lunedì 31 maggio 2021

EVOLA CONTRA WAGNER

Quella su Wagner e sulla sua interpretazione dei miti germanici, è un’antica

polemica che, nel corso degli anni è stata periodicamente rintuzzata e riaccesa, a

seconda dell’obiettivo politico-ideologico e culturale, che si voleva raggiungere. Dai

tempi delle romantiche scazzottate dinnanzi ai teatri dell’Opera di mezza Italia a fine

Ottocento, tra verdiani e wagneriani, agli interventi a gamba tesa dello stesso

D’Annunzio, sino alle polemiche da parte dell’area culturale tradizionalista. E sarà

proprio su queste ultime che qui, ci si intende soffermare, proprio perchè, oltre da

ad esser le più recenti, cronologicamente parlando, sono forse le più “tranchant”,

emesse come sono, da quelli che, della koinè” tradizionalista sono tra gli autori

autori più rappresentativi, quali uno Julius Evola o un Renè Guenon. L’occasione per

una più approfondita riflessione al riguardo, è stata offerta da uno degli ultimi

incontri “on line”, a cura di “Ereticamente Sapienza”, incentrato proprio sul

commento al “Parsifal” di Wagner ed alle tematiche ad esso connesse, inclusa, per

l’appunto, quella dell’interpretazione di autori come Evola. Diciamocelo pure. Dal

punto di vista filologico, quella evoliana e tradizionalista in genere, è una critica che

ha un suo fondamento. Wagner dette un’ interpretazione del mito in chiave

romantica, animata da una forte carica di sensuale passione, rivestita di panteismo e

naturalismo che, alla fine, si risolve in una ritrovata fede nel cristianesimo. La qual

cosa, sicuramente non coincide e devia alquanto dall’originario spirito di quella

narrazione, collocato invece in una atemporale dimensione, le cui vicende e

personaggi, altri non sono che simboli teofanici che rimandano continuamente alla

presenza di una dimensione del sovrannaturale , ovunque presente. Una

dimensione che poco o nulla ha a che fare con quella forma di naturalistica

escatologia, che invece, in Wagner, alla morte degli Dei vede succedere l’era degli

uomini, stavolta animati da una nuova fede religiosa. E qui veniamo alla “nota

dolens” dell’intera questione. Una critica appropriata da un punto di vista formale,

ma totalmente inappropriata da uno più propriamente sostanziale. Wagner ebbe la

capacità e l’abilità di raccogliere i vari mitologemi dell’area culturale sud germanica

e di riunirli in un’unica raccolta all’insegna di un comun denominatore,

rappresentato dalla necessità di dare un’anima alle popolazioni germaniche, da poco

riunificate sotto un’unica bandiera nazionale, grazie all’opera di Bismarck.

Un’operazione questa, sicuramente, ben lontana dall’originaria ottica del mito, ma

sicuramente in linea con le istanze romantiche, che animavano i vari risorgimenti

nazionali nell’Europa del 19° secolo e di cui l’opera wagneriana, rappresentò una

delle più fulgide espressioni. Ferma restando la natura “deviante” dell’opera

wagneriana dall’originario contesto, mitico, non si può dire , in questo, che il grande

autore sia stato solo. Di re-interpretatori del mito o addirittura di creatori di nuovi,

la storia ne è piena a bizzeffe. Potremmo ricordarci di quanto fatto da Platone con il

mito di Er o da Virgilio con l’Eneide. Il raccogliere gli elementi mitici di una

precedente tradizione e poi rielaborarli al fine della propria narrazione non è

pertanto cosa nuova, ma non è da tutti. Virgilio ha dato una ulteriore base mitica

alle più lontane origini di Roma e dei Romani, creando un’opera letteraria

immortale. La medesima cosa ha fatto Wagner, conferendo un’identità nazionale ai

tedeschi e creando addirittura un mito nuovo, su una base musicale. Nel far questo,

il grande compositore tedesco ha ricevuto l’incondizionato sostegno e la più fervida

ammirazione di un Nietzsche che, in lui, vedeva una prima, concreta, realizzazione

del suo lungo e tormentato percorso elaborativo. Wagner avrebbe dato piena

concretezza ed anima a quel principio “dionisiaco”, dal Nietzsche tanto decantato,

simbolo di quell’anelito all’irrazionalità della potenza vitale, immersa in un continuo

e caotico divenire, così in contrasto con l’algida e solare armonia apollinea. Il grande

filosofo tedesco, sarà il primo a sparigliare le carte al marmoreo e quasi arcadico,

neoclassicismo dei Winkelmann e dei Canova. Sarà il primo, a dare un cappello di

sistematicità a quelle istanze di irrazionalità, provenienti dall’ambito vitalista e da

quello romantico, (tanto da finir con l’essere accusato, dallo stesso Heidegger, di

essere un “metafisico”, sic!). Dioniso è l’incessante scorrere della vita, è

l’irrefrenabile ciclo di alternanza tra quella stessa vita e la morte, è l’inebriamento e

l’offuscamento dell’apollinea “ratio”, nel nome di quella vertiginosa caduta nei

sensi, che tanto caratterizza la musica di Wagner. E così da iconica narrazione,

rivestita di significati archetipi, da totem spirituale, il mito in Wagner si fa vita,

divenire, incessante trasformazione. All’era degli Dei, succede quella degli uomini.

All’antica fede, ne succede una nuova, all’insegna di un simbolo, il Santo Graal,

anch’egli qui a simboleggiare quel lavoro di “reinterpretatio” del mito, compiuto

nell’opera musicale. Ed anche qui, però bisognerebbe valutare con molta prudenza il

significato, la natura della conversione di Wagner al cristianesimo. Ben lungi

dall’assumere la valenza di un ripiegamento verso uno stantio e bigotto fideismo,

quella del grande compositore germanico ci sembra, piuttosto, essere un’altra sua

particolare “interpretatio” della fede cristiana, riletta in una chiave ariana e “solare”,

all’insegna di un simbolo di rinascita; quasi un anticipo dello steineriano

cristocentrismo. Questo grandioso affresco mitopoietico, fa da sfondo alla nascita

della coscienza del popolo germanico. Ne diviene il mito trascinante ed il regime

nazionalsocialista ne farà la punta di diamante, il leit motiv, della propria narrazione

ideologica, legando definitivamente a sé, il destino di sessanta milioni di tedeschi,

nell’ambito di una colossale operazione di indottrinamento metapolitico, mai vista

prima d’allora. Per questo, le critiche evoliane e guenoniane, corrette da un punto

di vista filologico, non colgono nel segno da un punto di vista più ampio, metastorico

e filosofico. Come abbiamo già avuto modo di vedere, quello della rielaborazione del

mito, è un lavorio che procede instancabile, coevo alla storia spirituale del genere

umano. Abbiamo detto Platone con la filosofia, ma anche Virgilio e Dante con la

poesia e sinanco Madame Blavatskji con l’esoterismo o Tolkien con la narrativa,

assieme a tanti altri, furono, ognuno a modo proprio, artefici di queste

reinterpretazioni. Una questione di ermeneutica in senso più ampio, questa, dalla

quale neanche lo stesso Evola è stato immune. Come nel caso delle scienze

ermetiche , di cui l’autore dà un’interpretazione tutta all’insegna del contrasto tra

una via fideistica e sacerdotale ed una più propriamente iniziatica e guerriera.

L’errore non sta però nella persona di Evola, quanto piuttosto nell’impostazione di

fondo di certo tradizionalismo, così come formulata da Renè Guenon e che finisce

con il trascinare, nella spirale dell’accademismo, proprio autori come Evola che in

precedenza, tanto l’avevano condannato, ravvisandolo sia nei protagonisti del

pensiero neoidealista, che in quello romantico. Quando il pensare la Tradizione si

irrigidisce nell’accademismo, nel regno dei puntigliosi “distinguo”, allora si fa

“tradizionalismo”, guscio marmoreo e rigido, in cui solo albergano parole e concetti

vuoti, senza più oramai attinenza alcuna con una realtà invece, viva, in continua

trasformazione. Nietzsche, padre putativo della Modernità, concepì un uomo in

grado di farsi mito di sé stesso, in un continuo anelito all’autosuperamento,

all’interno del perenne girare della ruota del Samsara. Wagner tradusse tutto

questo, in una musica divina. E l’Europa divenne il primo laboratorio per la nascita

del Superuomo...

UMBERTO BIANCHI