponibile
fiscale non il valore aggiunto dal lavoro umano, ma quello sottratto all’uso pubblico di risorse naturali come la terra e il
petrolio, più quello di riservare l’emissione di moneta al potere politico e
sottrarla a quello privato.
I governi odierni, imperterriti, continuano a rubare il frutto del lavoro
dei cittadini, non per coprire la spesa pubblica, ma per pagare interesse su
prestiti innecessarii quando non fraudolenti, a “prestatori” che non hanno
prestato un bel niente. Esempi di tassazione odierna:
L’imposta sul reddito colpisce la
produzione. Generalmente il furto (a mano armata) avviene per trattenute
obbligatorie sulle paghe.
Le imposte indirette colpiscono
il consumo. La loro invenzione risale all’Inghilterra del XVII secolo, ad opera
dei latifondisti allora al potere desiderosi di sbarazzarsi di imposte da loro
dovute per trasferirle ai poveri. Raggiungendo così l’unico risultato di
mettere una gran quantità di prodotti fuori portata di chi non guadagna uno
stipendio sufficiente.
Niente batte l’IVA per malevola
assurdità, che richiede un certo trattamento.
Pochi ricordano che la Spagna, proprio per
applicare questo tipo di imposta, detta alcabala
a quel tempo, perdette i Paesi Bassi in seguito a una rivolta fiscale. Non fu la rivolta a costringere il paese ad
abrogare la alcabala, ma la
costatazione che i costi di riscossione, su un imponibile di milioni di
transazioni commerciali, superavano di gran lunga le entrate erariali, ossia si
trattava di una imposta regressiva che non rende. Ciò continua ad esser vero, però
verso il 1990 venne in mente a chissà che “esperto” di accollare tali costi proprio
alle vittime dell’IVA. Senza pagarli, naturalmente, il che ha fatto rientrare
dalla finestra la schiavitù, dopo
averla messa alla porta durante il primo millennio.
Dazi e dogane chiudono la lista
di imposte che Harrison e Gaffney bollano come
tapis roulant, cioè che
forzano a correre sempre più rapidi per rimanere nello stesso posto. Queste
colpiscono il commercio internazionale, ma il loro uso è principalmente
político, cioè impedire che un libero commercio tout court introduca,
insieme a beni e servizi prodotti da paesi con bassi salari, anche la loro
legislazione del lavoro. Dazi e dogane servono per proteggere la forza lavoro
nazionale.
Un ultimo sintomo del sistema fiscale moderno è quello che l’economista
norvegese Thorstein Veblen (1857-1929) chiamava “consumo cospicuo” ossia le
spese stravaganti che si permette chi vive di usura e di rendita: yachts,
mansioni alla Vaux-de-Vicomte, riserve di caccia, viaggi con residenza in costosissimi
alberghi 5 stelle, eccetera.
C’è via d’uscita?
L’ultima domanda è: cosa può fare l’uomo qualunque per togliersi di dosso i
pesantissimi carichi dell’usura e del larifondo? In una guerra senza quartiere,
conoscere il nemico e identificare il suo (o suoi) tallone di Achille è di
prima importanza. Facciamolo.
Il latifondo si può eliminare solo cambiando il paradigma fiscale. L’uomo
qualunque, sprotetto e disarmato dopo la distruzione delle corporazioni del
lavoro durante la Rivoluzione, non è assolutamente in grado di poterlo fare da
solo.
Una rivolta fiscale richiederebbe unità, metodo e leadership di prima
classe. Ma per l’IVA sembra esserne giunta la scomparsa grazie all’inaspettata
e repentina emergenza sanitaria, senza bisogno di scendere in piazza. Non vado
oltre per mancanza di elementi di giudizio.
Una riforma fiscale richiederebbe spostare l’imponibile dal valore aggiunto
dal lavoro a quello sottratto all’uso pubblico da chiunque, sia che viva di
rendita e interesse o no.
Siccome la rendita del suolo nazionale non è omogenea, disegnare un
algoritmo che permetta di calcolarla non è cosa facile. Brevemente si
tratterebbe di confiscare (etimologicamente: convogliare al Fisco) la seconda rendita, quella da ubicazione, creata da chi lavora attorno alle proprietà, e che in
stretta giustizia appartiene a loro, non ai detentori di “titoli” più o meno variopinti.
Gaddafi
docet. Non è certo compito per
l’uomo qualunque.
Circa l’usura, occorre stare al tanto dei guadagni del nemico nel forzare
il credito al posto del contante, in una guerra il cui obiettivo finale è
l’eliminazione del secondo, già eseguito in Svezia e fatto avanzare a grandi
passi in altri paesi.
Eliminare il contante significa dipendere interamente da controlli
esercitati da gente anonima, che con un semplice clic ti può cancellare dalla
faccia della terra, senza appello e senza rimedio. Se l’uomo qualunque anela
libertà, è estremamente importante non lasciarsi abbindolare da un tale
stratagemma. Cosa può fare?
Primo, anche se obbligato per legge ad aprire un conto corrente bancario, mai depositarvi contante. Vi depositi
esclusivamente strumenti di credito: assegni, cambiali, effecti commerciali,
tutto eccetto denaro contante. Un
tale contro-stratagemma obbligherebbe le banche, a lungo termine, a mettere in
circolazione quello che tesoreggiano nei loro caveaux, senza però causare le crisi economiche del passato.
Dove tenere il contante? In schedari, in scaffali pieni di carta stampata:
libri, riviste ecc., in cassette di attrezzi, o, conoscendo un buon muratore,
in un nascondiglio invisibile a occhi indiscreti. O dovunque suggerisca la
fertile immaginazione di chi vuol essere libero.
Secondo, colpire il tallone di Achille: l’interesse. Questo puro incantesimo, con un credito senza lucro
cessante o danno emergente, ha perduto ogni raison
d’être.
Sarebbe ora quindi di confrontarsi con il primo direttore di banca con cui
si concerti un muto di qualsiasi entità. Senza ambagi, contestare l’interesse. Il credito non presta alcunché; autorizza a
creare denaro dal nulla firmando pezzi di carta in forma di libretto; la banca
non corre rischio di nessun tipo; l’interesse è illegittimo.
Il primo banchiere che udisse un discorso del genere non esiterebbe a
mettere alla porta il troppo audace cliente. Ma sentendola due, dieci,
cinquecento o mille volte, la pratica parassitaria, per non dire criminale,
dell’interesse composto dovrebbe cedere il posto a qualcosa di più ragionevole,
come una tariffa una tantum, senza
proliferazioni indebite.Il mantra “l’interesse non si tocca” verrebbe così nullificato.
Ne rimane un secondo: Come può una società “moderna” funzionare senza
banche? Una brevissima risposta sarebbe “restituendo a chi lavora il contante rubato
loro per secoli”. Fu sottratto surrettiziamente e paulatinamente, così da controllare
più del 95% delle transazioni commerciali. Le stesse banche hanno azzoppato il
lavoro indipendente, rifiutando credito ad artigiani e piccoli agricoltori, ma
concedendolo lautamente a speculatori, usurai e altri manipolatori di
denaro-mercanzia. Una usurpazione non si allevia; si abroga senza esitare. Il
denaro emesso dal governo non è che certificato di lavoro compiuto. Lo fa la Cina
dal 1978.
Non c’è limite al fattibile senza usura, alla quale siamo così usi da non
poter neanche immaginare un mondo senza di essa. Spero che questo saggio serva
per lo meno a stimolare l’immaginazione del pubblico di Accademia.
27 marzo 2020