giovedì 19 dicembre 2019

LE RADICI INDOEUROPEE: ALLE ORIGINI DI UN EQUIVOCO.

LE RADICI INDOEUROPEE: ALLE ORIGINI DI UN EQUIVOCO.
Troppo spesso, nel corso della Storia dell’umano pensiero, finiscono con l’
affastellarsi un cumulo di errori e malintesi tali, da assumere a vere e proprie
distorsioni, di una visione del mondo, per scopi, nell’immediato, non sempre
chiari ed evidenti. E’ il caso della problematica sulle origini della civiltà
occidentale, alla cui base, in qualche modo, sta il minimo comun denominatore
etno-culturale indoeuropeo.

Alla base di questo fenomeno, una o più ondate migratorie che, a partire da vari
millenni avanti Cristo, partite da una non ben definita area geografica del
Vecchio Continente, andarono ad insediarsi in una vasta area geografica che va
dall’Europa, passando attraverso la penisola anatolica, sino agli altipiani a
ridosso della Mesopotamia, nell’attuale Iran, scendendo, attraverso la Valle
dell’Indo sino al Sub Continente Indiano, parallelamente proseguendo in una
direttrice nord-est e via via stanziandosi, nelle regioni della Battriana e della
Sogdiana, ( più o meno corrispondenti agli attuali Pakistan ed Afghanistan), sino
ai contrafforti dell’Hindu Kush, arrivando in Cina. A questo colossale
sommovimento di popoli, corrispose anche e specialmente, un altrettanto
importante cambio di paradigma culturale.

I pastori nomadi Indoeuropei, rivolgevano le loro preghiere ed orazioni verso
l’alto,verso quelle sideree immensità che, con il bagliore delle loro stelle e del
Sole, con la falce lunare, ma anche con le tempeste, per chi di continuo si
spostava attraverso immense lande deserte, costituiva il principale punto di
riferimento. Una società patriarcale e patrilineare, alla base della quale, stava un
complesso di credenze religiose, incentrate sulla figura del
“Pater/Pitar/Vater/Father”, nel ruolo di Dyeus Pətēr/Padre Celeste, contornato
da una serie di importanti deità, dal ruolo subalterno. Tra esse primeggiava il
Dio del tuono o “Maworts” a cui si associavano il germano scandinavo Thor, dal
termine proto-germanico Tunraz, in celtico Taranis, presso gli ittiti Tahrunt. La
parola indoeuropea T(e) nhr-os/Tnhront alla base di questo appellativo significa
"armato di tuono", "tonante". Lo stesso germanico Wodan/Wotan, da Wōdanaz,
è un aggettivo derivante dall'indoeuropeo Wotenos/”il furioso”. Si tratta della
personificazione virile del tuono e del fulmine, quale dio guerriero, in quanto
portatore di una furia distruttrice, direttamente proveniente dal padre-cielo.

Sull’altro versante stavano, invece, tutte quelle etnie e culture che,
genericamente, si è soliti definire quali “pre indoeuropee”, sulle quali, ad oggi, le
testimonianze storico-archeologiche sono molto più vaghe e confuse, andando

queste ad abbracciare un arco di tempo, che risale alla genesi stessa della specie
umana. In Europa e nel bacino del Mediterraneo, alle fonti storico-mitografiche
che ci parlano di popolazioni “pelasgiche”, si accompagnano le testimonianze

della presenza etno-linguistica di Liguri, Sardi, Minoici, Lelegi (Anatolia sud-
occidentale, pre Ionia),Iberi, Tartessici e Baschi, nella penisola Iberica,

Etruschi, oltrechè le popolazioni sicule di Sicani ed Elimi. Per quanto attiene il
Danielou, questi teorizza una cultura “Munda”, dal nome della tribò dravidica
dell’India meridionale che, a suo dire, avrebbe influenzato ed accomunato una
vasta area geografica, dal subcontinente indiano, passando per la Valle dell’Indo
sino ai contrafforti del Mediterraneo.

A detta degli studi dei vari Bachofen, Marja Gimbutas, Frazer, Graves ed altri
ancora, queste civiltà, prevalentemente agricole e stanziali, sarebbero state
caratterizzate da una netta prevalenza dell’ elemento femminino, espresso dai
culti legati alla Grande Madre o Madre Terra, dispensatrice di vita, fecondità e
morte. Ne sono testimonianza tutte quelle statuette o steli lignee, raffiguranti
una Dea Madre dalle sovrabbondanti forme fisiche, reperibili in tutta quella
vasta area che va dal Mediterraneo al Vicino Oriente. Alla Grande Madre si
accompagnavano altrettante divinità, sia maschili che femminili, con particolare
risalto a quella delle tempeste del mare e dei terremoti, oltrechè a quelle del
fulmine e del fuoco e degli astri, le cui preci ed orazioni erano per lo più,
indirizzate con lo sguardo rivolto verso terra.

Ad accomunare questa immensa”koinè”, una civiltà essenzialmente agricola e
pacifica, a testimonianza della quale, restano i megaliti e le gigantesche
costruzioni in pietra, qua e là ammirabili per il mondo: da Stonehenge, ai resti
della civiltà di Hallstadt, dai villaggi nuragici sardi, sino alle misteriose mura
ciclopiche sparse dall’Italia alla Grecia pre ellenica (mura micenee...), da Gerico a
Mohenjo Daro, non senza passare per l’Egitto, sino al remoto continente
australiano. Al loro arrivo, i bellicosi Indoeuropei, sottomisero le popolazioni
locali ed imposero il loro pantheon religioso maschile su quelli precedenti, non
senza però, che venissero conservate alcune divinità femminili, sotto le mentite
spoglie di alcune Dee; il tutto, a dire dei nostri autori, in una modalità che tanto
avrebbe ricordato quella di un vero e proprio “golpe” religioso.

A dar più smalto a questa narrazione, le conclusioni delle ricerche in un ambito
che va dalla filologia alla genetica, dall’archeologia all’antropologia, di una serie
di autori come Martin Bernal (con la sua “Athena nera”), Charles Penglase
(“Dall’Ekur all’Olimpo”), Antonio Semerano (“L’equivoco dell’infinito”) e Luigi
Luca Cavalli Sforza (genetista) che, presi da una ubriacatura di puro

progressismo, ancor più in là si spingono. A detta di tutti questi signori, gli
Indoeuropei “si et si” non esistono. Pertanto, tutta le culture di matrice
indoeuropea e quella ellenica in particolare, nulla avrebbero di originale, bensì
tutto di originario, vantando quest’ultima, nella fattispecie, una stretta
derivazione semitica e mesopotamica.

Penglase da una parte con la mitologia, Semerano dall’altra con la linguistica,
Bernal con l’arte, ci propinano l’idea di una grecità la cui lingua ed il cui
immaginario, sono, in verità, una diretta derivazione delle culture semitiche,
mesopotamica in particolare. All’Odisseo semita, dalla carnagione olivastra, fa il
paio l’immagine di una statuaria greca, raffigurante Dei e Dee in abiti sfavillanti,
dalla pelle scura, il tutto accompagnato ad una lingua, il greco antico, i cui
vocaboli sono tutti di derivazione accadica. A rinforzo delle tesi del Danielou,
invece, Cavalli Sforza e la sua idea di una comune origine africana dell’umanità
intera, assieme alla conclusione della completa inanità dell’idea di razza e di
differenza tra un’umanità, pian piano ridotta ed ad un quanto mai confuso
“rassemblement” di individualità, omologati ad una unica ed indistinta radice
etnica e culturale.

Punto primo. Tanto per cominciare, quello dell’indoeuropeistica non è una fola,
né il frutto di una qualche distorsione propagandistica, bensì il frutto di un
percorso lungo tre secoli che prende le mosse dalla riscoperta delle radici
“volkisch” da parte dei vari autori romantici, passando per autori come Bopp,
Grimm, Humboldt, Schlegel, sino ad arrivare ai giorni nostri ad un George
Dumezil e ad un Emile Benveniste, non senza passare per una studiosa del
calibro della stessa Gimbutas. Tutti questi ed altri ancora, costituiscono la non
irrilevante schiera di coloro che, in base a tutta una serie di considerazioni
corredate da una notevole quantità di materiale archeologico, linguistico,
storiografico, antropologico e via discorrendo, hanno condiviso l’idea di una
comune matrice etno-linguistica per quanto attiene Greci, Latini, Germani, Celti,
Slavi, Baltici, Ittiti, Traci, Armeni, oltre a tutte le popolazioni di etnia iranica quali
Pharsi, Medi, Elamiti, non senza passare per gli Indiani ed altre ancora. La
Gimbutas, in particolare, con la teoria dei Kurgan ( tumuli funerari a forma
conica, situati in vaste aree dell’Asia Centrale....), prospettò una corrente
migratoria proveniente da un alveo situato tra il nord del Caucaso ed
approssimativamente l’attuale Turkmenistan, di contro all’ipotesi di Colin
Renfrew che fa partire l’ondata migratoria indoeuropea dal 7000 AC, dalla
penisola anatolica; un’ipotesi questa, poi dallo stesso ridimensionata. Comunque
sia la Gimbutas, nelle sue teorie sulle popolazioni pre indoeuropee, si è ben
guardata dal sottovalutare o dal negare addirittura l’esistenza e la specificità
indo-ariane, anzi.

Punto secondo. A proposito delle “pacifiche” civiltà pre-ariane, sono venuti
allaluce molti manufatti per uso bellico, all’interno di villaggi fortificati, un po’
ovunque. Punto terzo. A parte che, in questo pout pourri, mito-storico,
bisognerebbe distinguere chiaramente le civiltà non indoeuropee già avanzate,
quali quelle di Mesopotamia, Egitto, valle dell’Indo, etc., la cui cultualità religiosa
non era assolutamente rivolta a modelli esclusivamente matrilineari, tutt’altro.
Pertanto, determinate considerazioni dovrebbero toccare le fasi proto e pre
istoriche del Mediterraneo e del Vicino Oriente, fermo restando che, accanto al
culto della Grande Madre, erano anche presenti culti a valenza maschile, come
quello del mare ed altri consimili. Punto quarto. Quella degli Indoeuropei,
sembra non sia stata una migrazione improvvisa, ma il frutto di successive
ondate che, alla luce delle più recenti scoperte, sembrano siano iniziate ben
antecedentemente al 700-1000 AC, in cui venivano datate. Tale gradualità, ci fa
supporre un innesto della “welthanschaung” indo ariana, già presso popolazioni
e civiltà sinora ritenute non indoeuropee, come gli Etruschi (anche grazie al
lavoro ed agli studi del recentemente scomparso, Massimo Pittau) e
probabilmente anche i Sardi.

Questa considerazione, si connette direttamente con le frettolose affermazioni di
certa scienza, a proposito delle origini della specie umana e delle razze. Molti
ritrovamenti nell’ambito della paleoantropologia ci parlano di una zona
“antropofiletica”, situata tra India Occidentale ed Africa Orientale, da dove si
sarebbe verificato il processo di “ominazione” che avrebbe dato luogo alla specie
umana, fermo, però restando il fatto dei ritrovamenti di resti di ominidi
classificati quali “Eurantropo”, “Sinantropo”, “Africantropo” e via dicendo. Il che,
ci pone dinnanzi d una ben diversa idea sulle origini della specie umana, sin dai
propri albori marcata dalla presenza delle razze, che farebbero supporre uno
sviluppo della razza umana di tipo policentrico e sincronico, caratterizzato, cioè
dal contemporaneo sviluppo di svariati focolai sparsi per il mondo.

La qual cosa, oltre a mandare in pappa l’idea di una origine esclusivamente
africana dell’uomo, potrebbe anche rivoluzionare, e non poco, la cronologia e la
storia della presenza dei popoli di razza caucasica e bianca, in genere,nel Vecchio
Continente. Punto quinto. Dal punto di vista filologico, Semerano, nei suoi lavori,
sembra ignorare totalmente le scoperte filologiche ed archeologiche che a
partire dal XIX secolo hanno deposto a favore della teoria dell'indoeuropeo.
Tanto per fare alcuni esempi, la decifrazione delle tavolette ittite, scritta in
caratteri cuneiformi , ma riportanti una lingua indeuropea; le tavolette scritte
in lineare B, una forma di greco arcaico del II millennio a.C. e l’esistenza del
tocario, una lingua morta, parlata nel bacino del fiume Tarim, nell'attuale
provincia cinese dello Xinjiang, di matrice indoeuropea. Semerano poi, ammette

candidamente di non basarsi sui metodi della linguistica comparata, bensì su
pure e semplici assonanze fonetiche ed affinità di significato, seguendo dunque
un procedimento in gergo definito come “paretimologico”, ovvero procedendo
letteralmente “ ad orecchio”. Metodo sicuramente simpatico, originale,
denotante un certo spirito di osservazione ma, ahimè, superficiale e frettoloso.
Infatti, il Semerano nelle sue elucubrazioni, non fa edotto il lettore, su quelle che
dovrebbero essere le eventuali leggi linguistiche, alla base della trasformazione
dell'accadico nelle varie lingue indoeuropee.

Ora di fronte a tutta una serie di dati scientifici, di cui qui, per motivi di brevità
testuale, abbiamo riportato solo alcuni esempi, che comunque mettono certe
ricostruzioni sotto una ben diversa luce, è necessario operare un doveroso
distinguo che attiene ad una più generale e sostanziale impostazione del
problema. Qui, nessuno vuol negare l’idea di una fase della umana civiltà più
sbilanciata sulla predominanza dell’elemento femminino, piuttosto che quello
mascolino, in certi contesti storico geografici, quali per esempio quelli del Vicino
Oriente e del Bacino Mediterraneo, come si può ben evincere dalle risultanze
archeologiche a nostra disposizione. Un’idea questa, portata avanti anche dal
punto di vista di un’analisi più prettamente psicanalitica, che tenga conto della
progressione di vari stadi, nel raggiungimento della piena coscienza da parte
dell’uomo della propria individualità, così come prospettato dallo junghiano
Neumann (“Storia delle origini della coscienza”) ed altri autori ancora.

A dimostrazione di quanto detto, il fatto dell’evoluzione di quelle figure maschili
che, inizialmente descritte come figure collettive (come i Dattili di Samotracia)
attorniavano la Grande Madre e che, in quel processo di personificazione
individuale, arrivano ad ottenere l’appellativo di "figlio della dea", che diverrà
così l’epiteto di talune divinità maschili, particolarmente legate alla terra,
come nel caso di Dioniso. Lo stesso rapporto tra la Grande Dea e il suo
compagno, sempre rappresentato nelle vesti di un amante più giovane di costei,
dotato di meno poteri, assai simile ad un figlio (si veda in proposito la
coppia Cibele-Attis).Il tutto, non senza omettere di parlare della
complementarietà tra i sessi che, comunque, sussisteva all’interno di questo
ambito culturale. In questo contesto, in molte sculture sculture l'energia divina
del fallo maschile, viene anche mostrata confusa nel corpo femminile, creatore
della vita.

Potremmo anche parlare dello Civaismo della civiltà pre ariana della Valle
dell’Indo, che, nello “Shiva Lingam” ha il proprio simbolo portante o della
“potnia ton teron/compagna del toro” che affonda le proprie

radici nella cultualità pre classica, in particolar modo minoica. Un ciclo vitale
determinato da un continuo legame fra il regno della Madre (terra) e il regno del
Padre (cielo), una vera e propria cosmologia della dualità, in cui ognuna delle
due polarità rimanda indissolubilmente all'altra. Una sinergia, per esempio, ben
rappresentata dalla simbologia dell'uovo (simbolo dell’essere in potenza) e che è
presente anche in talune figuri di divinità maschili, quali per esempio,
Kronos/Saturno e Hermes/Mercurio, che posseggono rappresentazioni
androgine o ermafrodite, evidenzianti l'intrecciarsi tra uomini e donne, dei e
dee, cielo e terra. Col tempo, la simbologia degli dei del cielo si sovrapporrà
alla simbologia delle dee della terra, senza però annullarla.

Se è vero che tra le due forme di religiosità, pre indoeuropea ed indoeuropea
propriamente detta, esiste una effettiva differenza d’impostazione, è anche vero
che esse appartengono senza ombra di dubbio, all’alveo delle religioni
tradizionali-politeiste, caratterizzate da alcune fondamentali linee-guida. Mentre
le religioni montoeiste, si fanno portatrici di una concezione del tempo
unilineare, finalizzata al raggiungimento della Gerusalemme Celeste, quella delle
religioni tradizionali è una concezione ciclica, quasi atemporale. Nelle prime Dio,
nel ruolo di Dremiurgo, con un atto di assoluta volontà individuale, crea il
mondo “ex nihilo”, nelle seconde la creazione del mondo è frutto di un atto
casuale generalmente risultato di un’azione tra due opposte polarità, o dualità
che dir si voglia, come nel caso dell’accoppiamento tra Cielo e Terra, comune sia
all’ambito religioso antico-europeo che a quello extra europeo.

A dimostrazione di quanto detto, il mito dell’uccisione di un gigante, Tiamat per
gli Assiro-Babilonesi, Purusha per gli Hindu, Ymir per i norreni, Gayomart per gli
iranici, sino alle concezioni del classico politeismo egizio delle scuole di
Hermopolis ed Heliopolis, che vedono il cosmo creato con il concorso di vari
elementi ed opposte polarità, nel caso della teologia eliopolitana, creati con il
gesto dello sputo o all’eiculazione di Atum. Il Tempo, in ambito politeista, è un
ciclico succedersi di ere ed eventi; una legge questa a cui sottostanno le divinità
stesse che, non infrequentemente, scomparivano sic et simpliciter dallo scenario,
come nel caso del greco-romano Saturno, Ecate, Gea( Terra), Diana ed altre
ancora.

Pertanto, anche il caso della sovrapposizione delle divinità uraniche di matrice
indoeuropea, a quelle ctonie di opposta matrice, può esser tranquillamente
considerato nell’ambito della normale fenomenologia delle religioni tradizionali
, che non prevedevano quelle drammatiche rotture, verificatesi, invece, con il
passaggio dalle religioni politeiste a quelle monoteiste, come nel caso

dell’avvento del Cristianesimo nel contesto del mondo tardo-classico. Altro
punto di fondamentale importanza. Il fatto che vi siano analogie tra le divinità
dell’ambito mediterraneo non significa una diretta derivazione delle une dalle
altre, bensì un fisiologico ripresentarsi di archetipi che giacciono nell’inconscio
collettivo di tutto il genere umano e che vengono, via via, adattati e
reinterpretati a seconda delle culture di riferimento. Quella che gli Indoeuropei
apportarono, non fu solamente una concezione del trascendente rivolta alla
dimensione uranica ma, anche e soprattutto, un modo di intendere la società
secondo una ben determinata visione tri partita, dal Dumezil abbondantemente
esplicata.

Una visione accompagnata da un importante correlato glottologico e linguistico,
di cui il Benveniste (in questo preceduto da altri esimi studiosi...), tratta
abbondantemente. Come tutte le lingue, anche quelle indoeuropee e/o
l’indoeuropeo antico, sono portatrici di una determinata visione del mondo, in
questo caso rappresentata dalla coniugazione di quel verbo
“Essere/Einai” che ci porta diritto diritto, alla grande novità rappresentata
dalla riflessione filosofica, ovverosia dalla spinta a dare una definizione
dell’essenza della realtà, in tutte le sue espressioni, immanenti o trascendenti
che siano. Una forma di conoscenza questa, figlia di quel fuoco donato dal Titano
Prometeo, che spalanca all’uomo indoeuropeo la possibilità di esercitare un
dominio, prima impensabile, sull’intera realtà, facendo di questi un vero e
proprio semidio.

La razza umana percepisce questo dono da un Gigante Titano, simbolo archetipo
delle forze elementari del Chaos, ovverosia del regno delle infinite potenzialità
in divenire. Quelle stesse forze che Zeus/Nous/”ha sconfitto, nella battaglia
primordiale per ribadire una volta in più, quell‘ ” /ananke/necessità” di
un ordine cosmico, da cui l’uomo potrà poi, attingere a piene mani . Dall’altra
parte, nell’Oriente Hindu, con gli scritti della “Bagnavad Gita” si fa strada l’idea
che colui che è “Arya/Areion/Valoroso”, al fine di perseguire la piena

Virtus, possa superare il bene ed il male, così come farà l’eroe Arjuna (Ar-
valore...) protagonista del poema citato.

Gli Indoeuropei si fanno così portatori della prima rivoluzione antropocentrica
della storia. Da semplice amante-figlio sacrificale, da semplice entità confusa e
indistinta all’interno di un ordine cosmico dominato da una Grande Madre,
amorevole ed al contempo spietata, l’uomo Indoeuropeo abbatte il Drago
femminino del Chaos e dell’indistinzione e dopo aver messo, all’interno di un
nuovo Pantheon di Dei Uranici, in minoranza le antiche Dee, va egli stesso

assumendo un ruolo sempre più centrale all’interno della vicenda cosmica. Se da
Occidente, l’uomo Indoeuropeo mutuerà la fiaccola della conoscenza, da Oriente,
invece, partirà la strisciante tentazione di collocarsi al di là dei confini del bene e
del male, in un dimensione sovrumana, perseguendo la più perfetta virtù
contemplativa attraverso l’azione nel mondo. La doppiezza androginica di quei
Giganti dal germanico Ymir, all’iranico Gayomart, all’Hindu Purusha, dalle cui
membra vengono tratti l’universo e la razza umana, quella stessa consustanziale
ambiguità e doppiezza, va trasferendosi sul piano dell’essenza costitutiva dei
popoli indo-ariani. Ad Ovest la conoscenza dell’essenza ultima della realtà, al
fine di assumere il dominio dell’Essere, ad Est la Contemplazione quale totale
distacco dal mondo, perseguita agendo su questo, al fine di giungere ad uno stato
di perfezione interiore tale, da ascendere ad una dimensione sovrumana ed a
dominare l’Essere. I

n seguito, sempre all’insegna dell’istanza del dominio sull’Essere, l’Occidente
assumerà in sé quelle che, degli antichi Indoeuropei d’Oriente ed Occidente
furono principali caratteri costitutivi delle rispettive identità, in una inedita
sintesi, animata da una irresolubile dualità. Contemplazione e Azione,
Immanenza e Trascendenza ,Essere e Divenire, fanno dell’Occidente un unicum,
nel bene e nel male, la cui primaria matrice è unicamente riscontrabile in quelle
tanto disprezzate e sottovalutate radici indoeuropee. Radici da cui oggi abbiamo
deviato, nel nome di una parodistica e rovesciata visione del mondo che, di
quella “Techne”, donataci dal Titano Prometeo, fa un vero e proprio fine e non
un giusto mezzo per procurarci quella tanto agognata
“eudaimonia/felicità”, tanto magistralmente rappresentata, sia dal
culto solare del latino Sol Invictus che da quello iranico del Fuoco Sacro.

E pertanto, quando si parla di Indoeuropei, non di stupido razzismo si tratta , né
di ottusi nostalgismi, ma della piena coscienza che la vera salvezza di noi
“moderni”, proverrà proprio dal riscoprire quelle radici, quei fondamenti alla
base dell’esistenza di un popolo, da cui la Vita riparte con nuove e più esaltanti
prospettive.
UMBERTO BIANCHI