lunedì 25 gennaio 2021

L’AMERICA DI BIDEN, L’UOMO SENZA QUALITA.’

Con un’enfasi senza precedenti, si è svolta la cerimonia di insediamento del nuovo presidente Usa, il democrat Joe Biden. Abiti dai colori sgargianti, musica a gogò, star e starlette, addirittura una poetessa, alcuni tra i passati presidenti Usa: i coniugi Clinton, Obama, G. Bush. Tutti lì a far da testimonial ed a riconfermare, se mai ve ne fosse stato bisogno, i mantra buonisti del neo presidente. Unifcare e pacificare una nazione, mai come ora, così divisa, combattere l’epidemia, tornare a “make America great” e via discorrendo, con il profluvio di banalità a cui la propaganda mainstream da tanto tempo, ci ha abituato. Il tutto si è, però, svolto in un surreale contesto, circondato da strade e piazze vuote e silenti, in cui le cui uniche presenze erano le migliaia di bandierine, lì poste a riempire la mancanza di gente e la massiccia presenza di militari e polizia, volta ad evitare altre poco gradite e scomode contestazioni. L’appariscenza, i toni trionfanti contro il vuoto ed il deserto circostanti, sono il simbolo della sempre maggior distanza tra l’ufficialità del politically correct della politica Usa ed il sentire della gente comune, animata da malcontento, rabbia, miseria e frustrazione. Se con Trump, gli Stati Uniti avevano imboccato una strada più incline ad una posizione sovranista, volta a curare nell’immediato gli interessi nazionali Usa, anche a costo di contrapporsi alle varie lobbies della finanza e dell’economia, con Biden, invece, sembra si voglia tornare alle linee-guida che avevano animato le precedenti amministrazioni democrat, da quella di Clinton in poi. Per prima cosa, Biden ha voluto dare una dimostrazione “muscolare” di come lui intenda la riunificazione e la pacificazione degli americani, cancellando in un sol colpo molti dei provvedimenti-guida della appena passata, amministrazione Trump. Il tutto all’insegna di buonismi e solidarismi a iosa. Ma, a tanti suadenti intenti di buonismo e di politically correct, seguiranno altrettanti fatti? Cominciamo con il dire che gli Usa, hanno ancora vari dossier aperti qua e là per il mondo. Se in politica estera, l’amministrazione Trump aveva per lo più, usato un linguaggio diretto che non lasciava spazio a fraintendimenti, così come dimostrato nel caso delle relazioni con l’Iran, la Corea, la Palestina, Cuba e la Cina, tanto per citare i più eclatanti, con i democrat le cose assumono una più sfumata e vaga coloritura. Da un lato, il ramoscello d’ulivo della pace, delle trattative e degli accordi a tutti i costi. Dall’altro, però, i democratici, hanno dimostrato nei decenni, una spiccata tendenza a fomentare urbi et orbi, un’instabilità endemica, tutta a vantaggio loro e delle potenti lobbies finanziarie, di cui questi sono la diretta espressione. A partire dalla kennediana Baia dei Porci, attraverso la quanto mai ambigua ed oscura vicenda del terrorismo in Italia negli anni ‘60, ‘70 ed ’80, sino ad arrivare ad oggi, alle varie Primavere arabe, passando per la Siria, il Venezuela e la questione Ucraina, la politica estera del doppio giuoco è un elemento costitutivo che non ha mai abbandonato, la politica estera dei democrat. La stessa e strana vicenda del “dissidente” Navalny, in Russia, sembra esser parte di un collaudato copione, dietro il quale si cela l’intento di mettere all’angolo l’unico e per ora, reale competitor degli Usa a livello globale e cioè la Russia di Putin. Dal punto di vista della politica economica, le cose non vanno poi così diversamente. Attraverso una bilanciata politica di instaurazione di dazi e di limitazione all’azione della Federal Reserve, per quanto riguarda la pratica degli indiscriminati aumenti del costo del denaro, oltrechè ad una attiva politica di defiscalizzazione, il tanto vituperato Trump, ha permesso una decisa ripresa dell’economia interna Usa, dopo anni di stagnazione, seguiti alla crisi finanziaria del 2009, durante la gestione democrat. Anni durante i quali, a prosperare sono stati principalmente i grandi gruppi finanziari e multinazionali, che dalla pura speculazione finanziaria o dalla produzione delocalizzata, hanno realizzato i maggiori guadagni, a detrimento dei circuiti economici locali, made in Usa. Ora, è chiaro che, per quanto riguarda quegli indicatori economici positivi, lasciati in dote dall’amministrazione Trump, Biden non sarà così folle da vanificarne i risutati, magari cercando di assumersene il merito con qualche stratagemma contabile, mantenendo così, sostanzialmente inalterati, i risultati di certe misure economiche. La sua presunta apertura alla Cina, non potrà fare a meno di considerare certi indicatori e, al pari di altri provvedimenti sarà molto più di facciata, che sostanziale. Ciò che invece cambierà, sarà il ritorno di un’America in salsa spiccatamente globalista ed internazionalista. Aperta alle grandi conglomerazioni geo economiche e geo politiche (Comunità Europea, Nafta, Oms, Gatt, etc.) in un ruolo da protagonista,mettendo in disparte la politica dei vari accordi bilaterali, su cui la presidenza Trump avrebbe voluto impostare la sua politica geo economica. Ma c’è una cosa, su cui l’amministrazione dello scialbo Biden, non si distinguerà poi così tanto, da tutte le precedenti ed è la totale e, ad oggi, indiscussa supremazia Usa sui mercati finanziari, in quanto produttrice in esclusiva, di quel contante in dollari che, rappresenta la base di tutte le transazioni finanziarie e commerciali mondiali. Prova ne sia, la recente erogazione di fondi gratuiti (elicopter money...) a tutte le categorie produttive americane, danneggiate dalla pandemia. Denaro la cui immissione sui mercati, verrà invece pagato dal resto del mondo e che permetterà agli Stati Uniti di rimanere, la potenza dominante a livello mondiale, almeno per quanto riguarda l’aspetto finanziario, Cina o non Cina. Nulla di nuovo all’orizzonte, pertanto. Di nuovo, invece, il clima della cerimonia di insediamento del neoeletto presidente Usa. Una ridicola e “kitsch” sfilata di statue di cera, circondate da un surreale ed ostile silenzio. L’Impero celebra i suoi fasti in solitudine. L’inizio di una fine prossima? Speriamo. UMBERTO BIANCHI