Luigi Valli è noto -non troppo, per la verità- per i suoi studi su Dante e in particolare per la sua interpretazione "iniziatica" della Commedia e della produzione lirica del Poeta.
A quanto mi consta è invece del tutto dimenticato un suo libretto -il diritto dei popoli alla terra- stampato nel '32 e che pure presenta una tesi molto interessante. Devo avvertire che il testo è intimamente legato al particolare periodo storico in cui fu scritto; riflette pertanto da un lato l'aspirazione espansiva e imperiale del popolo italiano, profondamente e comprensibilmente insoddisfatto dell'assetto di Versailles, dall'altro lato fa da cassa di risonanza ad un'esigenza concreta e reale: quella di un popolo giovane e demograficamente in crescita alla conquista di nuove terre da popolare. Oggi le proposizioni di Valli non hanno più alcun rilievo immediato, per quanto concerne almeno il nostro popolo, vecchio e decadente e del tutto inetto a qualsivoglia sfoggio di vitalità ed esuberanza. Esuberanza è il termine chiave del libro di Valli, e ricorre in una selva innumerabile di passaggi: il significato in cui è assunto è quello prevalentemente descrittivo, di estrema prolificità del popolo italiano, di una gioventù scalciante che si trova ristretta entro confini irragionevolmente asfittici. Ma attraverso una serie di richiami vividi al passato imperiale delle genti italiche, l'Autore instilla un senso più profondo sacrale e vero alla parola "esuberanza", che cessa di essere un mero dato statistico per diventare l'elemento essenziale che qualifica, e non solo quantifica, la dignità di un popolo.

"il popolo italiano deve acquistare sì una coscienza della propria forza numerica e del diritto nuovo che illumina questa forza, ma non deve confondere questo suo diritto con quello di un'orda che fidi esclusivamente nella sua forza numerica. La legge della espansione delle stirpi non è puramente fondata sulla quantità. La storia vaglia anche la qualità delle stirpi e vaglia non solo la intelligenza di esse, ma quella qualità senza la quale neanche le stirpi numerosissime e prolifiche riescono ad affermarsi nel mondo: intendo dire lo spirito eroico, lo spirito di sacrificio ".

Abbiamo detto della sacralità di questo diritto e della pretesa dei popoli esuberanti alla terra; ora, non si comprenderebbe la vera prospettiva del Valli se non si mettesse a punto questo concetto fondamentale: la nobilitazione di un popolo fecondo è in re ipsa, non abbisogna per affermarsi di infiocchettarsi con una ideologia imperialistica, in altri termini la esuberanza è sacra in quanto tale e non in virtù di una missione civilizzatrice. L'impero romano si ammantò con questa ideologia, ma la sua forza vera risiedeva in ciò, che la donna romana era feconda, che l'uomo romano era prima di tutto padre. E il sacrum dell'espansione romana constava proprio in ciò, benchè le parole dei poeti e dei giureconsulti ne cogliessero soprattutto la giustificazione astratta, di imporre il diritto, di attuare un mandato divino. L'ideologia imperiale non è per ciò falsa, ma non coglie il momento genetico, fondativo di quello "ius ad imperandum" che ineriva al popolo romano.

"Ho detto che l'ideologia nella luce della quale Roma costruiva l'impero è la più vera delle ideologie. Roma, in verità, allargandosi nel mondo istituiva il diritto e moralizzava il genere umano, ma il diritto demografico essa non lo enunciò nella sua nudità." 

Una espressione del diritto demografico nella sua nudità è piuttosto da ricercare nel concetto romano della famiglia:

"Il fattore principalissimo della espansione romana fu indubitabilmente il maraviglioso incremento demografico del popolo latino, legato al suo profondo culto della famiglia, al senso altissimo della paternità che avevano i latini, alla sana fecondità della donna romana, di quella donna veramente <possente in oprare e partorire>, che per secoli e secoli, vivendo secondo l'antico epitaffio casta nella casa e filando la lana e dando figli alle legioni fu la prima mirabile e silenziosa costruttrice dell'Impero".

In tanto dunque consiste quel "diritto dei popoli alla terra"cui il Valli ha consacrato il suo studio.
L'ideologia imperialistica viceversa è solo un mantello, che orna un tale diritto, ed in questo non vi sarebbe danno; ma che accadrebbe se di questo scrigno dorato si cambiasse il contenuto, lasciando tuttavia invariato l'ornamento?
E' l'aver indagato questa speciosa operazione che va ascritto a merito ulteriore dell'Autore. All'imperialismo dei popoli, che si accaparravano terre "per il pane dei propri figli", è subentrato a poco a poco un imperialismo diverso, che camuffandosi sotto la stessa ideologia astratta conduce invero un tentativo illegittimo e iniquo. E' l'imperialismo del capitale, il (preteso) diritto dei banchieri alla terra, si potrebbe dire.

"Quando un popolo si trova a dover fare questo ragionamento : <Io ho ormai tanti e tanti milioni o miliardi di capitale accumulato che qui nella mia patria rendono molto poco; ho bisogno di estendere il mio dominio in qualche altra plaga del mondo per collocare questo capitale più fruttuosamente ed in perfetta libertà>, esso si guarda bene dal presentare un tale bisogno nella sua impoetica nudità, esso incarica qualche teorico inconsapevole di esaltare il sacro mandato imperiale, il diritto ed il dovere di espandere la civiltà e simili, e con ciò assume proprio, direi meglio, usurpa, quella stessa ideologia che ammanta l'espansione demografica"