A NOVANT’ANNI DA “QUOTA NOVANTA”
L’Evento
Il 13 agosto 1926, a Pesaro, il Duce proclamava, agli
Italiani e al mondo, che avrebbe riportato la lira a Quota Novanta, cioè al
tasso di scambio con la sterlina del 1922, anno della presa di potere. Cos’era successo?
La politica economico-monetaria dei primi quattro anni di
regime aveva fatto spostare quel tasso da 90:1 a 154:1. Fu una conseguenza
inevitabile della natura della lira, viziata, come tutte le monete, da una
superstizione, o incantesimo che dir si voglia, risalente a Re Creso di Lidia
(m. 546 a.C.) e che ci trasciniamo dietro ancora oggi.
Antecedenti
Storici
La malaugurata idea di Re Creso fu di monetizzare l’electrum, una lega di oro e argento abbondante
nelle sabbie alluvionali del fiume Pactolus. Garantendo il peso del metallo
prezioso con il sigillo reale, Creso divenne immensamente ricco e famoso.
Da allora, chi usa, contempla, studia, gestisce o si
occupa di moneta in una maniera o in un’altra, si ammala di schizofrenia più o
meno acuta, spesso vita natural durante.
Già, perchè grazie a Creso la moneta acquistò una doppia funzione: mezzo di scambio e portavalore. Ciò ancora oggi impedisce non solo
di capire la moneta ma perfino di definirla.
Le due funzioni sono una contraddizione pratica vicendevole: spendere, o tesoreggiare (si
ricordi la capra e i cavoli), sono un aut aut senza termine medio. Solo chi comprende la rilevanza di questa
contraddizione è in condizioni di capirne le conseguenze, non solo in ogni
singola operazione monetaria, non ultima quella che causò “Quota 90”, ma anche
politica, sociale, economica, culturale eccetera delle quali però non ci occuperemo.
Uno che comprese fu Lord Acton (1834-1902) che quando copriva la carica di
Presidente della Corte Suprema del Regno Unito (1875) profetizzò:
La Questione che si va trascinando nei secoli, e per la quale prima o poi bisognerà combattere, è
quella del popolo contro le banche.
Neretto aggiunto. La citazione risale a mezzo secolo prima di Quota Novanta, la quale fu
un’indubbia vittoria delle banche sul popolo.
La politica monetaria dei quattro anni 1922-26 era stata
una politica colbertiana, basata su ciò
che il grande Jean-Baptiste[1]
aveva sentenziato tre secoli prima:
“Il solo, semplice fattore
che fa grande e potente uno Stato è l’abbondanza di contante all’interno”.
Due cose sfuggirono a Colbert:
Una, che il contante deve circolare; se tesoreggiato (“risparmiato” per i patiti di codesta
pratica) paralizza l’economia;
Due, che la funzione portavalore della moneta assegna a
questa un padrone. Il quale è libero di spenderla, o di
tesoreggiarla, a suo agio.
Se la spende non c’è problema; se la tesoreggia, e nota
che ha il potere di imporre un tributo a chi ne ha bisogno, è tutta un’altra
storia.
Ci vollero altri due secoli prima che un genio
dell’economia prestasse attenzione alle questioni disattese da Colbert, e ne dipanasse
il groviglio.
Fu costui Silvio Gesell (1862-1930), mercante tedesco che
fece fortuna in Argentina nel ventennio a cavallo tra i secoli XIX e XX. Non
facente parte dell’ambito accademico, ma osservatore acutissimo di cose e
persone, Gesell mise il dito sulla piaga. Si faccia attenzione ai suoi
ragionamenti (e si tenti di confutarli se si può).
Primo: Chi gestisce la funzione di portavalori di una
moneta è in condizioni di imporre un tributo
a chi ne ha bisogno come mezzo di scambio.
Secondo: L’usura
va identificata con questo tributo,
che nasce agli scambi. Solo secondariamente riguarderà i prestiti.
Terzo: non vi è, né vi può essere, coesistenza amichevole
tra i due termini di una contraddizione. Per cominciare, essa fa strame della
cosiddetta “legge della domanda e offerta”, che ingiustamente ma
ineluttabilmente mette l’offerta in condizioni di inferiorità rispetto alla
domanda. Questa, rispaldata da moneta indeperibile, sistematicamente impone usura all’offerta, rispaldata… dai
capricci del tempo, della moda, di truffatori, di incidenti, e un lungo
eccetera che lascio all’immaginazione dei lettori.
Quarto: per cui non ci si libererà da questa piaga
millenaria senza eliminare la funzione parassitaria di portavalori dalla moneta.
Il ragionamento non fa una grinza. Si noti il rigore della definizione di usura,
mai espressa prima e mai contestata da allora, ma occultata, tergiversata, e
ostacolata in mille modi da chi ha tutto da perdere e niente da guadagnare
dalla verità. Ecco perchè Gesell rimane tabù in tutte le facolta di economia.
E in pratica? Come
far sì che domanda e offerta si confrontino su un campo livellato?
Ci aveva provato Proudhon (1809-1865), che si era accorto
dello sbilancio, dichiarando che “la moneta, lungi da far da chiave alle porte
del mercato, fa da chiavistello che le sbarra”. Ma la sua soluzione, consistente
nel far salire l’offerta a livello
della domanda, fallì.
Gesell studiò l’assunto, arrivando alla conclusione
opposta. Era la domanda che andava fatta
scendere al livello dell’offerta. Come? Penalizzandone il tesoreggiamento. Questa
misura non intaccherebbe il potere di acquisto della moneta, ma difficolterebbe
il suo accaparramento. L’usura sparirebbe per inanizione. Gesell suggerì un
tasso negativo dello 0,1% settimanale (5,2% annuale) per incentivare i detentori
a spendere.[2]
La misura accelererebbe la velocità di circolazione
monetaria, facendo muovere beni e servizi per tante volte il valore nominale
del biglietto quante volte questo cambiasse di mano. Per esempio, uno stesso biglietto da 100 euro a
circolazione forzata muoverebbe beni e servizi per 100mila euro circolando 1000
volte (a tre scambi al giorno ciò avverrebbe in un anno).
L’Occasione
Mancata
Nel 1926 Gesell viveva ancora. Otto anni prima aveva predetto:
Nonostante le sacre promesse di tutti i popoli di bandire
la guerra una volta per tutte, nonostante l’urlo delle masse «Mai più guerra»,
nonostante tutte le speranze di un futuro migliore, consti quello che dico: Se
il sistema monetario attuale basato sull’interesse composto, rimane in forza,
oso predire che non passeranno 25 anni prima che scoppi un’altra guerra ancora
più terribile. Vedo venirne lo sviluppo […] Si formeranno movimenti
rivoluzionari selvaggi tra le masse malcontente, e fiorirà la pianta velenosa
dell’estremo nazionalismo. I popoli non si capiranno a vicenda, e alla fine non
potrà che scoppiare un’altra guerra.[3]
E
l’ultimo paragrafo del suo magnum opus
recita:
A tutti naturalmente piacerebbe godere della benedizione
di una pace civile e internazionale, vivendo però allo stesso tempo di interesse
sul capitale. Ma chi ha scoperto che la possibilità di farlo è una fantasia
utopica, un’illusione di menti ingenue; chi capisce che la guerra e l’interesse
sono inseparabili, è obbligato a scegliere: o interesse e guerra, o reddito da
lavoro e pace. Tali persone, se veramente animate da sentimenti di pace
cristiani, accetteranno la seconda alternativa con entusiasmo; costoro hanno la
preparazione interiore per capire L’Ordine
Economico Naturale, che è stato scritto per loro. Saranno costoro che, per
niente scoraggiati dall’opposizione, effettueranno le riforme ivi proposte.
Nel 1926 l’informazione di cui sopra era di dominio
pubblico da 20 anni. Non sappiamo se Mussolini avesse o no letto Gesell, o se
qualcuno lo avesse informato tanto del magnum
opus del Nostro quanto della sua profezia. In ogni caso, il Duce si trovava
allo stesso bivio poeticamente descritto da Robert Frost (1876-1963) dieci anni
prima: “due sentieri si biforcavano nel bosco; ed io, io scelsi quello meno
battuto, il che fece tutta la differenza”.
A percorrere il sentiero meno battuto, il Duce non avrebbe
avuto bisogno di scacciare gli usurai dal consorzio sociale. Avrebbe
semplicemente tolto loro il tappeto da
sotto i piedi, con conseguenze esilaranti, immaginabili solo da chi ha letto
il capolavoro geselliano.
Invece, per le ragioni che siano, scelse il sentiero
battutissimo dai tempi di Re Creso. Cosa guadagnò? Prima l’effimero osanna dei
suoi nemici, poi la loro pugnalata alle spalle a Stresa (1935), poi l’avventura
scapigliata etiopica, la catastrofe della Seconda Guerra, e infine il crucifige a Piazzale Loreto. Non poteva
andare diversamente.
Il Bivio
La contraddizione incastonata nel tipo di moneta corrente
non causa solo usura, ma ogni disordine monetario riguardante l’economia nazionale.
Uno di questi è l’impossibilità pratica, per qualsiasi moneta di qualsiasi
paese, di mantenere prezzi stabili all’interno e tassi di scambio stabili con
l’estero. Se salgono gli uni scenderanno gli altri e viceversa.
Ecco perchè nel 1922-26 l’abbondanza di circolante aveva
fatto sorgere centinaia di medie e piccole aziende, ma deprimendo il tasso di
scambio con la sterlina, la sola “riserva” di allora.
Il Duce reagì prestando attenzione a quest’ultimo: “il
regime era legato alla lira” aveva detto, e “il prestigio della Nazione”
dipendeva dal riportarla a “Quota 90”. Il ministro delle Finanze Volpi era
contrario a un salto così repentino ad una lira “forte”, e avrebbe preferito un
tasso di 122:1 o giù di lì. Cosa sarebbe successo a dare retta a Volpi?
Non è difficile dedurlo: la deflazione che colpì tutti
quei medi e piccoli operatori economici ne avrebbe colpiti di meno, o meno duramente,
ma li avrebbe colpiti lo stesso. I fallìmenti furono dovuti ad asfissia di contante, ossigeno dell’economia naturale.
Il promettente decollo economico del primo quadriennio andò in stallo.
Il “prestigio della Nazione” fu in realtà prestigio di
usurai, grandi industriali facenti uso di economie di scala, e gente simile. Per
centinaia se non migliaia di imprenditori “Quota 90” fu semplicemente rovinosa.
Il punto comunque è un altro: qualunque cosa si fosse
fatta, non si sarebbe per niente sfuggiti
alla logica del doppio risultato, che non dipendeva allora, né dipende oggi,
da decisioni ad hoc ma dalla doppia natura della moneta, come già visto.
Per avere un’idea di quello che Mussolini avrebbe potuto
mettere in opera adottando una lira geselliana nel 1926, vediamo quello che
riuscì a fare sei anni dopo un borgomastro tirolese con gli attributi, Michael
Unterguggenberger,[4] il
cui mezzo busto campeggia ancora oggi a Wörgl nel Tirolo austriaco.
Costui, dopo aver letto e riletto Gesell, lo mise in
pratica a fine luglio 1932. Con una manciata di 5300 Schilling a circolazione
forzata eliminò la disoccupazione e costruì opere pubbliche per due milioni e mezzo, alla faccia della
depressione economica che flagellava il resto del mondo.[5]
Cosa fece “il sindaco dal lungo nome” come ironizzava
l’economista americano Irving Fisher (1865-1947)?
Penalizzò la funzione parassitaria di riserva di valore per
un 1% mensile, (12% annuale). Lo fece con un duplicato che ebbe l’accortezza di
chiamare Certificato di Lavoro, alla
pari con lo Schilling. Il Municipio pagava metà di fatture e stipendi con
codesti Certificati, e come contropartita li accettava in pagamento di imposte.
I Certificati pertanto circolavano insieme alla
moneta di Stato, ma ad una velocità 50-60 volte superiore. I tagli, da 1, 5 e
10 Schilling si potevano prestare a tasso nullo (0%) o accaparrare a un tasso
di -12% annuale. Qui è importantissimo capire come funzionava la multa di
magazzinaggio, che molti ancora oggi mal chiamano “svalutazione programmata”.
Non vi fu svalutazione di sorta. Un Certificato da 10
Schilling andava fuori corso a fine mese a meno di non incollargli un bollino
da 10 pfennig in una delle dodici caselle ivi stampate, acquistabile in
Municipio. Il mese seguente lo stesso certificato sarebbe passato da altre
mani, così da disperdere il costo di magazzinaggio tra dodici utenti in un
anno. Dopo 100 mesi (8 anni 4 mesi) il folle che avesse deciso di tenersi il
certificato invece di spenderlo, avrebbe dovuto pagare uno sdoganamento equivalente
al suo valore nominale. Ecco cos’era la “svalutazione programmata”. In realtà, in
100 mesi otto-nove certificati da 10 Schilling cadauno avrebbero circolato, facendo
muovere beni e servizi per 10 Schilling ad ogni cambio di mano.[6]
Fu una sorpresa generale constatare che la media mensile del
circolante si stabilizzò a 5300 Schilling, che cambiando di mano ±450 volte in
14 mesi fece muovere beni e servizi per due milioni e mezzo. Si costruì un
ponte sul fiume Inn (ancora in servizio), si asfaltarono sette strade, vennero rinnovati
gli impianti di illuminazione e di fognatura, e si costruì perfino un
trampolino di salto con sci (Wörgl è una stazione alpina).
Nel frattempo il paesino era divenuto meta di “pellegrinaggio”
di schiere di “macroeconomisti” andati a vedere il “miracolo” in prima persona.
C’era anche Pound, ma nei suoi scritti appena menziona la Freigeld geselliana.
Dei nomi degli altri non si trova traccia, eccetto che di
Irving Fisher, presunto entusiasta dell’idea. Tornato negli USA la mise in
pratica. A Wörgl si brontolava che 12% annuale fosse eccessivo, anche doppio
del necessario. Fisher adottò un mostruoso 2%
settimanale (104% annuale) che fece fallire l’esperimento così da non riaversi
più. Fu ottusità mentale o mala volontà? Non è dato sapere. Ma tutti i
denigratori della Freigeld di Gesell
si rifanno al modello Fisher. Ci sono troppi elementi per dubitare che i
“pellegrini” si fossero recati a Wörgl per imparare. È più probabile il sabotaggio,
ecco perché da allora fino all’avvento di internet l’esperimento rimase del
tutto sconosciuto come rimase sconosciuto Gesell.
Venti di Guerra
Il sabotaggio aveva una ragion d’essere: la guerra. Tutti più o meno la stavano
preparando. Duole dirlo, ma il passato di Mussolini era stato bellicista, anche
se come semplice recipiente di mazzette britanniche al suo giornale per spingere
l’Italia alla guerra.[7]
I macroeconomisti “pellegrini” a Wörgl non ci misero molto ad accorgersi che le somme che vi circolavano erano troppo
esigue per muovere anche un mozzicone di guerra. Wörgl fu una genuina offerta di pace, respinta dalle forze
dell’usura. False offerte della stessa, come Monaco (1938), non furono che
prestidigitazioni foriere di quella gigantesca operazione sotto bandiera falsa
conosciuta come Seconda Guerra Mondiale. La sfida di Wörgl finì quando la Banca
Nazionale condannò l’esperimento dopo un appello inutile. Lo sforzo costò la
vita al borgomastro, che nel 1936 soccombeva alla tubercolosi contratta a causa
degli stenti sofferti durante la depressione del 1907-1908.
Gli storiografi incastonati danno la colpa della guerra
ai “dittatori”. Chi capisce la questione monetaria, come Ezra Pound, li sdoganava
entrambi, puntando il dito nella direzione giusta:
Questa guerra non è stata causata dai capricci di
Mussolini, o di Hitler. Questa guerra fa parte della guerra di secoli tra gli
usurai e chiunque lavora onestamente, sia manualmente che intellettualmente”.[8]
Mutatis verbis, era
lo stesso punto di Lord Acton di 70 anni prima.
Unterguggenberger non fu il primo a mettere in campo la
moneta franca di Gesell. Era stato preceduto nel 1930 da Herr Hebecker, il
padrone di una miniera di carbone a Schwanenkirchen in Baviera. Costui emise i buoni
Wära, con i quali pagava i 40
dipendenti, e che poi accettava in pagamento di carbone. L’economia del paesino
di 500 abitanti ebbe una ripresa eccellente, attraendo la malaugurata attenzione
del Cancelliere Brüning. Con un paio di decreti liberticidi -nonché
guerrafondai- costui si sbarazzò di
Schwanenkirchen richiamando in Germania disoccupazione e povertà.
C’è da chiedersi: se 4000 anime con a capo un borgomastro
di visione e di azione, e un gruppuscolo di casolari organizzato dal padrone di
un giacimento di carbone riuscirono a fare quello che fecero, cosa non avrebbero
potuto fare 40 milioni di Italiani guidati dal solo statista degno di quel nome
in 150 anni?
Si può solo speculare, ma realisticamente. Prima a
sparire sarebbe stata la disoccupazione, presto sostituita da scarsezza di
manodopera. Con lavoro per tutti, sarebbe sparito ogni prurito di spargere
sangue per andarsi a cercare “un posto al sole” lontano un ottavo di
circonferenza terrestre.
E chissà che nel constatare il benessere italiano, Haile
Selassie non si fosse ricordato del suo predecessore Dawit I (1382-1413), che
nel XV secolo voleva importare maestranze veneziane in Etiopia. Ne sarebbe
scaturita una benvenuta collaborazione (etimologicamente = lavoro insieme) invece
di una vicendevole distruzione di cui si beneficarono solo le forze dell’usura.
Prestiamo ora attenzione alla Germania. Nel 1926 Hitler
era sconosciuto, ma non Gesell, il cui libro era alla quinta edizione, e che stava
ispirando vari Hebecker e il borgomastro “dal lungo cognome”. Funzionava colà
da anni il partito Nazional Socialista dei fratelli Gregor e Otto Strasser, bene
organizzato, solvente e con due periodici, con crescente popolarità ma scarso
di fondi.[9]
Hitler lo rilevò con i soldi del banchiere von Schröder
rappresentante dei Rothschild ad Amburgo, lo rinominò Nazionalsocialista, ne ridusse
i punti programmatici da 25 a 18, e dopo essersene servito lo annientò a
rivoltellate la notte del 30 giugno 1934.[10]
Hitler non voleva la pace. Tre mosse chiave lo rivelano
senza ombra di dubbio. La prima, che non appena arrivato al potere dichiarò l’Ordine Economico Naturale letteratura
proibita. L’ultima edizione anteguerra risaliva al 1931, e la prima postguerra
dovette aspettare fino al 1949. La seconda mossa fu la “notte dai lunghi
coltelli” appena vista: i Nazional Socialisti degli Strasser non erano
bellicisti; si aspettavano, ingenuamente che Hitler desse loro posti di
responsabilità come ricompensa per averlo fatto eleggere. E la terza, sconosciutissima in Italia, fu la
taglia di due milioni di dollari sulla testa di Otto Strasser, sfuggito alla
strage con una fuga rocambolesca che dalla Germania lo portò in Canada nel
1942.
A questo punto non sorprenderà nessuno leggere che la
persecuzione hitleriana di Otto Strasser fu rilevata dal democraticissimo
Canada, che a guerra finita gli impedì di rimpatriare con artifizi burocratici
da far verde di invidia un Machiavelli. Gli permisero –bontà loro- di ritornare
in Germania nel 1956, quando colà le redini del potere erano già saldamente
nelle fauci dei soliti cagnolini da salotto.[11]
Una lira italiana franca[12]
geselliana, tirando il tappeto da sotto i piedi a Schröder e compari d’oltre
Manica e d’oltre Atlantico, avrebbe consegnato la seconda guerra alla
pattumiera della storia un buon decennio prima che scoppiasse.
Per quantificare
quello che avrebbe potuto fare l’Italia, basta moltiplicare per diecimila
(quattro ordini di grandezza) i successi di Worgl: 70mila km di viabilità stradale
e/o ferroviaria, 10mila ponti o infrastrutture equivalenti, 20mila km di fognature
o strutture equivalenti, energia elettrica nei paesi più sperduti, e
installazioni sportive a volontà. Con il paradigma economico spostato
dall’usura al lavoro non ci sono limiti al fattibile eccetto l’immaginazione.
Ma così non fu. Non
ci vuol molto a vedere come nessuno delle nullità che ha governato (si fa per
dire) la Penisola dal 1945 ad oggi abbia per un momento pensato, se mai ne
avesse avuto sentore, a una Lira Franca. Moro fu l’unico che osò emettere
moneta di Stato nella forma del bigliettino che sostituì quel capolavoro di
numismatica che fu il pezzo da 500 lire emesso negli anni Cinquanta. Si dice in
Rete che il suo assassinio fosse dovuto a quella mossa. Non lo si può né
affermare né negare, ma una cosa è certa: solo una moneta franca è in
condizione di debellare l’usura, e con essa la guerra. Quando si tenta di farlo
con la moneta portavalore di Creso si va incontro a una sicura disfatta.
Dove stiamo
andando?
Dove aveva predetto Gesell nel 1918: verso una terza
guerra. Quando la funzione esponenziale dell’interesse composto interseca
quella lineale della crescita industriale, ne segue inevitabilmente che l’unica
industria capace di tener testa al pagamento di interessi è quella bellica,
dove si costruisce con il preciso scopo di distruggere. Ogni aereo che si
schianta in fiamme, ogni missile che semina
morte e distruzione, ogni vascello da guerra che affonda, ogni proiettile che
lascia la canna dell’arma da fuoco, vada a segno o no, sono “lauti profitti”
per i mercanti di morte. Cosa si può fare?
Con gli uomini politici, lo abbiamo visto: niente. Chi
più chi meno, erano tutti guerrafondai quelli che si videro offrire la pace su
un vassoio a Wörgl nel 1932-33. Gli unici che recepirono il messaggio di Gesell
e lo misero in pratica furono uomini di pace: un ingegnere minerario e un
sindaco, che a non venire bloccati dal Leviathan statale erano li li per capitanare
una folla ragguardevole di seguaci. Mammona li battè sul tempo.
Non è per niente certo, ma anche oggi è ragionevole
assumere che lo stesso tipo di uomini potrebbero duplicarne le gesta.
L’Italia ha ottomila comuni con altrettanti sindaci. È
proprio possibile che non ve ne sia uno, dico uno, con gli attributi di Michael
Unterguggenberger? Oltre alla visione e spirito di azione, di cosa avrebbe
bisogno? Vediamolo.
1.
Consapevolezza
dell’esistenza di numerose monete complementari già operanti in Italia e
all’estero. Il campionario è sufficiente
per scegliere quale modello adottare;
2.
Suddivisione di
lavoro, sola condizione che giustifichi l’emissione di una moneta; detta
suddivisione sarebbe automatica in un comune semi-rurale di 20-40mila abitanti
(cinque-dieci volte Wörgl);
3.
Detta moneta servirebbe
esclusivamente l’economia municipale; fuori di essa si continuerebbe ad usare la
moneta nazionale, o l’euro.
4.
Unione compatta
sindaco-popolo, senza mediazione di partiti o di sindacati, i cui interessi non
coincidono con il bene comune; in parole povere buon governo.
5.
Impartire istruzioni
particolareggiate a tutta la popolazione prima di lanciare lo schema; o la cosa
riesce di primo acchito o non più.
C’è solo da sperare e pregare che il contagio infetti
quante più località possibile, espandendosi a macchia d’olio per tutto il
territorio nazionale e oltre. L’Italia rimarrebbe espressione geografica; gli
Italiani farebbero da nazione guida al resto del mondo, restaurando la gloriosa
epoca dei liberi Comuni.
Silvano Borruso
19 gennaio 2016
[1] Ministro
delle Finanze di Luigi XIV (1638-1715).
[2] La cifra del
tasso non è importante. Basta che sia non tanto bassa da incoraggiare l’incetta
e il tesoreggiamento dei biglietti, e non tanto alta da scoraggiarne
l’accettazione. Può anche essere mensile, o bimestrale.
[3] Tutti i
lavori consultati danno Zeitung am Mittag
come fonte, ma senza data oltre l’anno.
[4] 1884-1936. Oggettivamente
si tratta dell’uomo politico più importante del secolo XX.
[6] Come punto di
riferimento, il mensile del borgomastro era di 1800 Schillling.
[7] 1915. La
storia di come i britannici ricattarono l’Italia facendole voltare gabbana
esula da questo scritto.
[8] Ezra Pound, L’America, Roosevelt e le cause della guerra
in corso, Venezia 1944.
[9] Il partito originale era
stato fondato da Thomas Masaryk (1850-1937) nel 1887 in Boemia, allora parte di
Austria-Ungheria. Era un partito di ispirazione cattolica con un programma di
25 punti. Il termine “Nazional Socialista” fu scelto in opposizione a
“Internazional Socialista”, di ispirazione giudaica come tutti i movimenti anti
nazionali.
[10] Secondo
Douglas Reed (1895-1976), inviato speciale del Times di Londra in Europa Centrale (1921-1938), le vittime furono
1200, non “circa 85” come piamente recita Wikipedia.
[11] Chi vuole approfondire scarichi The Prisoner of Ottawa di Douglas Reed.
Non vi è versione italiana.