mercoledì 17 agosto 2016

FALSIFICARE LA MEMORIA  (parte terza)  
3.1  Il genocidio fascista contro gli Slavi: documenti e interpretazioni

Secondo gli intellettuali di Sinistra con i quali mi sono confrontato il crollo del Regno di Jugoslavia nel 1941 sarebbe lo spartiacque tra la prima e la seconda fase del progetto fascista di genocidio contro gli Slavi. Essi definiscono questa fase “pulizia etnica italiana verso sloveni e croati” e citano i documenti redatti dall'Alto Commissario Emilio Grazioli, ma anche da quelli dei generali Roatta, Robotti e Gambara, dai quali emergerebbe un conflitto che non si limita alla repressione contro il Fronte di Liberazione, ma che parte da una diversa visione politica del rapporto tra vincitori e vinti, tra razza dominatrice e popolazione assoggettata: quindi marcatamente razzista.

Questa interpretazione mi pare invece viziata dai consueti metodi di falsificazione della memoria che ho già denunciato a partire dalla decontestualizzazione dei documenti stessi. Come tra poco apparirà chiaro a tutti, quelle in oggetto sono le direttive militari emanate dai comandanti delle forze d’occupazione italiane in Slovenia, Dalmazia e Montenegro per fronteggiare il movimento partigiano. I comunisti di ritorno però fanno finta di non capirlo e tanta malafede è funzionale a quel processo truffaldino che ho definito  altrove “violazione del nesso causale”. In altre parole si mettono in relazione di “causa-effetto” elementi che non c’entrano nulla tra loro al fine di creare un quadro d’insieme solo apparentemente coerente e in linea con la tesi preconcetta di un genocidio italiano. Si tenta così di
1) estrapolare il processo di italianizzazione forzata degli allogeni dal quadro più ampio della nazionalizzazione forzata delle minoranze etniche che era in atto in tutta Europa fin dal 1919;
2) estrapolare le rappresaglie del Regio Esercito contro i civili dal contesto della lotta anti-partigiana;
3) fabbricare una motivazione esclusivamente ideologica per collegare due fatti che sono diversi tra loro e che proprio per questo non sono altrimenti collegabili se non con una frode intellettuale.

Senza ulteriore indugio procederò ad esporre fedelmente i documenti che mi ha inviato un pugno di  intellettuali di Sinistra e l’interpretazione che essi stessi ne danno.

Gli intellettuali sinistroidi affermano che le autorità militari italiane pianificarono l'eliminazione di massa di Sloveni e Croati attraverso la deportazione di migliaia di uomini nei campi di concentramento. Citano al riguardo questa disposizione del generale Orlando: << è necessario eliminare: tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici in genere (A.C., Questura, Tribunale, Finanza ecc.), tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, [...] i parroci, [...] gli operai, [...] gli ex-militari italiani, che si sono trasferiti dalla Venezia Giulia dopo la data suddetta >>. Il generale Roatta propone inoltre la deportazione << di tutti i disoccupati e degli studenti per farne unità di lavoratori >>.

Secondo gli antifascisti viene condotta una repressione contro gli intellettuali (docenti e studenti dall'università alle scuole inferiori) essendo considerati la colonna portante del movimento partigiano. L'11 luglio 1942, Mario Robotti scrive a Emilio Grazioli, dopo le ennesime "operazioni di rastrellamento ed epurazione politica", effettuate dal 24 giugno al 1º luglio a Lubiana e nella provincia, che è stata attuata la deportazione nei campi di più di 5 000 uomini (tra i 16 e i 50 anni); mentre il comandante dell'XI Corpo d'armata lamenta che:
<< ...il mancato rastrellamento di donne, specialmente insegnanti di scuole medie ed elementari, che hanno notoriamente svolto e tuttora svolgono attiva opera di propaganda comunista e di assistenza ai partigiani, ha prodotto cattiva impressione >>.

Esposte così, senza alcuno sforzo di comprensione, e lette con le lenti dell’odio politico questi documenti paiono confermare l’accusa che il comunismo di ritorno muove al fascismo: di aver voluto annientare fisicamente le autorità locali e le persone più istruite tra gli Sloveni e i Croati per portare a termine un ventennale progetto di genocidio della razza slava. La lotta anti-partigiana sembra quasi una scusa, un pretesto, una maschera. Ma è davvero così?

Il critico militare John Keagan ci rivela interessanti retroscena dei metodi di lotta dei comunisti di Tito: << Dovunque i partigiani… occupassero una regione… organizzavano comitati di contadini per gestire gli affari locali e per mantenere la legge e l’ordine. Quegli ausiliari politici restavano attivi anche quando i partigiani perdevano il controllo di un territorio (…) Una regola non scritta della guerra partigiana, era che in un territorio libero perduto gli elementi essenziali del lavoro di partito dovevano proseguire e che bisognava ricostruire le cellule in previsione di un ritorno futuro >>. Esistevano quindi due branche operative nel movimento partigiano: il Partito con le sue strutture e le sue bande armate. Annientare queste ultime era impossibile perché all’approssimarsi delle truppe italiane i partigiani si ritiravano sui monti rifiutando la battaglia in campo aperto. Correttamente gli alti comandi italiani identificarono nelle strutture politiche del Partito comunista il target più importante da colpire: ecco perché l’attacco avveniva contro una classe di nemici potenziali entro cui si trovava, ben mimetizzata, l’autorità politica.

Gli intellettuali di Sinistra denunciano una “politica dell’affamamento e della rapina”, praticata dai generali italiani nell’ambito di un progetto genocidario e citano le parole del generale Danioni, secondo il quale occorre << procedere alla requisizione dei raccolti lasciando ad ogni singolo proprietario il puro necessario per non morire di fame >>. Simili denunce mi appaiono di nuovo decontestualizzate e citate in modo strumentale. Ricordo di nuovo che siamo nell’ambito di disposizioni per la lotta anti-partigiana: si tratta dunque di distruggere il surplus alimentare dal quale dipendeva il sostentamento delle bande armate. Ma anche volendoci tutti astenere dal commentare, ci si può limitare a leggere quanto è scritto: “per non morire di fame”.

Secondo i sostenitori della tesi del genocidio il generale Roatta impartì ai suoi ufficiali disposizioni che contemplavano la distruzione di interi villaggi e deportazioni e la fucilazione di innocenti ostaggi:
<< COMANDO SUPERIORE FF.AA. SLOVENIA E DALMAZIA – 2^ ARMATA - CIRCOLARE N. 3 C del 1º marzo 1942[123]:P.M. 10, lì 1º dicembre 1942 – XXI°: Varianti di dettaglio - Premessa - Punto VI°: Alle offese dell'avversario si deve reagire prontamente e nella forma più decisa e massiccia possibile. Il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato nella formula «dente per dente» ma bensì da quella «testa per dente» [...] Parte seconda – Capitolo II° - Misure precauzionali nei confronti della popolazione: 15) [...] i Comandi di Grandi Unità possono provvedere: 15 a) ad internare [...] se occorre intere popolazioni di villaggi; 15 b) a fermare ostaggi tratti ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione; [...] 15 c) a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti; 16) Gli ostaggi [...] possono esser chiamati a rispondere colla loro vita di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani [...] nel caso che non vengano identificati [...] i colpevoli >>.

L'8 agosto 1942 nel villaggio di Ustie (Ustje, in sloveno) che all'epoca faceva parte della Provincia di Gorizia i soldati della divisione Julia per vendicare l'uccisione di un militare italiano e non per fini politici, uccisero 8 persone e diedero alle fiamme il villaggio (dopo la guerra il paese è stato ricostruito e ogni 8 agosto si commemorano le vittime dell'eccidio).

In due riservatissime lettere personali del 30 luglio e del 31 agosto 1942 indirizzate ad Emilio Grazioli il Commissario Civile del Distretto di Longanatico (Logatec, in sloveno) Umberto Rosin ha esternato le seguenti considerazioni:
<< Si procede ad arresti, ad incendi, [...] fucilazioni in massa fatte a casaccio e incendi dei paesi fatti per il solo gusto di distruggere [...] La frase «gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi», che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi >>.
Questi fatti sono noti e io non intendo né negarli né giustificarli. Il nostro governo avrebbe fatto bene, a guerra finita, a perseguire per crimini di guerra i generali che avevano emanato questi ordini. Ma come si era arrivati a un simile livello di barbarie? Per il comunismo di ritorno la situazione appena descritta era l’atto finale di un progetto genocida che trovava le sue motivazioni nel razzismo e nel totalitarismo del fascista. Curiosamente Kardelj, il vice di Tito, la pensava diversamente. Egli non faceva mistero della sua strategia che mirava a provocare il più alto numero di vittime civili possibile per costringere i sopravvissuti a unirsi alle bande comuniste:
<< Alcuni comandanti temono le rappresaglie, e questa paura impedisce la mobilitazione dei paesi croati. Ritengo che le rappresaglie avranno la conseguenza utile di spingere i paesi croati al fianco di quelli serbi. In guerra non dobbiamo avere paura della distruzione di interi paesi. Il terrore provocherà un’azione armata >>.

L’analisi strategica del fenomeno della guerra partigiana di Tito viene magistralmente illustrata dal critico militare John Keagan:
<< Per una serie di ragioni, tra cui la speranza di allentare la pressione sull’Unione Sovietica ma anche la decisione di radicare un apparato del Partito comunista in tutto il territorio jugoslavo, i suoi partigiani conducevano campagne attive quanto più potevano (…) La politica di condurre una campagna politico-militare sull’intero territorio jugoslavo provocò sofferenze indicibili ai suoi popoli, già travagliati in passato da rivalità aspre e violente che la guerra aveva risvegliato. A nord i capi dei croati cattolici avevano approfittato dell’appoggio italiano per scatenare contro i serbi ortodossi una campagna di espulsioni, conversioni coatte e sterminio. Anche i musulmani della Bosnia-Erzegovina presero parte alla guerra civile, mentre a sud i serbi del Kosovo erano attaccati dai vicini albanesi. Da parte loro, i cetnici delle terre serbe contendevano l’autorità ai partigiani, con cui non erano riusciti a concordare una strategia comune, ma non combattevano contro gli occupanti tedeschi per evitare rappresaglie. Tito a queste si fece sordo, considerando anzi le atrocità dell’Asse uno stimolo al reclutamento, e per sette volte si trascinò dietro di proposito i tedeschi in cosiddette << offensive >> che trasformarono in un deserto le campagne attraverso cui marciavano i suoi partigiani. Gli abitanti dei paesi erano costretti a seguire i partigiani << nei boschi >> (…) o a restare e far fronte alle rappresaglie (…) La politica di Tito di sovrapporre una campagna panjugoslava, filocomunista e anti Asse alla rete di conflitti locali che già infuriavano tra le diverse etnie e religioni, tra collaborazionisti e anti-collaborazionisti, nonché di mandare all’aria tutte le tregue che incontrava, ebbe realmente l’effetto di trasformare le tante piccole guerre in un solo, grande conflitto, nel quale egli divenne il principale comandante dello schieramento ostile all’Asse. Per suo ordine quasi tutti gli jugoslavi, comprese molte donne, furono costretti a scegliere da che parte stare. Di fatto la popolazione venne rimilitarizzata dal basso. Alla fine della guerra almeno 100.000 persone, tra quelle che avevano scelto la parte sbagliata, furono uccise dai partigiani (…) Gran parte degli altri 1.200.000 jugoslavi morti tra il 1941 e il 1944, su un totale di 1.600.000 persone, devono essere considerate vittime attive o passive della politica della guerra partigiana. Fu il prezzo terribile da pagare perché Tito potesse conseguire il suo obiettivo politico >>.

Ora finalmente diviene chiaro il motivo politico per cui il comunismo di ritorno sta tentando di falsificare la memoria e censurare il dissenso. Abituato da sempre a vedere nell’altro il nemico da odiare e a riconoscere in sé stesso il vindice dei poveri e dei diseredati della Terra, l’intellettuale di Sinistra è patologicamente incapace di ammettere le responsabilità della propria parte politica. E quindi deve falsificare la Storia per attribuire al nemico le colpe di tutto – comprese le proprie! Il mito del genocidio degli Slavi da parte del fascismo nasce da questa esigenza politica.
Purtroppo la sconfitta grida a gran voce perché esige risposte mentre la vittoria, come la carità, nasconde un gran numero di peccati.


Enrico Montermini, 17/08/2016