Srebrenica
di Aldo Bernardini – Docente Ordinariodi
Diritto Internazionale nell’Università di Teramo
1. Srebrenica, la Auschwitz degli anni
’90. L’Aja, la Norimberga
attuale. Equiparazioni oggi correnti, sono fra i mantra dell’ideologia
imperiale, i derivati del mostruoso sistema di “giustizia penale
internazionale” che alquanto spensieratamente si pretende discenda dal
Tribunale di Norimberga, al quale fu assegnato di giudicare i criminali del
nazifascismo tedesco. Sulla base dell’accordo internazionale di Londra dell’8
agosto 1945 fra le quattro grandi Potenze (Unione Sovietica, USA, Gran
Bretagna, Francia) che occuparono la Germania debellata nel secondo conflitto
mondiale.
Srebrenica. Quale Srebrenica? La
conclamata strage di (si dichiara) 8000 musulmani ad opera dei Serbi di Bosnia
nel 1995 – la strage detta ma che secondo molti forse non ci fu, almeno nei
termini della presentazione usuale -, o quella non detta, ma che ci fu, dei
serbi perseguitati, trucidati, espulsi, soprattutto ma non solo nel 1995
intorno a Srebrenica e altrove, inclusa la Kraijna di Croazia? Su tutto ciò, Autori varii Il
dossier nascosto del “genocidio” di Srebrenica, La Città del sole, Napoli 2007.
È davvero esistito il massacro
(quello “ufficiale”) di Srebenica?
Oramai bisogna dubitare di tutto.
Tante volte siamo stati ingannati:
Vi ricordate il famoso massacro
di Timisoara attribuito a Ceaucescu ed alla sua crudele “Securita te”? Quanti di noi sanno oggi che i cadaveri
fotografati erano quelli di persone decedute per cause naturali e “straziati”
non dalle torture, ma dall’obduzione condotta dal personale medico
dell’ospedale municipale?
Vi ricordate il “massacro di
civili albanesi” consumato dall’esercito jugoslavo (serbo-montenegrino) in
Kosovo? Quanti fra noi hanno saputo –a distanza di tempo- che i civili non
erano tali, ma combattenti dell’UÇK caduti nel corso di uno scontro armato, e
che il capo degli osservatori internazionali, cioè l’agente della CIA William
Walker, ha ordinato di spogliarli delle divise e di rivestirli in abiti civili
creando così l’occasione lungamente attesa per dichiarare guerra alla
Jugoslavia? La verità è nota a chi si è dato la pena di leggere il rapporto
della dottoressa finlandese che affermava aver trovato sulle dita di tutti i
cadaveri (tranne in uno) tracce di polvere da sparo. Inutile dire che la
“grande stampa indipendente” non ha ritenuto opportuno darne notizia.
E i campi di concentramento dei
musulmani rinchiusi dai serbi dietro al filo spinato? La foto di un giovane
denutrito e con le costole sporgenti guardava, da dietro al filo spinato,
decine di milioni di lettori indignati di quanto stava apparentemente
succedendo. In realtà il giovane non era “detenuto” ma era stato semplicemente
ricoverato, assieme a decine di altri profughi di diverse etnie, in un campo di
accoglienza organizzato dai Serbi. E il filo spinato? Molto semplice: il
fotografo mercenario aveva attirato alcuni profughi del campo di raccolta
all’interno del confine di una proprietà privata e li aveva poi fotografati
posizionando l’obbiettivo al di là del recinto che delimitava la proprietà
privata.
E l’11 settembre? Quale babbeo
crede ancora in buona fede che sia stata Al Qaeda, almeno da sola, ad abbattere
le torri a mezzo di due improbabili aerei? Sono ormai centinaia le domande
senza risposta e decine le tracce che ad abbattere i grattacieli siano state
delle cariche di esplosivo plastico piazzate scientemente nelle settimane
precedenti in modo da provocare il crollo dei medesimi grattacieli. Sono a
disposizione oramai numerosissimi libri che demoliscono la tesi ufficiale.
Avete ancora dei dubbi? Ed allora cercate di spiegare come 2 aerei possano aver
abbattuto 3 grattacieli!
Tralascio di parlare dell’Iraq e
delle motivazioni che sono state date da Bush per la guerra di aggressione che
ha portato la cifra delle vittime irachene a sfiorare il milione di unità,
perché ormai anche il più sprovveduto fra noi ha capito di essere stato
brutalmente ingannato. E da ultimo le fosse comuni di Tripoli e tutto il resto
dell’infame aggressione alla Libia di Gheddafi?
Che pensare allora del massacro
di Srebrenica?
Questo libro ci dimostra che un
massacro c’è veramente stato, con una piccola differenza però rispetto alla
tesi ufficiale: VITTIME DEL MASSACRO SONO STATI I SERBI. L’altro massacro,
quello dei musulmani, presenta lati oscuri nonché l’indubbia utilità del
tentativo di incastrare la componente serba e, attraverso una ricercata
ricostruzione della catena di comando, ha avuto di mira il presidente jugoslavo
Milosevic. Certo, anche questo va indagato. Ma la “giustizia penale
internazionale” viene messa a nudo: l’altra Srebrenica, quella delle vittime serbe,
risulta completamente ignorata.
2. Il sistema di “giustizia
penale internazionale” con le attuali istanze giudiziarie, che si va costruendo
per arbitraria volontà dei “forti” e colpevole acquiescenza ad ampio raggio sul
piano mondiale, può solo nell’apparenza vantare la “nobile” (tale almeno nella
grande sostanza) ascendenza di Norimberga. Ne è in realtà il totale
rovesciamento, pur atteggiandosi a prosecuzione o reviviscenza: si tratta di
“similNorimberga”.
Il Tribunale di Norimberga venne
stabilito con l’accordo di Londra dell’ 8 agosto 1945 fra le quattro grandi
potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale (URSS, Stati Uniti, Gran
Bretagna, Francia) per giudicare i crimini degli esponenti nazisti dopo la
totale sconfitta della Germania. Dunque giustizia dei “vincitori”, e tale
scopertamente: qui potrebbe ravvisarsi un primo tratto di aggancio con le attuali situazioni. Infatti,
al di là di episodi tutto sommato marginali, le attuali istanze operano di fatto, e lo vedremo meglio, come
espressioni di “giustizia”, se non dei “vincitori”, dei “forti” sul piano
mondiale: ovviamente, in modo sotterraneo, implicito e certo non dichiarato, ma
ben reale. D’altra parte pure, in ciò e se si va al fondo delle cose, con una
fondamentale distorsione rispetto a Norimberga, il cui significato andrà
chiarito.
Ci si riferisce, tralasciati il Tribunale per
il Ruanda ed altre situazioni minori, al Tribunale ad hoc per la Jugoslavia , che è qui
di primario interesse, e alla Corte penale internazionale, ambedue con sede
all’Aja (e da distinguersi da altra istanza, che per i problemi qui trattati
non ci riguarda, la Corte
di giustizia internazionale, pure all’Aja, che giudica sui rapporti fra Stati
in base ad accettazione della sua giurisdizione): istituiti, rispettivamente,
con la ris. 827 del Consiglio di Sicurezza in data 25 maggio 1993 (per il
Tribunale ad hoc) e con la Convenzione di Roma del 17 luglio 1998 (per la Corte penale
internazionale). Quale l’aggancio con il passato?
Campo di
azione per Norimberga: le categorie di crimini catalogate, nell’accordo
istitutivo, come crimini contro la pace
(non solo l’aggressione, ma tutte le macchinazioni poste in essere con l’esito
della guerra), crimini contro l’umanità (fattispecie delittuose di oggettiva
gravità e con dimensioni di massa, a partire dal genocidio), crimini di guerra
(quelli tradizionali previsti dal diritto bellico). Di qui un’evoluzione che
portò all’ampliamento della tradizionale categoria dei “crimini individuali di
diritto internazionale”: esempio classico, fin dal passato, la pirateria.
Legittimato da un’antica norma internazionale, qualunque Stato può esercitare
la propria giurisdizione penale sul pirata anche fuori dagli usuali criteri
legati alla sua sovranità (cittadinanza dell’autore o della vittima del
crimine; commissione del crimine sul proprio territorio) e pertanto in base a
un criterio di universalità di giurisdizione penale. Ebbene, per i crimini
delle categorie di Norimberga si è tentato da taluni Stati occidentali di
applicare in proprio tale criterio, con in più un elemento assai pesante, in
superficiale apparenza desunto da Norimberga: nel caso di fatti compiuti in
veste ufficiale da individui-organi di uno Stato, sui quali l’unica
giurisdizione penale è stata tradizionalmente solo quella del proprio Stato,
quei fatti, in forza di asserite nuove norme internazionali, si è cominciato a
considerarli come non attribuibili solo allo Stato dell’individuo-organo, ma
anche direttamente a questo individuo (rispetto a ciò erano esistite in precedenza
solo marginali eccezioni nel diritto bellico). Quindi qualunque Stato, che
avesse adottato per quei crimini il criterio di universalità, avrebbe potuto e
potrebbe legittimamente, secondo tale ben dubbia concezione, giudicare un
individuo-organo di un altro Stato, deprivato dell’immunità prima risultante,
per diritto internazionale, dall’esclusiva attribuzione del fatto criminoso al
proprio Stato (unico titolare questo, com’è ovvio, di giurisdizione penale
sull’individuo-organo proprio). Si ricordi il caso Pinochet. Ma abbiamo
assistito a un fenomeno apparentemente sorprendente: quando è sorto il pericolo
di colpire, invece che esponenti considerati ostili del c.d. Terzo Mondo,
determinati personaggi “amici” o comunque appartenenti al campo dei “forti”, ad
esempio l’israeliano Sharon da parte del Belgio, gli Stati, così “generosi”
nell’adottare il criterio dell’universalità ai fini, come veniva strombettato,
di una giustizia… universale, hanno, con rapida “opportunità”, fatto marcia
indietro e dunque modificato la pertinente normativa per tenere in salvo
siffatti personaggi.
Dopo questa
zoppicante “evoluzione”, il passaggio all’attuale “giustizia penale
internazionale” con le istanze giudiziarie non statali come quelle sopra
nominate.
Lasciamo per
ora il profilo sostanziale della giustizia dei “vincitori” o dei “forti”. Gli
elementi in senso più specificamente giuridico che paiono far affondare in
Norimberga le radici dell’attuale “giustizia penale internazionale” li possiamo
così sintetizzare. Si tratta di giustizia penale, quindi su individui (come
ogni giustizia penale) ma stabilita da norme internazionali, sottratta o
sottraibile ai sistemi giudiziari degli
Stati, e quindi alla sovranità statale, con la quale la giustizia penale
sarebbe di per sé connaturata, per venire affidata a “organi”giudicanti non
statali. Naturalmente, per categorie di fatti criminosi definite da norme
internazionali: oggi, a partire da quelle, poco fa ricordate, di Norimberga, ma
con una sottrazione di peso, che offrirà spazio a considerazioni di forte
rilievo. Risalirebbe ancora a Norimberga, ma in quanto sancita espressamente
dalle pertinenti norme internazionali istitutive, l’esclusione, davanti alle
attuali istanze, dell’immunità degli individui-organi con l’accollo ad essi di
responsabilità individuale anche per fatti compiuti in veste ufficiale.
Nonostante
l’adozione di siffatti caratteri, l’attuale “giustizia penale internazionale” è
però una contraffazione di Norimberga. Come detto, vi è un elemento di
particolare visibilità che porterebbe ad accomunare: giustizia dei vincitori
contro i vinti. Ma, a ben vedere, si deve oggi prendere atto della vistosa distorsione
già evocata: dovrebbe parlarsi, a differenza di Norimberga, e lo si è
anticipato, dei “forti”, solo potenziali o indiretti vincitori, ai danni di
nemici prematuramente segnati come vinti, pur scattando l’operazione penale
internazionale (anzitutto, l’incriminazione) a conflitto tuttora in corso. Ciò
che, anzitutto, conferisce alle attuali operazioni di “giustizia penale
internazionale” il marchio della strumentalità: al di là di una apparente
formale equiparazione dei confliggenti, in realtà a sostanziale vantaggio di
una parte del conflitto in atto, come copertura dell’attività di tale parte, e
dei suoi sostenitori e mandanti sul piano mondiale, e strumento di (ricercata)
delegittimazione e disgregazione della dirigenza dell’altra parte, quindi della
stessa relativa compagine statale. È quanto meglio mostreremo più avanti.
Certamente il
Tribunale di Norimberga e le sue decisioni posero problemi giuridici
estremamente delicati (appunto, l’unilateralità, in quanto organo operante solo
nei riguardi dei vinti; problematico rapporto con i principii generali di
civiltà giuridica in campo penale, quale nullum crimen e nulla poena
sine lege, e dunque retroattività dei criteri assunti come base delle
condanne…). Ma la portata immane e catastrofica, di carattere per così dire
sistemico sul piano mondiale, dell’azione complessiva della coalizione
dell’Asse nazifascista (a fronte, è pur vero, di numerose azioni della
coalizione contrapposta, o meglio di una parte di essa, di estrema gravità sul
piano dello ius in bello, ma tutto sommato in quanto episodi non
connessi in un disegno criminale totale: Dresda, Hiroshima e Nagasaki…), può
illuminare sulle ragioni storiche profonde a sostanziale spiegazione della base
giuridica di Norimberga: rispetto, per contrapposto, alle attuali esibizioni
della “giustizia penale internazionale”, sinora sempre connotate da assoluta
trascuranza, predisposta sul piano normativo, dei reali contesti e quindi della
reale consistenza delle attività criminose, vere o asserite, prese in esame e
delle connesse responsabilità globali.
Non vi è
dubbio che la previsione, per Norimberga, dei crimini contro la pace ha
costituito il “cappello” idoneo a circoscrivere la sfera d’azione del
Tribunale: si tratta dei comportamenti che, nel contesto storico reale, non
sarebbe stato possibile ascrivere altro che alle potenze dell’Asse, quindi per
Norimberga alla Germania nazista: e ciò avrebbe avuto necessariamente riflesso
sulle altre due categorie di crimini sotto il profilo soggettivo della sfera
degli incriminabili. Il tutto però fondato su un dato inequivocabile: punto di
partenza, i comportamenti e le attività aggressive, indubbiamente senza pari,
dell’Asse. Il “taglio” della categoria per le odierne istanze dell’Aja porta
invece per quanto in modo subdolo, si è accennato e vi torneremo, a gravi
conseguenze specifiche.
Il processo di Norimberga può sembrare aver
costituito elemento di rottura dello schema tradizionale del sistema
internazionale nel settore in esame e di propulsione per gli sviluppi
successivi. Sì e no, per verità. Un organo giudiziario stabilito sulla base di
un accordo internazionale, senza la partecipazione dello Stato, i cui
individui-organi vengono sottoposti al potere di quel Tribunale, appare prima
facie, secondo il discorso delineato, scardinare la struttura basilare del
sistema giuridico internazionale: con radicale obliterazione della sovranità
statale, eliminazione delle immunità internazionali degli individui-organi,
sovraimposizione di un apparato giurisdizionale di immediata origine
internazionale. È in prima linea su questa rappresentazione, lo si è ribadito,
che viene giocata una pretesa ascendenza di Norimberga rispetto all’attuale
“giustizia penale internazionale”.
La profonda
realtà giuridica, e non solo giuridica, della situazione delineata rivela
tutt’altra configurazione. Pur previsto da un accordo internazionale,
necessario come disciplina dei rapporti fra le quattro grandi potenze
occupanti, il Tribunale di Norimberga ha operato in realtà come organo interno
del sistema giuridico della Germania occupata, nella quale l’apparato statale
era crollato e il potere sovrano era congiuntamente esercitato dalle quattro
potenze. Quindi, nessuna sostituzione di organi statali tedeschi o
sovraimposizione ad essi, ormai inesistenti, e pieno potere, invece, di
quell’organo giudiziario in realtà interno di esercitare giurisdizione penale
anche sugli individui-organi
dell’estinto Reich nelle attività compiute pure in veste
ufficiale. Si trattò infatti, in quella fase storica, di null’altro che della
giurisdizione interna propria su quegli individui. Una situazione analoga, come
giudice interno, fu quella del Tribunale militare di Tokio per il Giappone
occupato nel 1945, per il quale non fu necessario neppure un accordo
internazionale, l’occupazione essendo solo quella degli Stati Uniti.
Senza dubbio
restano riscontrabili alcune anomalie sostanziali. Furono introdotte figure
criminose prima inesistenti, come i crimini contro la pace o anche quelli
contro l’umanità; lo stigma di “giustizia dei vincitori” resta visibile, in
quanto analoga “giustizia” non venne esercitata, negli ordinamenti degli Stati
vincitori, verso i loro cittadini autori di crimini eventualmente rientranti
nelle categorie di Norimberga. Qui fu decisiva la previsione della categoria
dei crimini contro la pace. Una previsione che senza dubbio dette un fondamento anche politico-morale alla
scelta di perseguire gli esponenti dell’Asse (e solo essi). Si perseguirono
innanzi tutto le politiche, macchinazioni, operazioni che sfociarono nelle
aggressioni scatenate dal Terzo Reich.
Lo si è rilevato: ma le istanze attuali ignorano le aggressioni e le politiche
belliciste e gli attori di esse.
3. Il
problema se fosse possibile istituire un tribunale del tipo di quello di
Norimberga nel quadro del sistema delle Nazioni Unite se lo pose uno dei
massimi giuristi del ‘900, Hans Kelsen, e la risposta fu negativa. Kelsen, in
forza della concezione generale da lui seguita, non si interrogò sulla natura internazionale o meno dell’organo
giurisdizionale penale istituito in Germania nel 1945. Si chiese soltanto se un
simile organo potesse venir stabilito in forza di una decisione in sede Nazioni
Unite (il pensiero va all’istituzione del Tribunale ad hoc per la ex-Jugoslavia). E lo negò. Così argomentando: la Carta NU non contempla
responsabilità (internazionale) di individui, in specie individui-organi, per
violazioni di norme e principii internazionali (come il divieto di uso della
forza), ma solo degli Stati. Situazione superabile solo, secondo Kelsen, con
una modifica della Carta a termini statutari (aggiungo: con probabili problemi
costituzionali per gli Stati membri).
Nel 1993, nel
corso dei conflitti intrajugoslavi innescati anche per (senz’altro decisiva)
responsabilità dei paesi occidentali, venne istituito - lo si è anticipato - un
Tribunale penale internazionale ad hoc, quello denominato per la
ex-Jugoslavia (già allora detta ex, pur se prematuramente): con decisione del
C.d.s. delle NU (la ris. 827 del 25 maggio 1993, preceduta da una preparatoria
ris. 808 del 22 febbraio 1993). Un organo giudiziario destinato ad esercitare
giurisdizione penale su individui, in specie individui-organi,essenzialmente di
uno Stato e comunque di entità di tipo statale (la Jugoslavia socialista
federale, poi quella residua, e le Repubbliche secessioniste), dotati di propri
poteri sovrani o assimilabili, ma senza loro partecipazione, per imposizione
esterna da parte di un “organo internazionale” come il C.d.s.: da ritenersi
fondamentalmente e insanabilmente incompetente all’uopo.
Siamo in
presenza di una giurisdizione penale sganciata da una situazione di sovranità: le
NU, di cui il C.d.s. e il Tribunale per la ex-Jugoslavia sono organi, non sono
ente sovrano (non sono una federazione). E non hanno potere su individui, i
destinatari o soggetti passivi della giurisdizione penale. Anche se negli
ultimi tempi il C.d.s. si va prodigando in misure e sanzioni relative ad
individui. Sia chiaro: non può legittimamente farlo neanche imponendo agli
Stati i relativi obblighi (che è poi l’unica pratica possibilità, le NU non
essendo dotate di strumenti di esecuzione loro propri). Vi è comunque la
sovraimposizione dell’organo (Tribunale ad hoc) sulla sovranità di uno
Stato e/o di entità di tipo statale in essere nello spazio della (ex)
Jugoslavia socialista: con la sottrazione di “incriminati” alla giurisdizione
penale di queste e con la sottoposizione di loro individui-organi a quel
Tribunale. Dunque, anche con la cancellazione dell’eventuale immunità
internazionale. Perché quel Tribunale non si innesta, e non lo ha potuto, come
invece era accaduto con il Tribunale di Norimberga per la Germania , in un sistema
giuridico interno, e cioè quello o quelli delle entità ex-jugoslave (senz’altro
di quella, la principale, che non aveva accettato in alcun modo il Tribunale ad
hoc: la Jugoslavia
federale residua –Serbia e Montenegro). L’abnormità sta dunque nel fatto che si
è operato simulando, per così dire, una situazione di occupazione territoriale,
che invece non vi è stata. Il Tribunale ad hoc ha quindi agito, ed
agisce, non solo come copertura politica e di immagine delle operazioni politiche
e militari che hanno portato alla distruzione della Jugoslavia socialista, ma
addirittura ha collaborato a tale distruzione con la mirata disintegrazione di
compagini statali attraverso le incriminazioni individuali anzitutto dei
vertici.
La risoluzione
istitutiva è illegittima perché stabilisce un organo giudiziario (su individui,
per di più), quando il C.d.s. non è dotato di un tale potere giudiziario. Se in
quest’ottica si ponesse l’accento sul carattere di organo sussidiario da
ascriversi al Tribunale ad hoc, secondo l’art. 29 della Carta, un
siffatto potere giudiziario dovrebbe rinvenirsi nel C.d.s. istitutore, e
appunto tale potere su individui nel C.d.s. non esiste. Sotto altro punto di
vista, istituire un organo giurisdizionale presuppone un potere normativo
generale, diciamo di tipo legislativo, che il C.d.s. non possiede, essendo esso
fornito solo, per così dire, di un potere di ordinanza rispetto a situazioni di
emergenza nei rapporti internazionali fra Stati. Quel potere generale non
rientra certo nell’ambito del potere di adottare misure senza uso della forza
per situazioni concrete, espresso dall’art. 41 Carta (nel quale, precisiamo per
chiarire, viene per lo più ricercata la base giuridica dell’operazione compiuta
dal C.d.s. con l’istituzione del Tribunale ad hoc). Oltretutto, questa
norma indica, certo in modo non tassativo ma senz’altro significativo, tipi di
misure senza uso della forza: si tratta di misure consistenti in rotture o
interruzioni di rapporti fra Stati, e comunque sempre di misure da prendersi
dagli Stati, e certo l’istituzione di un tribunale penale operata dal C.d.s.
non presenta siffatte caratteristiche. E non pare compatibile con l’intrinseco
carattere contingente delle misure ex art. 41 Carta.
4. Richiamato
che la vantata ascendenza di Norimberga rispetto al Tribunale ad hoc non
è sussistente se non per tratti minori ed estrinseci, va comunque denunciato
l’elemento più grave di deviazione dalla pur invocata tradizione:
l’eliminazione, dal novero delle categorie di crimini previste dallo Statuto
del Tribunale ad hoc, di quella dei crimini contro la pace, includente
l’aggressione.
La mancata
previsione di questa categoria avrebbe potuto favorire senza dubbio, in linea
astratta, l’equiparazione formale delle parti in conflitto – e addirittura dei
sostenitori esterni – con riguardo alle categorie di crimini previste, quelli
di guerra e contro l’umanità. Tale esclusione (dei crimini contro la pace) è
avvenuta per evitare il “rischio” di coinvolgere in prima linea gli esponenti
delle potenze che hanno operato per favorire la disgregazione della Jugoslavia.
Si è così raggiunta l’eliminazione, dal campo di competenza assegnato (si
ripete, comunque in un contesto arbitrario) al Tribunale ad hoc, dei
comportamenti degli Stati, e dei loro individui-organi, che hanno (quantomeno)
contribuito allo sfascio della Jugoslavia socialista. Almeno astrattamente, i
comportamenti di contrasto all’autodifesa dello Stato esistente, culminati nei
riconoscimenti prematuri delle Repubbliche secessioniste, vi sarebbero
rientrati, in quanto azioni concertate e mirate contro la sovranità della
Federazione jugoslava socialista.
Si è in tal
modo evitata la possibilità, sia pur –visto il contesto- solo teorica, che
venisse sotto i riflettori tutto il retroscena della vicenda jugoslava: ne è
dunque derivata la concentrazione esclusiva sulle azioni di combattimento, sui
conflitti armati e le loro durezze, gli eventuali crimini connessi, il tutto
sradicato in tale logica dal terreno internazionale (se non fittiziamente
raffigurato, come stiamo per vedere), dalle operazioni e macchinazioni e
rappresentazioni ideologiche che hanno condizionato e, per così dire e in ampia
misura, fornito una conformazione rappresentativa a quei conflitti armati.
Mi spiego e
svolgo. È stato fondamentalmente distorto, nell’applicazione alla situazione
jugoslava, il principio di autodeterminazione dei popoli in quanto principio
normativo internazionale vigente: questo infatti non tutela qualunque parte di
popolazione di uno Stato che intenda staccarsi, ma solo quelle parti,
territorialmente compatte, che soffrono di una discriminazione fondamentale, di
tipo coloniale o assimilabile, e la tutela si concreta essenzialmente
nell’attenuazione, per i terzi Stati, dell’obbligo di non ingerenza nei fatti
interni e quindi nel poter legittimamente fornire appoggio al movimento di
autonomia o indipendenza. Fuori di quel presupposto si ha un’insurrezione, di
fronte alla quale i terzi Stati non possono lecitamente intervenire. La
situazione delle Repubbliche jugoslave secessioniste era con evidenza questa.
La macchinazione degli Stati occidentali, in un momento storico in cui non
hanno incontrato sul piano mondiale contesti ad ampio raggio di opposizione, si
è incentrata sull’imposizione (ideologica) di una rappresentazione in termini
di autodeterminazione a favore delle spinte e lotte secessionistiche: così da
raffigurare come aggressione il comportamento della Federazione che
legittimamente le contrastava.
D’altro
canto, va considerato che la configurazione giuridica che si è presentata vale
a fronte di Stati costituiti (come era la Federazione socialista
jugoslava). Ma in un processo fattuale di graduale dissolvimento di questa e di
formazione di nuove entità, non ancora Stati costituiti, centrate sulle
Repubbliche federate secessioniste, non può negarsi, a favore di parti di
popolazione territorialmente compatte sino ad allora integrate in una data
realtà amministrativa (una Repubblica federata secessionista), un principio di
autodeterminazione in senso autonomo rispetto a quello sinora illustrato: e
cioè come autocostituzione di una subregione in entità indipendente o come sua
permanenza nella vecchia compagine dello Stato costituito. L’imposizione da
parte degli Stati occidentali di un principio (che nel diritto vigente è
limitato a determinati ambiti geografici sulla scena mondiale e non è
generalmente applicabile) uti possidetis iuris (come imposizione della
permanenza delle frontiere, in sé meramente amministrative nel quadro della
precedente Federazione, delle Repubbliche federate secessioniste) è stata
contraria all’autodeterminazione-autocostituzione di subregioni che non
volevano essere coinvolte nella secessione della Repubblica federata in cui
sino a quel momento erano state amministrativamente conglobate. Si pensa in
particolare alla Kraijna e alla Slavonia orientale di etnia serba nel quadro
della Croazia federata e alla Repubblica serba di Bosnia nel quadro della
Bosnia-Erzegovina federata. L’intervento di Stati terzi per (aiutare a) reprimere
quei movimenti di autodeterminazione (nel senso particolare da ultimo indicato)
appare illecito e, in quanto intervento armato, criminale. Alle persone più
attente non sarà sfuggita la flagrante contraddizione fra l’imperativa pretesa
del campo imperialista di voler difendere il diritto dei popoli a vivere in
regioni omogeneamente occupate dalla stessa etnia, liberandole dal “giogo
jugoslavo” da un lato, mentre dall’altro, nei casi suindicati, si volle imporre
ai serbi, con la violenza delle armi, la rinuncia a quello stesso diritto.
Conseguenza
di questa duplice mistificazione ideologica: i conflitti secessionisti si sono
fatti apparire come di autodeterminazione e quindi “internazionalizzati” e così
resi (artificialmente e illegittimamente) suscettibili di sostegno esterno: il
legittimo contrasto dello Stato federale è divenuto guerra di aggressione
contro l’autodeterminazione. La lotta delle subregioni antisecessioniste si è
fatta passare per ribellione contro Stati costituiti e quindi legittimamente reprimibile,
addirittura pure con sostegno esterno (anche contro il vero o supposto, per
altro in sé legittimo, sostegno dello Stato federale in funzione
antisecessionista). Questa problematica, e le mistificazioni che ne sono state
espressione, sono rimaste sullo sfondo, proprio perché escluse dall’ambito di
competenza assegnato al Tribunale ad hoc. Ma certamente hanno esercitato
in modo sotterraneo un influsso nefasto sulle vicende processuali e le scelte
dei “giudici”: la criminalizzazione, e in esito la condanna, sono state pronte
e senza esitazioni a danno del campo delle forze antisecessioniste, nelle due
ipotesi che si sono delineate; ben più rarefatte e meno numerose nel caso
opposto. Si tratta del discrimine di fatto che si è tracciato implicitamente
tra i Serbi, da un lato, i Croati e i Musulmani, da un altro, e ancor più
coloro che, dall’esterno, hanno affiancato questi ultimi. Così da rendere
inevitabilmente “orientato” il Tribunale ad hoc. Inevitabile (!) l’
“archiviazione” delle denunce contro la
NATO per i bombardamenti sulla Jugoslavia (2 giugno 2000). La
condanna di un esponente croato, il gen. Gotovina, appare nel contesto
complessivo operazione di copertura.
Non mi
trattengo su questi aspetti, le relative statistiche e le loro implicazioni, e
cioè sulle modalità dello svolgimento dei processi, prima ancora sulle
incriminazioni (al massimo livello, solo il presidente Milosevic, serbo e
jugoslavo; intoccati il musulmano-bosniaco Izebetgovic e il croato Tudjman),
infine sulle sentenze.
Il presidente
Milosevic ha avuto l’atto di incriminazione poco dopo l’inizio dei
bombardamenti, cioè l’aggressione, della NATO contro la Jugoslavia (residua)
nel marzo 1999. Nella logica assunta dal Tribunale ad hoc, che appunto
vede escluso dal suo campo di azione il crimine più grave, e comunque
scatenante, e cioè l’aggressione o le macchinazioni che hanno favorito le
guerre civili, quell’incriminazione (sia pure anche per asseriti fatti
pregressi) colpisce come criminale l’individuo-organo di vertice e vale dunque
quale copertura dell’aggressione NATO: reazione, questa, come viene fatta
apparire ed in tale logica, alle attività criminose attribuite – in base ad
incredibili teoremi giuridici - allo Stato jugoslavo e al suo presidente da
ultimo per il Kosovo (in realtà, legittimo contrasto dello Stato jugoslavo
costituito nei confronti di un’insurrezione locale, come in precedenza contro
le secessioni).
Va da sé che
si è voluto anche inferire un colpo alla compagine statale jugoslava. Mi
astengo dal richiamare la vicenda scandalosa del vero e proprio rapimento e
sequestro di Milosevic a Belgrado nel 2001 per tradurlo nel carcere di
Scheveningen e quelle dell’annoso processo, in cui Milosevic ha opposto un
comportamento eroico e ha lasciato la vita (per morte naturale, come affermano
i suoi aguzzini, per assenza di cure adeguate, come affermano alcuni, o per
avvelenamento, come pensano altri).
Citiamo
a questo punto per incidens le incriminazioni, da parte questa volta
della Corte penale internazionale dell’Aja, a carico del presidente sudanese
al-Bashir e del leader libico Gheddafi, assassinato poi dalla NATO e complici:
quest’ultimo, come Milosevic, appena scatenata l’aggressione aerea. Pur se
questa Corte presenta una base di legittimità formale di maggior consistenza, la Convenzione di Roma
del 1998, benché di fronte a probabili problemi di costituzionalità per gli
Stati parti o almeno per diversi fra essi, risulta se non altro una situazione
aberrante, che consente un’assimilazione al Tribunale ad hoc: l’art. 13 b,
per il quale il C.d.s. può deferire alla Corte anche individui-organi di Stati
non parti dello Statuto della Corte medesima (come nei due casi da ultimo
citati). Si configura, con atto estraneo alla Carta NU, un potere del C.d.s.
non previsto: pur se evidentemente tale esito può apparire in ultima analisi
un’escrescenza del potere arrogatosi dal C.d.s. stesso con l’istituzione di
tribunali penali internazionali. Se l’attribuzione di potere giurisdizionale
penale al di fuori di una struttura sovrana è fenomeno singolare, per non dire
abnorme, cui può – entro molte cautele - sopperire una base convenzionale
(quasi ad istituzione di un organo comune degli Stati parti), la pretesa
soggezione ad una tale Corte, su indicazione del C.d.s., di Stati non parti dello
Statuto della Corte medesima e di loro individui-organi, con lo scalzamento
delle relative immunità internazionali, ripropone lo schema di una simulata
occupazione, appunto realmente non sussistente, con l’attribuzione di potere
giurisdizionale penale a organo – almeno nei confronti di Stati non parti - non
sovrano (neppure nel senso di una sorta di delega all’organo “internazionale”
stabilita dalla convenzione istitutiva).
Va fatto
presente che lo Statuto della Corte, almeno nella fase attuale, esclude anch’esso
i crimini contro la pace, a partire dall’aggressione, dal proprio campo di
applicazione. Il malo esempio del Tribunale ad hoc riproduce così a
livello più generale i suoi effetti maligni ai danni dell’indipendenza e
sovranità degli Stati.
Si noti, a
completamento delle anomalie, che per giurisprudenza internazionale attuale
(della Corte internazionale dell’Aja) gli organi statali godono pur sempre
delle immunità internazionali, almeno finché in funzione. Principio
patentemente violato dalle incriminazioni lanciate, a conflitto iniziato, dal
Tribunale ad hoc e dalla Corte penale
internazionale.
Ad un sistema
del genere, a una siffatta “giustizia penale internazionale”, troviamo affidato
il caso Srebrenica. Quello “ufficiale”. Dell’altro, documentato in questo
volume, non vi è traccia.
Di fronte
all’inerzia delle istanze di “giustizia penale internazionale”, che abbiamo
preso in considerazione, riguardo a denunce pur lanciate contro esponenti
occidentali per aggressioni e crimini di guerra in Jugoslavia, Iraq,
Afghanistan, Palestina, oggi Libia, non si riesce ad evitare una valutazione di
assoluta parzialità, di mirata selettività, di strumentalità delle operazioni
giudiziarie poste in essere da quelle istanze. Di fronte alle quali ci si può
dunque domandare: al suono di quale piffero queste istanze danzano?
Norimberga fu
certo unilaterale, ma su base morale, politica e giuridica inoppugnabile. Si
procedé a partire da incontrovertibili crimini di aggressione e contro la pace.
Tutto ciò non può dirsi per le incriminazioni e i processi del Tribunale ad
hoc per la ex-Jugoslavia e della Corte penale internazionale. Ne sono prova
irrefutabile le “archiviazioni” di denunce contro Blair, Sharon, Clinton e loro
sodali e, per il Tribunale ad hoc,
contro la NATO.
A mani ben
poco affidabili risulta assegnata la “questione Srebrenica”. La documentazione
presentata in questo crudo e coraggioso volume dovrebbe portare a rivedere
molte opinioni e meglio mistificazioni circolanti e fatte circolare
nell’opinione pubblica mondiale, per lo meno in quella occidentale. Ma non
sappiamo se questo auspicio, questa speranza di vera giustizia potrà trovare
accoglienza contro il pensiero unico dominante.
Aldo Bernardini
Roma, 25 gennaio 2012
Dalla introduzione al libro: “ Srebrenica. Come sono andate veramente le cose”
– Zambon editore
Alla vigilia della data fissata per la
stampa del libro siamo entrati in possesso, attraverso una serie di fortuite
circostanze, di un documento segreto redatto nel luglio 1995 dal comando
militare bosniaco-musulmano di Srebrenica e indirizzato al comando supremo di
Sarajevo che contiene esplosive rivelazioni su quanto è davvero successo
nell’enclave di Srebrenica. Da notare che il documento venne redatto a circa 6
settimane di distanza dal preteso massacro di 8000 civili inermi.
Dal
documento si evince che:
1)
la zona di Srebrenica non è mai stata smilitarizzata (tesi sin qui sostenuta
dalla propaganda occidentale) ma al contrario è stata punto di partenza di
azioni punitive, anzi di veri e propri massacri consumati ai danni della
popolazione serba dei villaggi circostanti, e questo sotto la protezione delle
truppe dell’ONU;
2)
nei dintorni di Srebrenica ebbero luogo scontri accaniti fra le forze armate
delle contrapposte fazioni;
3)
le truppe dell’ONU e della NATO agirono sempre ed esclusivamente come parte
belligerante in appoggio della fazione bosniaco-musulmana;
4)
Srebrenica non fu conquistata cambattendo dai serbi, ma fu evacuata, dopo
alcune trascurabili scaramucce, prima che le truppe del generale Mladic
entrassero in città, praticamente senza combattere;
5)
fra le truppe musulmane che si stavano ritirando verso Tuzla, e le formazioni
serbe che cercavano di impedire il ripiegamento, si svilupparono accaniti
combattimenti che provocarono la morte di migliaia di combattenti di entrambe
le parti.
Il documento conferma dunque per filo e per
segno le tesi sostenute dagli autori del presente libro.
Leggere per
credere.
FORZE
ARMATE DELLA REPUBBLICA DI BOSNIA-HERZEGOVINA
COMANDO
DEL 2° CORPO D’ARMATA
SEZIONE
SICUREZZA MILITARE E DIFESA DELLA REPUBBLICA
ASSOLUTAMENTE
RISERVATO
MINISTERO
DELL’INTERNO SERVIZIO DI
SICUREZZA NAZIONALE
TUZLA
SDB/ Servizio di Sicurezza nazionale / SETTORE
Numero:___
/95 Tuzla, 28 agosto
1995
La caduta di Srebrenica
AL COMANDO MILITARE DELL’ARMATA DI BOSNIA
HERZEGOVINA
SARAJEVO REPARTO SICUREZZA
Dall’esame della nostra attività operativa in
relazione all’OI Guber siamo giunti alle seguenti conclusioni in merito
alla caduta della zona di sicurezza di Srebrenica e dalla sua conquista da
parte dei Cetnici (*)
Nel luglio 1995 il grado di sicurezza a Srebrenica è gravemente peggiorato. I
>Cetnici hanno preso l’abitudine, ad ogni cambio di guardia delle unità
UNPROFOR, di avanzare in profondità nella zona protetta. All’arrivo di ogni
nuova unità UNPROFOR essa dimostrava di accettare la nuova situazione di fatto,
senza il minimo interesse per la situazione precedente. Anche con l’occasione
dell’ultimo avvicendamento si poté osservare come, già durante i preparativi di
partenza del contingente olandese, i Cetnici si concentravano ai confini della
zona di sicurezza.
I Cetnici pretesero che l’UNPROFOR ritirasse i posti d’osservazione dalla zona
di sicurezza. Il comandante del battaglione olandese informò Ramiz Bećirović,
comandante supplente del 28° corpo d’armata, di aver respinto tale pretesa e di
aver chiesto l’assistenza della NATO. Quando i Cetnici aggredirono i posti di
controllo dell’UNPROFOR a Jadar, le unità dell’ UNPROFOR si ritirarono di
400-500 metri ed il loro comandante informò Ramiz Bećirović di aver ricevuto
dai sui superiori l’ordine di ritirarsi da ogni posto d’osservazione.
Successivamente comunicò gli sviluppi della situazione al proprio governo che
gli ordinò invece di non ritirarsi.
…..
Segue una dettagliata descrizione delle
scaramucce, e dei veri e propri scontri…fra i due schieramenti contrapposti.
…..
Nel corso di questi scontri i Cetnici fecero
prigionieri, in diverse occasioni, alcuni militari olandesi e li trasportarono
nelle loro retrovie assieme al loro equipaggiamento. Due dei loro APC furono
bersagliati dalle granate dei Cetnici nel settore di Bojna, ed un altro nei
pressi di Dodilovac senza che l’UNPROFOR reagisse in alcun modo. I soldati del
battaglione olandese restarono assolutamente passivi. Alcune delle loro
pattuglie si erano arrese ai Cetnici, ma la maggioranza continuò ad occupare il
presidio di Potočari..
Approssimativamente alle ore 15 dell’11 luglio,
l’intera popolazione della città, come anche quella dei villaggi circostanti,
s’incamminò in direzione di Potočari., dov’era ubicato il presidio principale
dell’UNPROFOR. Verso le ore 20, ventimila profughi si erano raccolti
all’interno e all’esterno del presidio UNPROFOR di Potočari. occupando strade,
fossati e 2 fabbriche quasi completamente distrutte. I Cetnici erano appostati
a soli 300 metri di distanza Fino a questo momento nessun soldato olandese si
era occupato di loro. Alle ore 21,15 Nesib Mandžić fu invitato attraverso il
megafono a presentarsi al comando del battaglione olandese, dove gli fu
comunicato che 30 soldati e ufficiali olandesi erano stati fatti prigionieri e
che il generale cetnico Mladić aveva minacciato di passarli per le armi qualora
anche un solo aereo della NATO si fosse profilato all’orizzonte e che in tal
caso avrebbe anche impartito l’ordine di sparare sui profughi e di distruggere
il presidio UNPROFOR di Potočari. Sebbene Nesib Mandžić non avesse titolo a
rappresentare i civili, si recò alle 22,15 a Bratunac per trattare con i
Cetnici in compagnia del comandante olandese e dell’ufficiale di collegamento.
I Cetnici erano rappresentati dal generale Mladić, dal presidente
dell’amministrazione serba di Bratunac Ljubisav Simić, dal presidente
dell’organizzazione terroristica SDS (Partito Democratico Serbo), da Miroslav
Deronjić e da molti altri. Abbiamo proposto ai Cetnici di dare via libera
all’evacuazione dei civili verso i territori liberati, sotto la protezione
dell’UNPROFOR.
…..
Segue una descrizione delle trattative.
….
Il comando di divisione si trovava nella
capanna di caccia nella città vecchia. L’ultimo giorno, l’11 luglio, era impossibile
avvicinarsi all’edificio perché esso era sottoposto al fuoco ininterrotto dei
Cetnici. Quando infine un carro armato comparve nei paraggi, gli occupanti
dell’edificio lo abbandonarono senza che nessuno avesse dato l’ordine di
distruggerlo o di incendiarlo. È dunque probabile che l’intera documentazione
del comando di divisione sia caduta in mano nemica.
Verso le ore 14 il comandante della 28.a
divisione, una volta abbandonato il campo dell’UNPROFOR, fu informato del fatto
che l’aviazione della NATO aveva iniziato a colpire le postazioni serbe nei
dintorni di Srebrenica.
In quel momento nessun membro
dell’amministrazione, nessun radioamatore, nessun soldato, nessun impiegato
postale si trovava, com’era invece abitudine, nell’ufficio postale; tutti si
erano avviati verso il villaggio Kutlić.
Piccoli gruppi di soldati si appostarono sulle posizioni difensive di
Srebrenica. Il comandante di divisione Šemso Salihović ed il suo ufficiale di
collegamento Midhat Salihović, che tenevano la posizione nei pressi di Bojna
assieme ad un gruppo di circa 20 soldati, dovettero però ritirarsi. Si
ritirarono sulla collina che offriva loro un ampio campo visivo, sia
sull’ufficio postale, che sulle posizioni nemiche, i cui eventuali attacchi di
fanteria potevano quindi venir facilmente rintuzzati.
Quando infine
l’attacco a Srebrenica ebbe inizio, la popolazione civile era già stata
trasferita nel campo UNPROFOR di Vezionica in Srebrenica, per poi venir
successivamente trasportata via camion o con altri mezzi nel campo di Potočari.
La permanenza in Potočari.
Le trattative con i Cetnici
Le vittime civili
Nomi dei comandanti etc.: 280.- Maggiore
Ibrahim Mandžić (figlio di Idriz); 281.- Maggiore Zulfo Turnusocić (figlio di
Salko); 282.- Maggiore Ibro Ducić (figlio di Husein); 283.-Capitano Hazim
Džanović (figlio di Behaija); 284.- Maggiore Veiz Šabić (figlio di Velija);
Battaglione Autonomo Alpini di Srebrenica – Ejub Golić (figlio di Atif)
Il sindaco della città si trasferì temporaneamente nel borgo di Borković, e con
lui il servizi o postale e quello di comunicazioni via radio (amatoriale).
Il comandante della 281.a brigata, Zulfo Tursumović [sic] informò il sindaco e
il (facente veci del)comandante che il fronte era stato difeso con successo,
mentre la 283.a brigata era stata costretta a ritirarsi da Bučje, che questo
settore del fronte era ora tenuto dalla 281.a brigata, ed infine che il comandante
dell’IDV (ricognizione e sabotaggio) Aka Pupo Nalić era caduto nei pressi del
villaggio di Bučje durante un attacco dei Cernici, attacco che era però stato
respinto.
Successivamente, dopo che la popolazione di Sućeska era stata evacuata, i
comandanti insieme ad un gran numero di soldato della 281.a brigata, iniziarono
a ritirarsi verso il villaggio di Šušnjari. Il comandante della 282.a brigata
Ibro Dudić era già sul luogo, insieme ai comandanti della 280.a e 284.a
brigata, ed al responsabile del SJB ( servizi di sicurezza). La riunione ebbe
luogo nell’abitazione di Sidik Mustafić. A tale riunione parteciparono anche il
sindaco, il responsabile amministrativo del comune, il delegato del comandante
della 28.a divisione dell’esercito, il comandante della 283.a brigata, ed
infine un membro del battaglione alpino dal nome Kezo. In questa occasione,
nella notte fra l’11 e il 12 luglio, fu presa la decisione di tentare di
aprirsi combattendo un varco verso Tuzla.
…
Segue a questo punto una dettagliata
descrizione degli scontro fra le colonne di soldati musulmani in ritirata e le
forze armate serbe che tentavano di intercettarli e li impegnavano di continuo
in scaramucce e scontri sanguinosi, con gravi perdite per entrambe le parti.
DA CIVG.IT INFORMA 36