martedì 21 aprile 2020

SPETTRI, FOLLETTI E PANDEMIE



Non uno ma tre spettri si aggirano per il mondo delle burocrazie sanitarie di stato e private, dei farmaci, vaccini, cure alternative, integratori, antibiotici, ciarlatani, medicina vera e fasulla, insomma il mondo che fu di Ippocrate una volta e di Paracelso oggi, e che sta vivendo lo scompiglio da coronavirus. Gli spettri sono di Antoine Béchamp, francese (1816-1908), Florence Nightingale, inglese (1820-1910) e Carlo Arnaldi, italiano (1860-1924).
La seconda è famosissima, gli altri due no. Chi furono? Inutile chiederlo alle facoltà universitarie: da tempo non insegnano più Storia della Medicina. Perché se lo facessero, il dottor Antoine e l’igienista Carlo (e altri che sarebbe troppo lungo enumerare) la farebbero da guastafeste, minacciando categorie intere di mestieranti che vivono di malattia (altrui) con la sparizione dal palcoscenico della storia. Prima di studiarne l’operato, consideriamo
La Salute
Avete mai chiesto a un medico di definire la salute? Fatelo, e contate quante volte la risposta è “assenza di malattia”. Purtroppo i poveri medici mancano di nozioni di logica, la grande assente dalla sQuola gramsciana che tiene banco.
Chi ce le ha, quelle nozioni, sa che una definizione negativa è quanto di peggio possa escogitare il pensiero umano. Non parliamo poi di chi se ne esce con “sensazione di benessere”,  “buono stato del corpo” e inanità del genere.
Non li si può biasimare. Dice S.Tommaso in De Ente et Essentia che si può definire solo quello che ha essenza, cioè una sostanza. Ebbene, la salute non è tale. Tra le categorie aristoteliche può trovare il posto tra qualità e relazione, il che la rende descrivibile, ma non definibile. Descriviamola quindi, basandoci sull’osservazione e lo studio.
La salute non sarebbe che la concomitanza di due flussi: il primo, di elementi nutritivi che partendo dalla microflora del suolo arriva alle cellule del corpo dopo un passaggio attraverso radici, fusto, foglie e frutti di piante nonché del canale alimentare; il secondo, di elementi tossici, che partendo dalle cellule viene espulso all’esterno dopo un passaggio da uno dei quattro grandi emuntori: intestino, reni, polmoni o pelle.
Lunghetta, la descrizione, ma completa, penso, di ciò che la salute è.[1]
Dal che si può dedurre  che la malattia non sarebbe se non un disordine qualsiasi in uno, o in entrambi, i flussi. Si noti che l’aggiunta di elementi indebiti al primo flusso (eccessi di vario tipo), o la mancanza di elementi nutritivi a causa di pratiche agricole dissennate, e nel secondo flusso la mancata espulsione di tossine in seguito a un sistema danneggiato, sole o insieme, possono produrre un’infinità di sintomi, che gli eredi di Paracelso e quelli di formazione cartesiana chiamano “malattie”, come se fossero res, cose. Gli Scolastici li avrebbero ammoniti che le malattie non esistono: esistono i malati, e diagnosticare le cause delle loro sofferenze è compito immane, come Ippocrate ben sapeva.
Alla falsa filosofia di Cartesio, che impone all’essere umano la natura di macchina che a certi stimoli risponde sempre lo stesso, si aggiunge quella altrettanto falsa dell’evoluzione, che propone una similarità inesistente tra esseri umani e animali da laboratorio.
Dal che ne risulta un disordine filosofico, scientifico, sperimentale e quant’altro che non accenna a ridirigersi verso l’ordine naturale. Detto altrimenti, la sanità è nel caos, e non da ieri.
I fattori di salute, specialmente la microflora del suolo, non sono mai stati analizzati nella loro interezza. Per l’orgogliosa scienza umana sono rimasti libro chiuso, che di tanto in tanto mostra al più un paio di righe di qualche pagina. Per cui non mi addentrerò in questo ginepraio. Mi limiterò alla polemica decimononica tra Béchamp e Pasteur, che sta trovando il suo dénouement, o così la vedo io, nella saga che ha per protagonista il fenomeno Covid 19.
Due teorie
A chi confonde “teoria” con “ipotesi” ricorderò che sono due tappe diverse del metodo scientifico. Questo consiste di cinque tappe: prima, l’osservazione; seconda, l’enunciato del problema; terza, l’ipotesi; quarta, l’esperimento; quinta e ultima, la teoria.
Teoria è quindi la tappa finale del metodo: una visione d’insieme (dal greco theorein) nella quale tutti e solo gli elementi osservati e studiati trovano luogo. Essendo in una scienza induttiva, se uno solo di essi venisse falsificato dall’esperimento, bisognerebbe cominciare da capo. Facile dictu; lo vedremo.
Béchamp e Pasteur (1822-1895) furono contemporanei. Il primo era medico e scienziato ricercatore, la cui biografia è visionabile in Rete; il secondo, invece, era chimico, esperto in fermentazioni e ugualmente visionabile. Il che vuol dire che vi erano campi di ricerca comuni ai due. Quello che ci interessa sono le loro teorie divergenti circa la natura delle malattie infettive, e la polemica tra i due, irrisolta fino ad oggi.
Nel suo lavoro seminale Il Sangue e il suo Terzo Elemento Béchamp aveva scoperto alla scienza l’esistenza sanguigna di una granulazione molto al di sotto della risoluzione ottica dei microscopi dell’epoca, che lui chiamò microzyma, e che ipotizzò come la vera base dei fenomeni vitali.
Il microzyma,amorfo nei tessuti sani, veniva popolato da corpuscoli semoventi in quelli malati. Anche Pasteur li vide, ma i due scienziati li interpretarono in maniera del tutto diversa.
I termini tecnici che esprimono la contraddizione sono Pleomorfismo e Monomorfismo.
Il primo è di Béchamp, che lo osservò in laboratorio. Dopo puntigliose osservazioni, arrivò ad una conclusione inaspettata: le forme semoventi non solo venivano prodotte in e dal microzyma, ma anche cambiavano forma: da virus a batterio e viceversa, da un tipo di batterio ad un altro ecc. E non solo: cambiavano anche funzione secondo la bisogna.
Quale funzione? Quella di microspazzini, che convogliano gli elementi tossici verso gli orifizi naturali del corpo, per ridiventare microzyma amorfo a missione compiuta.
Tutto li? Tutto li, ma la differenza è irriconciliabile. Béchamp, sulla scia di Ippocrate, sosteneva che la medicina si dovesse occupare dell’infermo; Pasteur, su quella di Paracelso (1493-1541) e seguaci, sosteneva che essa dovesse attaccare la malattia col farmaco, il vaccino, il cerotto, la disinfezione e via dicendo.
Per Pasteur i germi sono esseri viventi di diritto proprio, ciascuno con il suo  nome scientifico e un posto in tassonomia. Ogni forma ha la sua funzione e causa la sua malattia e non un’altra.  Non si insospettì di non averli mai visti liberi nel suolo, nell’atmosfera o nelle acque. La sua interpretazione si diffuse rapidamente, nascendone tutta una batteriologia, virologia, microbiologia ecc. che ancora oggi tengono banco nelle facoltà scientifiche. Il loro inizio è databile a quando Pasteur lesse una relazione per l’Accademia delle Scienze intitolata La Teoria dei Germi applicata alla Medicina e alla Chirurgia. Era il 30 aprile del 1878.
Ancora nel 1881 diceva:
“Nello studio dei microorganismi vi è una perenne fonte di errore nell’introdurre germi estranei. L’osservatore che vide prima un organismo e poi un altro, fu propenso a concludere che il primo avesse subito un cambio. Eppure potrebbe essere pura illusione. La trasformazione da Bacillus anthracis a Micrococcus non esiste[2].
Rectius, non è deducibile da osservazioni di laboratorio. Ma Florence Nightingale, che aveva sgobbato nelle corsie dell’ospedale di Scutari 30 anni prima, aveva osservato la stessa cosa in pieno campo:
Le malattie non sono individui classificabili come cani e gatti, ma condizioni che nascono l’una dall’altra. Non è un continuo errore guardarle, come facciamo, come entità separate come cani e gatti, invece di guardarle come condizioni simili a pulizia e sporcizia, del tutto controllabili, o meglio come reazioni di natura benigna, invece  di come le consideriamo?
E aggiungeva:
La dottrina delle malattie specifiche è il rifugio di menti deboli, senza cultura, instabili, come quelle che tengono banco nella professione medica. Non eistono malattie specifiche; quello che esiste sono condizioni specifiche di malattia
Ai primi due si aggiunge lo spettro di Carlo Arnaldi, la cui Colonia, fondata nel 1906 e appollaiata sulle colline di Uscio, Riviera di Levante, attrae ancora oggi una fedele clientela che ne tramanda le tradizioni per passaparola.
Come Béchamp e Nightingale, Arnaldi negava l’esistenza di “malattie”. Puro ippocratico, addebitava tutti i malanni ad una sola causa: un alterato metabolismo a ragione di cattive abitudini, specialmente alimentari.  Curava con una dieta adattata a ciascuno e una pozione disintossicante per tutti a base di erbe,  che convogliava le tossine all’intestino, espellendole.
All’entrata della Colonia spicca il suo ammonimento: Aut Disce, aut Discede (impara o vattene). In fatto di dieta, se un cliente provasse ad aggirarla portando con sé cibi proibiti, su spiata del fidatissimo Giacomino lo faceva chiamare, gli restituiva i soldi e lo mandava a casa. Ma la salute tornava, e continua a farlo.[3]
Le ultime parole di Pasteur sul letto di morte furono Le microbe n’est rien; le terrain est tout. Era arrivato alla stessa conclusione di Béchamp, ma il dado era tratto. Il fattore determinante del suo successo sono senza dubbio i proventi da lotta alle malattie molto più lucrativi dei magri guadagni del medico che cura gli infermi.
La cultura cinese aveva trovato come garantire la dignità della professione medica senza tirare in ballo i soldi. Nell’antica Cina si impiegava un medico, la cui funzione era di mantenere in salute e a cui si passava un onorario fisso salute perdurante. Subentrando un disordine, si smetteva di pagarlo, e se si moriva in cura sua era lui a pagare per le esequie. Non c’è male come incentivo perché un professionista faccia il suo dovere.
C’è di più. Ancora oggi, in Cina, chi diagnostica la malattia non è il medico ma l’odoratore professionista di effluvi intestinali (vulgo peti). Costui pratica il mestiere per strada, guadagnando fino a 50mila dollari all’anno. Insomma, tutto un altro paradigma.
Nel frattempo Béchamp e la sua teoria sono stati emarginati e mandati in dimenticatoio. Ma non del tutto. Certi gruppi si inspirano ancora alle sue scoperte, e di tanto in tanto qualche medico praticante vi si imbatte e ne vuole sapere di più. Ma guai a costui se iscritto all’albo dei medici: rischia l’espulsione a proporre, non diciamo di reintegrare l’uomo, ma anche solo di esporne la teoria. Limitiamoci a constatare che lo spettro del dott. Antoine, come quello di Banquo[4], non se ne va. Nel frattempo prestiamo attenzione al paradigma pasteuriano moderno.
Una strana guerra
Assistiamo a una guerra sui generis da più di 100 anni: da un lato milita un esercito agguerritissimo, dotato di disinfettanti, antibiotici, cerotti, antibatterici, bende, vaccini, e tutto un armamentario per sconfiggere un numerosissimo esercito di germi, microbi, batteri, virus e chissà che altro, presunte cause di malattia e di morte.
Sono codesti esseri entia realia, come vorrebbe Pasteur, o entia rationis, cioè folletti, spettri, o gli spazzini pleomorfi di Béchamp? Con il metodo scientifico, confrontiamo le due ipotesi. Dopo le quali proporrò una serie di esperimenti, buona parte dei quali in corpore vili (il mio).
Prima di farlo, consideriamo la questione dal punto di vista filosofico. Il problema è metafisico: ad essere codesti microorganismi esseri viventi di diritto proprio, e classificati come tali da generazioni di ricercatori del calibro di Robert Koch (1843-1910) in ordini, famiglie, generi e specie, tali esseri perfetti morfologicamente e fisiologicamente dovrebbero causare malattie, che per definizione sono disordini.
Il che è metafisicamente impossibile. Ma la metafisica non essendo il forte degli scienziati, e men che meno degli istruiti dalla sQuola corrente, non insisto sul tema. Passo ai ricordi personali.
Tra quelli di infanzia più vividi sono le ferite riportate giocando o cadendo o altro, che mia madre, pasteuriana convinta, si ostinava a disinfettare con l’etanolo. Il bruciore era insopportabile, gli strilli pure, ma non c’era niente da fare. Le ferite andavano disinfettate. Fu un sollievo quando, nel movimento scouts, mi dissero che non bisognava metter nulla nella ferita, ma disinfettarla con tintura di iodio spalmata ai lati di essa. Ma andava fatta, perchè i germi sono in agguato dappertutto e possono causare perfino la peste.
Tra gli stessi ricordi ce ne è uno in cui il corpus vile fu quello di un grosso maiale di razza Large Black, da sacrificare per le vicine feste natalizie. Una ragazza maldestra con un fascio di canne che portava in spalla, lo ferì inavvertitamente sul groppone.
Mia madre decretò che la ferita andasse disinfettata. Si armò di cotone idrofilo e dell’immancabile etanolo, ne inzuppò un batuffolo e lo schiaffò sulla ferita del suino.
Non l’avesse mai fatto. La bestia, trasformata istantaneamente da mansueto porcello in inferocito cinghiale, si mise a caricare gli astanti tra grugniti acutissimi, le urla di chi ne veniva travolto e gli sghignazzi di si godeva la scena (i miei).
Crescendo, poi, non potevo fare a meno di osservare quei cani che leccavano le loro ferite in qualsiasi parte del corpo (ho sempre invidiato loro la flessibilità da contorsionista che purtroppo noi esseri umani abbiamo perduto) e guarirne senza bende, cerotti e altre armi dell’arsenale pasteuriano.
Apprendere dalla natura e copiarla mi venne istintivo: da allora qualunque ferita raggiungibile dalla lingua la curo leccandola fino a far ristagnare il sangue, e lasciandola seccare all’aria aperta, 24 ore dopo non ne rimane praticamente traccia. Ciò accade anche in ambienti sporchissimi, come l’officina meccanica nella quale di tanto in tanto faccio lavoretti.
Due esperienze di maggior calibro vanno raccontate. Molti anni fa ero uscito in gita nella savana per raccogliere campioni da trapiantare nel giardino roccioso che stavo mettendo su nella scuola dove insegnavo. Avevo con me una zappetta pieghevole di tipo militare, e indossavo pantaloni corti.
Nel vibrare un colpo maldestro al campione scelto, la zappetta scivolò sul bulbo legnoso, e si andò a conficcare nello stinco destro, causando una ferita da taglio di quattro-cinque centimetri con il sangue che  usciva a fiotti. Non avevo con me pronto soccorso, bende, cotone idrofilo, cerotti, niente.
Prendendola filosoficamente, mi sedetti su di un masso, avvicinai le labbra della ferita con il pollice e indice delle due mani, e contai cinque minuti sulle lancette dell’orologio. Secondo i canoni pasteuriani mi sarei dovuto beccare chissà che infezione, con tutta la polvere e sporcizia di un tale ambiente. Ma dopo 300 secondi la ferita non sanguinava più e le labbra tenevano. Non c’era dolore, infezione o altro. Si formò una cicatrice sottilissima, che con l’andar del tempo sparì senza lasciar traccia.
Un secondo incidente, anni dopo, fu una caduta in moto a velocità moderata (±30 km/h) in strada non asfaltata e con pietrisco. Mi alzai con un pantalone fatto brandelli e ferite multipli nel polpaccio destro. Di ritorno a casa, vidi che le ferite erano tutte da strascico eccetto una, che sembrava da taglio, ma già rimarginata. Toccandola, una escrescenza mi fece sospettare che si trattasse di un pezzo di specchio retrovisore, andato in frantumi con la caduta. Ma senza sangue, senza dolore e senza infezione, decisi di sperimentare lasciando le cose come stavano.
Tredici mesi dopo, girandomi a letto una notte, accusai una micro-pugnalata al polpaccio. Un medico amico aprì l’escrescenza e ne estrasse due pezzi di specchio, il più grande un triangolo isoscele di un 10 x 3 millimetri. Lo conservai per anni, fino a perderlo in un trasloco.
Secondo i canoni pasteuriani, avrei dovuto subire per lo meno un avvelenamento da mercurio, il metallo usato nel retro degli specchi, o una infezione incurabile, o quant’altro. Invece niente. Il mini pugnale si era conficcato tra la pelle e il muscolo del polpaccio, senza conseguenze visibili o invisibili.
Non pretesi mai di essere stato il primo a fare tali scoperte, e dopo l’arrivo di internet lo verificai. Ai tempi di Pasteur, Béchamp, Koch e altri luminari della ricerca, viveva un tal Max von Pettenkofer (1818-1901), chimico come Pasteur,  che però non credeva né al contagio né alla teoria del microbo come causa di malattie.
Quando Robert Koch pubblicò di aver scoperto il Vibrio cholerae, il batterio ritenuto responsabile (lo è ancora oggi) di quella malattia infettiva, Pettenkofer gli scrisse chiededendogli un campione di Vibrio da usare per ricerca personale.
Koch fece il favore e Pettenkofer ricevette una fiala piena di coltivo di Vibrio. La stappò e ne bevve il contenuto fino all’ultima goccia in presenza degli astanti. Poi scrisse a Koch ringraziandolo e notificandogli il risultato (negativo) dell’operato.[5]
Era il 1892. 40 anni prima si era pronunciata la Nightingale circa le “infezioni”:
Venni istruita facendomi credere che il vaiolo, per esempio, era una cosa della quale ne esisteva un primo campione al mondo, cfhe poi si sarebbe propagato da sé, in discendenza perpetua, proprio come c’era stato un primo cane (o paio di cani) e che il vaiolo non si sarebbe riprodotto senza un progenitore anch’esso vaiolo.
Da allora ho visto con i miei occhi, e odorato con il mio naso, i primi sintomi di vaiolo apparire  in stanze mal ventilate o in corsie sovraffollate, dove non sarebbe potuto arrivare, ma poteva solo cominciare.
Ho visto malattie iniziare, crescere e trasmutarsi l’una nell’altra. Orbene, i cani non diventano gatti.
Ho visto, per esempio, la febbre crescere in condizioni di sovraffollamento, e mutarsi in tifoide ad acuirsi questo; un po’ più affollamento, ed ecco il tifo, tutto nella stessa corsia o capanna.
Non sarebbe meglio, e più veritiero e pratico, guardare la malattia in questa luce? L’esperienza mostra che le malattie sono aggettivi, non nomi sostantivi.
L’infermieristica vera ignora le infezioni, eccetto che per prevenirle. La pulizia e l’aria da finestre aperte, più una attenzione costante all’ammalato, sono le sole difese che una vera infermiera chiede o di cui ha bisogno.
Una saggia, umana gestione del paziente è la migliore salvaguardia contro l’infezione. L’occupazione principale dell’infermieristica è quella di preservare la pulizia.
Quello che Béchamp aveva provato anni prima con gli animalcula del suo microzyma, lo aveva verificato la Nightingale macroscopicamente nell’ospedale di Scutari.
Una correlazione tra un trauma psichico e una malattia somatica è stata scoperta da recente dal dott Ryke Geerd Hamer (1935-2017), tedesco. Per chi è famigliare con il lavoro di Béchamp una tale scoperta era da aspettarsi. Per chi non lo è, e per giunta milita nell’esercito pasteuriano, questa è eresia, tanto da costare al suo scopritore la radiazione dall’albo dei medici.
Il conto dell’oste
Cosa direbbe un Béchamp redivivo ad incontrarsi oggi con il Covid19?
Direbbe quello che abbiamo visto fin qui: il virus è il microspazzino che convoglia tossine da dove si formano al sistema polmonare, il quale le espelle da bocca e nari. Non causa niente. Pertanto il sistema immunitario di chi viene trovato positivo sta solo lavorando per liberarlo da chissà quali tossine prodotte da chissà che disordine, che vengono convogliate verso gli orifizi naturali per venirne espulse, Le mascherine sono del tutto inutili, la distanza sociale è scemenza pura, e gli arresti domiciliari una follia. Non parliamo poi degli arresti da forze dell’ordine di poveri disgraziati che si fanno i fatti loro prendendo il sole su una spiaggia o correndo nei pressi di casa propria. C’è da scompisciarsi dalle risa.
Ma allora di che muore la gente, anche se non nella misura tamburellata dalla grancassa mediatica? I decessi sono veri. Indaghiamo, facendo notare che si tratta di una fondata ipotesi, non di una comprovata teoria. Sorvoliamo sulle statistiche truccate che falsamente addebitano al virus decessi per altre cause. Ma se non si muore di virus, di che si muore?
Dal 1934, anno della morte di Madame Curie stroncata da eccessive radiazioni dell’elemento da lei scoperto, si sa benissimo che le radiazioni uccidono. A tal punto, che chi vuole consultare taccuini e altro usati dalla scienziata deve indossare una tuta antiradioattiva.
Agli albori della telefonia mobile, attorno al 2000, venne in mente a due russi di fare un experimento: misero due cellulari uno di fronte all’altro, un uovo crudo nel mezzo, e li misero in comunicazione. 70 minuti dopo l’uovo era bollito sodo.
Ci fu chi espresse timori circa mantenere costantemente il volto in stretto contatto con aggeggi emettenti microonde, ma l’entusiasmo prevalse e i cellulari fanno parte della cultura odierna. In termini popolari, ci si è fatti i conti senza l’oste per una ventina d’anni.
Ma i cellulari non solo non hanno smesso di emettere radiazioni; sono stati rafforzati da numerosi aggeggi ancora più potenti: satelliti artificiali[6], forni a microonde, TV a circuito chiuso, antenne sempre più potenti, radar, WiFi, e chi più ne ha più ne metta.
E non solo radiazioni. Il dott. Stefano Montanari, che si occupa di nanoparticelle patologiche da decenni, aggiunge queste alle radiazioni come elementi nocivi per la salute. Tutte rilasciate nell’atmosfera con la stessa noncuranza circa il conto dell’oste.
Il quale è puntualmente arrivato con l’installazione del 5g, dieci volte più potente del 4g, che meno nocivo ma per niente innocuo è andato minando la salute di chi lo ha bazzicato senza saperlo dal 2000 in poi. Il 5g è la goccia che fa traboccare il vaso, o come più pittorescamente dicono gli inglesi, il filo di paglia che rompe la schiena al cammello.
Prima di verificare i perché e i percome di una possibile connessione tra il virus e 5g, vediamo a che serve questo aggeggio, e perché i suoi promotori sono tanto ansiosi di installarlo.
Nessuno dei suoi predecessori ha il potenziale di mettere in comunicazione tutta la gamma di aggeggi di cui l’uomo moderno sembra di non potere fare a meno per vivere: cellulare, auto semovente, frigorifero, contatore di elettricità “smart”, computer, e via aggiungendo. È l’apice del progresso tanto strombazzato da Galileo ad oggi.
Qui interviene un fenomeno che non riceve la pubblicità che meriterebbe: molti sindaci sembrano aver scoperto la vocazione di boscaiolo e abbattono alberi a decine di migliaia. Perchè?
Si strombazza che gli alberi impediscano la comunicazione 5g, ma la scusa zoppica. Seguendo la traccia del denaro si avrà una risposta più veritiera.
Nel ricevere una proposta per l’istallazione di una potente antenna 5g, un sindaco potrebbe ingenuamente dire: “ma certo, non c’è problema”. Al che il promotore del 5g risponderebbe: “Purtroppo il problema c’è. Gli alberi esposti alle radiazioni 5g muoiono, e quel ch’è peggio li si vede morire. Eccoti quindi una attraente mazzetta e veditela tu.
Possiamo ora capire il dilemma in cui si dibatte il sindaco: se abbatte gli alberi la gente protesta, ma senza capirne la ragione. L’abbattimento viene accettato come fatto compiuto. Se non li abbatte, la gente li vedrà morire, e non ci vorrà molto prima di connettere la morte degli alberi con la propria, entrambe dovute a un ordigno potenzialmente letale. Quanto?
Nel 2019 due giganti della telefonia: Vodafone anglosassone e Huawei cinese, si sono sbizzarriti installando antenne 5g, guarda caso, nella città cinese di Wuhan. Sei mesi dopo un certo numero di persone cominciavano a piombare improvvisamente a terra, alcune per non rialzarsi più. Tutte avevano il sistema polmonare fortemente compromesso.
Perchè? Un corpo umano attaccato da elementi estranei che ne danneggiano le cellule, si difende, tentando di espellere le tossine causate dall’agente invasore. Dei quattro grandi emuntori del corpo, solo i polmoni sono adatti alla bisogna[7] in questo caso. Ecco perchè i sintomi sono quelli dell’influenza.
Nel convogliare codeste tossine agli orifizi naturali bocca e nari, si formano liquidi e solidi peculiari, di forma variabile come già sappiamo, e che la medicina moderna, figlia di Paracelso e Pasteur, prende per cause del malessere invece di riconoscerle come effetti delle silenziose,  invisibili radiazioni.
Si nominano “coronavirus” codesti effetti, e il circuito è chiuso.
Militari, borghesi, ragazze, vaccinatevi!
Siringa in resta e cavalcando il palafreno mediatico, Bill Gates gira il mondo tamquam coronavirum debellator, cercando chi bucare con l’arma che porta. Prima di farlo, però, deve collaudare i vaccini, il che ha fatto, specialmente in India e in Africa.
Nella prima ci sono voluti 17 anni prima che il governo lo sfrattasse con tutto il suo armamentario dopo aver indotto la poliomielite in ben 486mila bambini. Nella seconda il collaudo continua: l’ultima notizia viene dal Senegal, il cui governo, indotto da una sovvenzione di 100 milioni di dollari della Banca Mondiale, si è prestato a far collaudare i primi vaccini anti-corona colà. Due medici francesi si sono recati a Dakar e hanno iniettato il prodotto a sette giovani senegalesi, tutti morti stecchiti a breve tempo.[8]
Evidentemente le cose non vanno troppo bene per il Nostro, ma non è quello il tema di interesse. Per chi vuole seguire la faccenda, legga i pesantissimi capi di accusa lanciatigli da Robert Kennedy Jr., figlio dell’omonimo Robert assassinato nel 1968 e nipote di JFK suo fratello. Ci occuperemo invece dei vaccini del tempo di Louis Pasteur.
Il principio dal quale partire è che la procedura vaccinale può funzionare se, e solo se, la teoria pasteuriana dei germi come cause di malattie è vera. Se Béchamp dovesse averci visto giusto, e Pasteur sbagliato, i vaccini sarebbero non solo inutili, ma anche irrilevanti. E gli eventi di più di un secolo fa fanno da esperimento che corrobora la seconda ipotesi.
Giunto al culmine della fama e promosso dagli stessi interessi economici di oggi, infatti, la cosa che Pasteur odiava di più era aprire la corrispondenza che si accumulava sul tuo tavolo da lavoro. Questa convogliava un clamoroso fallimento dopo l’altro della pratica vaccinale. In non poche occasioni il Nostro dovette indennizzare agricoltori e allevatori che avevano perduto i loro greggi in seguito a vaccinazioni accettate in buona fede, ma che si erano rivelate disastrose.
Ma il dado tratto continuava a promuovere la stessa pratica, finché si arrivò all’influenza spagnola[9] del 1918, che con i suoi 50 milioni di deceduti mantiene il record mondiale di pandemie. Cosa accadde?
Accadde che milioni di militari erano stati vaccinati contro il tifo prima di mandarli in linea durante la Grande Guerra. E guarda un po’, al posto del tifo apparve un paratifo, contro il quale i medici dell’epoca videro opportuno sviluppare e usare un secondo vaccino. Iniettato questo, apparve un secondo paratifo, etichettato B e richiedente un terzo vaccino. E arrivò… l’influenza, e con essa l’ecatombe non tanto di “persone” quanto di vaccinati.
I termini del paragrafo precedente sono quelli di un personale medico che non riusciva a capire l’accaduto. Béchamp (e la Nightingale) avrebbero detto invece “il tifo divenne paratifo, questo si trasformò in un secondo paratifo, e questo nell’influenza malchiamata “spagnola”..
Con l’argomento di cui sopra il lettore ha elementi sufficienti di giudizio. Qui mi limiterò a rendere omaggio a quegli italiani vittime di angherie da parte di forze dell’ordine acefale nonché da folle di dementi inferociti, perché colpevoli di anelare libertà personale.
Silvano Borruso
20 aprile 2020





[1] Se i lettori ne escogitassero una migliore, non avrei difficoltà ad adottarla
[2] Times, Londra, 8 agosto 1881. Neretto mio.
[3] La sanità ufficiale muove una guerra senza quartiere alla cura Arnaldi da decenni. Non mi è dato sapere gli ultimi sviluppi.
[4] Carattere di Macbeth, Shakespeare
[5] L’evento è del 1892. Pettenkofer non morì di colera, ma suicida nove anni dopo a 83 anni.
[6] L’ultimo progetto ne pervede 250mila per coprire la volta celeste a 360 gradi.
[7] Gli altri tre: intestino, reni e pelle rimangono fuori dal conto.
[8] Dal sito del Ghana www.ezone57.com
[9] Si è beccata quell’aggettivo perchè i primi casi vennero osservati in Spagna, ma i colpiti erano statunitensi.