lunedì 16 settembre 2024
Le origini della Mafia
Il principe di Salina - ci racconta Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo impareggiabile Il Gattopardo - aveva ricevuto nel suo palazzo di Donnafugata
(nome di fantasia usato dallo scrittore per dissimulare il suo paese, Palma di Montechiaro) un incaricato del govemo del nuovo Regno d'Italia, tal Chevalley, che si era sobbarcato un lungo viaggio da Torino per offrirgli la nomina a senatore.
Il principe ringraziò, ma garbatamente rifiutò e, alle domande di spiegazione, così rispose: «Abbia pazienza, Chevalley.... noi siciliani siamo stati avvezzi
da una lunga, lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro.
Se non si faceva così non si scampava dagli esattori bizantini, dagli emiri berberi, dai viceré spagnoli... In Sicilia non importa far male o far bene: il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è quello di ”fare”.
Siamo vecchi,Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui noi abbiamo dato il la.... da duemilacinquecento anni siamo colonia››.
Al deluso piemontese il principe di Salina dette poi un consiglio: "C'è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedara".
Di umilissime origini - suo suocero, che poi finì eliminato con dodici colpi di lupara sulla schiena, era un mezzadro «tanto sudicio e servaggio che tutti lo
chiamavano Peppe Mmerda» - Sedara era il tipico amministratore che curava gli interessi dei nobili, dei latifondisti. Furbo e capace, aveva imparato, come
tutti i suoi colleghi, a gestire il potere con la prepotenza - tanto incontrastata quanto disinvolta - a determinare l'ordine sociale - di fatto svolgeva quel ruolo
di composizione delle controversie e imposizione delle decisioni «autorevoli» che normalmente è ricoperto dalla magistratura - e a garantire quello status quo
tanto agognato sia dai nobili latifondisti, sia dalla massima autorità politica che albergava sempre lontano.
Questi individui, massari, gabellotti, campieri, bravi- guardie armate al servizio delle baronie - formavano quella categoria, presente in Sicilia da diversi
secoli, che nell' Ottocento qualcuno aveva cominciato a indicare come Maffia.
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La storia della Sicilia, come ben ricordava il principe di Salina, è molto antica.
Il Palazzo dei Normanni, che oggi ospita l'Assemblea regionale siciliana, fu inaugurato nel 1130 e si chiamava Palazzo degli Emiri.
Alle sue fondamenta sono stati rinvenuti reperti di epoca fenicia, punica, greca, romana, bizantina e araba. Dopo i Normanni lo hanno abitato gli Svevi, gli Angioini, gli Aragonesi,gli Spagnoli e i Borboni.
Poi arrivò Garibaldi e il potere passò ai Savoia.
Si pensi che a Roma Palazzo Madama, attuale sede del Senato, fu eretto nel 1503, il Quirinale, il palazzo dove ora dimora il presidente della Repubblica, è
del 1583 e Montecitorio, dove legiferano i deputati, risale al 1653.
I luoghi dove risiedeva la massima autorità politica sono stati dunque sempre molto lontani dall' isola di Trinacria: Atene, Roma, Costantinopoli, Castel
del Monte, Napoli, Madrid, Torino.
Conseguentemente, a un potere formale sempre latitante, quindi estremamente debole - peraltro perennemente osteggiato dalla popolazione con istintiva diffidenza e ostilità - ha sempre fatto da contrappasso un potere reale molto forte, fondato sulla famiglia, sulle clientele e sull”ordine sociale ed economico imposto dai baroni e dalle milizie private al loro servizio.
Un potere sempre legittimato dalla benevolenza di chi, da lontano, era titolare della sovranità, ma considerava un peso doversi occupare dell'amministrazione locale e dell'ordine pubblico.
ln diverse occasioni questo delegare potere e autorità ottenne una vera e propria investitura con atti ufficiali.
Nel 1600 Filippo III, da Madrid, concesse ai baroni siciliani il Moerum et mixtum imperium, cioè l'autorità e il diritto di amministrare la giustizia anche nei suoi aspetti punitivi. E quindi, automaticamente, venivano legalizzati i «bravi» che rispondevano direttamente ad una nobiltà sostanzialmente desiderosa di curare solo i propri interessi e di garantire pro domo sua l'ordine e la tranquillità sociale.
«Bravi» che, nella certezza di poter operare in completa impunità, facevano uso della violenza, con tracotanza e spregiudicatezza, spesso anche solo a proprio vantaggio.
Le tristemente note "lupare", "ammazzatine" e vendette che per secoli hamio riempito le cronache quotidiane in terra di Trinacria, nascono proprio da questa situazione, cosi come, in quanto loro diretta conseguenza, si è radicata la diffusa omertà della popolazione.
Ben sapendo che la vera autorità era quella di chi comandava sul posto, e non il lontano potere politico, era sempre più consigliabile rispettare, accettare e non interferire.
La paura era il più efficace strumento adoperato per ottenere il consenso.
Tutte le tradizioni isolane riportano proverbi e «consigli» molto significativi: «L 'omu chi parra assai nun dici nienti, l'omu che parra picca è sapienti»
(L”uomo che parla molto non dice niente, l'uomo che parla poco è saggio);
«Bell 'arti parrari picca» (Una bell”arte parlare poco); «Cu è surdu, orbu e taci campa cent 'anni 'mpaci» (Chi non ascolta, non vede e non parla vive cent'anni
in pace); «L'omu chi è omu non rivela mai mancu si avi carpa di coltello» (L'uomo veramente uomo non rivela mai niente, neanche sotto le pugnalate);
«Chi mangia zucca muore appiccato» (Chi fa la spia muore impiccato); « 'A megghiu parola è chídda ca 'un si dici» (La migliore parola è quella che non si
dice); «La tistimonianza è bona sino a quannu nun fa mali a lu prossimu» (Testimoniare è bene quando non si danneggia il prossimo).
Così era avvenuto fin dai tempi dei Normanni e non era cambiato per nulla con gli Spagnoli e i Borboni. Anzi, il passare dei secoli non ha fatto altro che
incancrenire e trasformare in consuetudine e costumanza sociale ciò che era nato come necessità di subire per il quieto vivere e di accettare per la sopravvivenza economica.
Quando nel 1812 i Borboni, che si erano rifugiati a Palermo in fuga da Napoli dove erano stati cacciati dall”esercito napoleonico, approvarono una
Costituzione che abrogava molti privilegi della nobiltà, i baroni, di cui è ben noto il cronico assenteismo in fatto di amministrazione del potere, si trasferirono, per cautelare i propri interessi da ulteriori limitazioni, nelle grandi città siciliane e lasciarono i loro latifondi in mano ai gabellotti - piccoli affittuari e
uomini di fiducia - e ai campieri - guardie private armate - che poterono così irrobustire indisturbati la propria rete di interessi e di potere: quella che
diventerà poi la rete della Mafia.
Neppure col Risorgimento e l'unità d'Italia le cose cambiarono.
Lo sbarco di Garibaldi con i suoi «Mille» a Marsala ne è la riprova. Per quanto scalcinato fosse l'esercito borbonico, se l'Eroe dei due Mondi si fosse trovato contro il
potere espresso dalle baronie e, soprattutto, da quella rete che controllava i latifondi e la società isolana, non avrebbe fatto molta strada.
Fin dalla prima battaglia, quella di Calatafimi, era apparso ben chiaro come stavano le cose.
Se da una parte la nobiltà aveva compreso che «se vogliamo che tutto rimanga com 'è bisogna che tutto cambi», dall'altra quella che qualcuno cominciava a chiamare Maffia aveva subodorato una grande occasione per il proprio potere: agire, come aveva sempre fatto, per lo stretto controllo dell'amministrazione locale, ma in più, questa volta, varcare i confini dell'isola e partecipare direttamente al governo nazionale, controllando strettamente le elezioni e quindi determinando la scelta dei deputati da mandare a Torino, poi a Firenze e infine a Roma.
A proclamare il nuovo Regno, in nome di Vittorio Emanuele re d'Italia, assieme a Garibaldi, ci furono da subito - come consigliato dal principe di Salina - anche i notabili della baronia e i loro uomini.
Poi non parve vero al piemontese Giovanni Giolitti e ai suoi colleghi trovare chi era disposto a risolvere, in blocco, tutti i problemi di controllo di una intera
regione d'Italia che per secolari questioni economiche e sociali poteva rivelarsi una bomba innescata, bell'e pronta ad esplodere.
Poco più di dieci anni fa sono stati desegretati gli archivi della questura di Palermo; una volta consultati, si è avuta la conferma che sino alla fine dell' Ottocento e agli inizi del Novecento, i «mafiosi di ogni rango» si scambiavano abitualmente informazioni e favori con poliziotti e questori.
Soprattutto in Sicilia i governi giolittiani attuarono la politica del «lasciar fare›› e di fatto favorirono i desideri di maggiore tolleranza verso l'illegalità e
una richiesta di autonomia dal potere nazionale.
In un discorso parlamentare rimasto famoso - del 23 novembre 1899 - dell'on. De Felice Giuffrida, il govemo fu clamorosamente accusato di aver fatto uscire di prigione, prima delle elezioni, un cospicuo numero di uomini della Mafia e delinquenti comuni,consentendo loro di andare addirittura al seggio armati, per favorire il partito al potere.
E dove ciò non era risultato sufficiente, si era fatto ricorso alla più antica truffa elettorale, talvolta usata anche ai nostri giorni: la "pastetta" o "coppino".
Si gonfia il numero dei voti compilando le schede elettorali anche per i morti, gli ammalati intrasportabili, gli emigrati e gli analfabeti che fino al 1913
non avevano il diritto di voto.
In quella che oggi siamo abituati a chiamare trattativa tra Stato e Mafia, in epoca giolittiana si può dire che fosse quasi sempre la seconda a vincere le più importanti partite: controllo della politica e del sistema sociale, economico e territoriale. Inoltre, i capi mafiosi e gli «amici degli amici» erano praticamente esentati dall'obbligo del pagamento delle tasse.
Lo Stato, che aveva occupato militarmente il territorio, fin da subito, come autorità e potere locale, aveva già abdicato.
Un esempio significativo: a fine Ottocento, dei 76 comuni della provincia di Palermo 19 non disponevano nemmeno di un campiere comunale (guardia
campestre) e 42 nemmeno di un campiere a cavallo; l'ordine pubblico e l'amministrazione dell'autorità erano coperti dallo Stato solo in 15 comuni su 76:
nemmeno sul 20% del territorio.
Certe aree, come quella delle Madonie, erano considerate vere e proprie zone franche; carabinieri e polizia non si facevano mai vedere. Di conseguenza l'esistenza stessa di una milizia annata privata operante su un territorio dove è latitante la forza dello Stato generava nella popolazione il convincimento che la convivenza tra latifondisti, mafiosi e autorità pubbliche fosse cosa ineluttabile e assolutamente naturale.
Conseguentemente l'atteggiamento della popolazione verso i rappresentanti dello Stato andava dalla più completa estraneità al sospetto, all'ostilità e al
rifiuto di ogni forma di collaborazione.
L'ordine pubblico era garantito da altri e ad altri andavano tributati rispetto e ubbidienza.
Il Risorgimento era passato in Sicilia senza provocare nessuna sostanziale rivoluzione sociale o risolvere le antiche questioni economiche. Si era trattato
di una sostituzione di deleghe politiche che nessun reale benefico cambiamento aveva prodotto per la popolazione dell'Isola.
Anzi, la più rilevante migrazione siciliana la si ha in piena età giolittiana,quella che nei libri di storia viene indicata per il resto d'Italia come un'età prospera.
I siciliani erano stati costretti dalle difficoltà economiche e dalla chiusura ad ogni nuova e diversa prospettiva sociale - che in Sicilia avrebbe dovuto essere rivoluzione agricola e fine del latifondo - a paitire con le loro leggendarie valigie di cartone legate con lo spago, oltre che verso il nord Italia, che si stava industrializzando, anche verso altre nazioni. Nei primi 13 anni del Novecento 1.092.527 siciliani - un quarto dell'intera popolazione isolana - si imbarcarono per le Americhe.
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Dunque l'errore più grande che si possa fare, volendo individuare l'origine della Mafia, è quello di identificarla tout court con la malavita e il banditismo.
Anzi, in determinati periodi è riuscita a formarsi ed attecchire proprio per - o con la scusa di - difendere i latifondisti e la popolazione dalla malavita e dal
banditismo.
La Mafia è un fenomeno di potere che nasce e prospera dove l'autorità è debole o assente. Quando la forza della legge e dello Stato sono carenti e non
riescono a garantire un'efficace protezione della popolazione e dei patrimoni,arrivano gli "uomini d'onore", i "padrini", i personaggi di fiducia delle baronie
a garantire la protezione dai malviventi, la composizione delle controversie, il mantenimento dell'ordine (2).
Con la differenza sostanziale che, mentre lo Stato rappresenta la legge e dovrebbe impone l'applicazione con la forza, la Mafia utilizza la violenza e la prepotenza seguendo la stella polare degli interessi privati, delle prevaricazioni economiche e della conservazione dei privilegi.
Ben sintetizza Giovanni Falcone: «La Mafia non è una società di servizi che opera a favore della collettività, bensì un 'associazione di mutuo soccorso che agisce
a spese della società civile e a vantaggio solo dei suoi membri››.(3)
Il termine Mafia (inizialmente usato con la doppia effe) probabilmente ha origine arabe: mu (forza) afah (protezione), anche se l'Accademia della Crusca non esclude che potrebbe derivare da San Matteo (Maffeo), l'unico degli apostoli a non essere un semplice pescatore, ma un ricco pubblicano. Certamente in passato - praticamente fino alla seconda metà del XIX secolo - non era stata adoperata con un'accezione negativa.
Mafioso era un aggettivo usato come sinonimo di eccellenza, affidabilità e baldanza; "maffiosa" era la donna formosa e procace.
Non a caso li esponenti della Mafia fino ai nostri giori sono stati chiamati "uomini d”onore" e "uomini di rispetto".
È particolarmente significativo il tono usato da Pasquale Sciortino - un componente della banda di Salvatore Giuliano - il 2 luglio del 1970 di fronte
alla Commissione antimafia.
All'on. Li Causi, che gli chiedeva dei rappoiti tra Giuliano e la Mafia, così rispose: «Guardi che Mafia, da noi, è una parola piccola, ma racchiude un 'immensità... Se lei vuole interpretare la Mafia come delinquenza, dica delinquenza, non dica Mafia. Se lei dice rapinatore, allora dica rapinatore e non Mafia...››.
In un'opera letteraria il termine compare nel 1863 - I mafiosi di la Vacaria di Giuseppe Rizzotto - mentre in un atto della magistratura il procuratore di Trapani Pietro Ulloa Calà già nel 1838 aveva scritto di «associazioni mafiose».
La Mafia dunque si differenzia dalle analoghe associazioni presenti nel Sud Italia - ”Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita - proprio perché inizialmente non è composta da briganti e criminali, ma da uomini "di rispetto",uomini di potere.
Il rapporto con il brigantaggio e la criminalità si sviluppa in modo ondivago e contraddittorio, giacché mentre questi vengono avversati per la tutela dell'ordine e il mantenimento dello status quo, talvolta invece sono utilizzati come vivaio di manodopera violenta di cui la Mafia ha sempre bisogno per i propri omicidi, vendette ed estorsioni (4)
Perché chi sbaglia deve pagare - anche in maniera plateale - chi tradisce deve essere punito e umiliato e le protezioni devono essere sempre in qualche modo retribuite.
Mentre banditi e criminali si pongono fuori e contro la legge, vivono alla macchia e si nascondono, i mafiosi si qualificano "uomini d'ordine", agiscono
pubblicamente e le leggi preferiscono aggirarle.
Vito Cascio Ferro - famoso boss mafioso che proveniva da umilissime origini contadine, operò tra l'Italia e gli Stati Uniti a cavallo tra l'Ottocento e il
Novecento e ottenne notorietà per il sospetto di essere l'assassino del poliziotto italo-americano Joe Petrosino - si trovò sul banco degli imputati ben 69 volte,
ma fu sempre assolto.
Per farlo condannare bisognerà aspettare - nel 1926 - uno Stato che nei confronti della Mafia aveva cambiato atteggiamento - come ora vedremo - e
un personaggio come il prefetto Cesare Mori.
1) GIUSEPPE TOMMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo, Feltrinelli, 1961, pag. 209. Sull'indisponibilità dei siciliani a «fare» e risolvere i problemi è significativo anche il racconto Lighea (La Sirena) sempre di Tomasi di Lampedusa, dove il prof. La Ciura racconta: «Chiudete in una stanza cinque siciliani e cinque piemontesi col compito di risolvere un problema. Dopo un quarto d'ora i siciliani avranno una qualche soluzione in testa, e i piemontesi nessuna. Ma dopo un'ora i piemontesi avranno risolto il problema, e i siciliani no».
GIUSEPPE TOMASI D1 LAMPEDUSA, I racconti, Feltrinelli, 1961.
2) Questo ruolo è stato ricoperto dalla Mafia fin ai nostri giomi; come ricorda il giudice Giovanni Falcone, «Stefano Bontate [famoso boss mafioso] quando alla fine degli anni Sessanta impartì l'ordine di far piazza pulita di tutti i ladri del suo quartiere, compì un 'operazione di ordine pubblico e gli valse notevole credito agli occhi della popolazione locale». GIOVANNI FALCONE, Cose di Cosa Nostra, Bur,
Rizzoli, 1917, pag. 106.
Ed ancora,: «A causa della lentezza dei tribunali nel dirimere le liti, è frequente il ricorso a un "uomo di rispetto"››. Intervista a Giovanni Falcone su La Repubblica del 16 ottobre 1990.
3) GIOVANNI FALCONE, Cose di Cosa Nostra, op. cit. pag. 106.
4) Chi non accetta la protezione spontaneamente deve essere "convinto". Prima si esponevano gli stessi boss, o i loro diretti collaboratori, con discorsi a «trasi e nesci» con i quali si diceva e non si diceva, si usavano esempi e sottintesi, si «consigliava» con fare complimentoso. Se tutto ciò non funzionava, si passava la mano ai «collaboratori armati», quelli che si reclutavano tra il brigantaggio e la criminalità comune, i quali iniziavano con una «fucilata di chiacchiaria» (un colpo che non doveva colpire, ma solo spaventare), poi si passava a una «proposta che non si poteva rifiutare» (resa popolare dal film Il Padrino) con la quale si colpiva un bene o un parente del malcapitato, fino ad arrivare - nei casi più estremi e a monito per tutti gli altri - all'opera definitiva della lupara.
5) Vito Cascio Ferro negli Usa dette vita a una diffusa rete mafiosa - la Mano Nera - che si specializzò nelle «protezioni» e nell'esigere il «pizzo›› da ampi strati della popolazione italo-americana. Tra gli sfortunati «clienti» della Mano Nera ci fù anche il famoso tenore Enrico Caruso.
(Mario Consoli)