martedì 19 gennaio 2016

A NOVANT’ANNI DA “QUOTA NOVANTA” di Silvano Borruso

A NOVANT’ANNI DA “QUOTA NOVANTA”

L’Evento
Il 13 agosto 1926, a Pesaro, il Duce proclamava, agli Italiani e al mondo, che avrebbe riportato la lira a Quota Novanta, cioè al tasso di scambio con la sterlina del 1922, anno della presa di potere. Cos’era successo?
La politica economico-monetaria dei primi quattro anni di regime aveva fatto spostare quel tasso da 90:1 a 154:1. Fu una conseguenza inevitabile della natura della lira, viziata, come tutte le monete, da una superstizione, o incantesimo che dir si voglia, risalente a Re Creso di Lidia (m. 546 a.C.) e che ci trasciniamo dietro ancora oggi.
Antecedenti Storici
La malaugurata idea di Re Creso fu di monetizzare l’electrum, una lega di oro e argento abbondante nelle sabbie alluvionali del fiume Pactolus. Garantendo il peso del metallo prezioso con il sigillo reale, Creso divenne immensamente ricco e famoso. 
Da allora, chi usa, contempla, studia, gestisce o si occupa di moneta in una maniera o in un’altra, si ammala di schizofrenia più o meno acuta, spesso vita natural durante.
Già, perchè grazie a Creso la moneta acquistò una doppia funzione: mezzo di scambio e portavalore. Ciò ancora oggi impedisce non solo di capire la moneta ma perfino di definirla.
Le due funzioni sono una contraddizione pratica vicendevole: spendere, o tesoreggiare (si ricordi la capra e i cavoli), sono un aut aut senza termine medio. Solo chi comprende la rilevanza di questa contraddizione è in condizioni di capirne le conseguenze, non solo in ogni singola operazione monetaria, non ultima quella che causò “Quota 90”, ma anche politica, sociale, economica, culturale eccetera delle quali però non ci occuperemo. Uno che comprese fu Lord Acton (1834-1902) che quando copriva la carica di Presidente della Corte Suprema del Regno Unito (1875) profetizzò:
La Questione che si va trascinando nei secoli, e per la quale prima o poi bisognerà combattere, è quella del popolo contro le banche.
Neretto aggiunto. La citazione risale a mezzo secolo prima di Quota Novanta, la quale fu un’indubbia vittoria delle banche sul popolo.
La politica monetaria dei quattro anni 1922-26 era stata una politica colbertiana, basata su ciò che il grande Jean-Baptiste[1] aveva sentenziato tre secoli prima:
 “Il solo, semplice fattore che fa grande e potente uno Stato è l’abbondanza di contante all’interno”.
Due cose sfuggirono a Colbert:
Una, che il contante deve circolare; se tesoreggiato (“risparmiato” per i patiti di codesta pratica) paralizza l’economia;
Due, che la funzione portavalore della moneta assegna a questa un padrone. Il quale è libero di spenderla, o di tesoreggiarla, a suo agio.
Se la spende non c’è problema; se la tesoreggia, e nota che ha il potere di imporre un tributo a chi ne ha bisogno, è tutta un’altra storia.
Ci vollero altri due secoli prima che un genio dell’economia prestasse attenzione alle questioni disattese da Colbert, e ne dipanasse il groviglio.
Fu costui Silvio Gesell (1862-1930), mercante tedesco che fece fortuna in Argentina nel ventennio a cavallo tra i secoli XIX e XX. Non facente parte dell’ambito accademico, ma osservatore acutissimo di cose e persone, Gesell mise il dito sulla piaga. Si faccia attenzione ai suoi ragionamenti (e si tenti di confutarli se si può).
Primo: Chi gestisce la funzione di portavalori di una moneta è in condizioni di imporre un tributo a chi ne ha bisogno come mezzo di scambio.
Secondo: L’usura va identificata con questo tributo, che nasce agli scambi. Solo secondariamente riguarderà i prestiti.
Terzo: non vi è, né vi può essere, coesistenza amichevole tra i due termini di una contraddizione. Per cominciare, essa fa strame della cosiddetta “legge della domanda e offerta”, che ingiustamente ma ineluttabilmente mette l’offerta in condizioni di inferiorità rispetto alla domanda. Questa, rispaldata da moneta indeperibile, sistematicamente impone usura all’offerta, rispaldata… dai capricci del tempo, della moda, di truffatori, di incidenti, e un lungo eccetera che lascio all’immaginazione dei lettori.
Quarto: per cui non ci si libererà da questa piaga millenaria senza eliminare la funzione parassitaria di portavalori dalla moneta.
Il ragionamento non fa una grinza. Si noti il rigore della definizione di usura, mai espressa prima e mai contestata da allora, ma occultata, tergiversata, e ostacolata in mille modi da chi ha tutto da perdere e niente da guadagnare dalla verità. Ecco perchè Gesell rimane tabù in tutte le facolta di economia.
E in  pratica? Come far sì che domanda e offerta si confrontino su un campo livellato?
Ci aveva provato Proudhon (1809-1865), che si era accorto dello sbilancio, dichiarando che “la moneta, lungi da far da chiave alle porte del mercato, fa da chiavistello che le sbarra”. Ma la sua soluzione, consistente nel far salire l’offerta a livello della domanda, fallì.
Gesell studiò l’assunto, arrivando alla conclusione opposta. Era la domanda che andava fatta scendere al livello dell’offerta. Come? Penalizzandone il tesoreggiamento. Questa misura non intaccherebbe il potere di acquisto della moneta, ma difficolterebbe il suo accaparramento. L’usura sparirebbe per inanizione. Gesell suggerì un tasso negativo dello 0,1% settimanale (5,2% annuale) per incentivare i detentori a spendere.[2]
La misura accelererebbe la velocità di circolazione monetaria, facendo muovere beni e servizi per tante volte il valore nominale del biglietto quante volte questo cambiasse di mano. Per esempio, uno stesso biglietto da 100 euro a circolazione forzata muoverebbe beni e servizi per 100mila euro circolando 1000 volte (a tre scambi al giorno ciò avverrebbe in un anno).
L’Occasione Mancata
Nel 1926 Gesell viveva ancora. Otto anni prima aveva predetto:
Nonostante le sacre promesse di tutti i popoli di bandire la guerra una volta per tutte, nonostante l’urlo delle masse «Mai più guerra», nonostante tutte le speranze di un futuro migliore, consti quello che dico: Se il sistema monetario attuale basato sull’interesse composto, rimane in forza, oso predire che non passeranno 25 anni prima che scoppi un’altra guerra ancora più terribile. Vedo venirne lo sviluppo […] Si formeranno movimenti rivoluzionari selvaggi tra le masse malcontente, e fiorirà la pianta velenosa dell’estremo nazionalismo. I popoli non si capiranno a vicenda, e alla fine non potrà che scoppiare un’altra guerra.[3]
E l’ultimo paragrafo del suo magnum opus recita:
A tutti naturalmente piacerebbe godere della benedizione di una pace civile e internazionale, vivendo però allo stesso tempo di interesse sul capitale. Ma chi ha scoperto che la possibilità di farlo è una fantasia utopica, un’illusione di menti ingenue; chi capisce che la guerra e l’interesse sono inseparabili, è obbligato a scegliere: o interesse e guerra, o reddito da lavoro e pace. Tali persone, se veramente animate da sentimenti di pace cristiani, accetteranno la seconda alternativa con entusiasmo; costoro hanno la preparazione interiore per capire L’Ordine Economico Naturale, che è stato scritto per loro. Saranno costoro che, per niente scoraggiati dall’opposizione, effettueranno le riforme ivi proposte.
Nel 1926 l’informazione di cui sopra era di dominio pubblico da 20 anni. Non sappiamo se Mussolini avesse o no letto Gesell, o se qualcuno lo avesse informato tanto del magnum opus del Nostro quanto della sua profezia. In ogni caso, il Duce si trovava allo stesso bivio poeticamente descritto da Robert Frost (1876-1963) dieci anni prima: “due sentieri si biforcavano nel bosco; ed io, io scelsi quello meno battuto, il che fece tutta la differenza”.
A percorrere il sentiero meno battuto, il Duce non avrebbe avuto bisogno di scacciare gli usurai dal consorzio sociale. Avrebbe semplicemente tolto loro il tappeto da sotto i piedi, con conseguenze esilaranti, immaginabili solo da chi ha letto il capolavoro geselliano.
Invece, per le ragioni che siano, scelse il sentiero battutissimo dai tempi di Re Creso. Cosa guadagnò? Prima l’effimero osanna dei suoi nemici, poi la loro pugnalata alle spalle a Stresa (1935), poi l’avventura scapigliata etiopica, la catastrofe della Seconda Guerra, e infine il crucifige a Piazzale Loreto. Non poteva andare diversamente.
Il Bivio
La contraddizione incastonata nel tipo di moneta corrente non causa solo usura, ma ogni disordine monetario riguardante l’economia nazionale. Uno di questi è l’impossibilità pratica, per qualsiasi moneta di qualsiasi paese, di mantenere prezzi stabili all’interno e tassi di scambio stabili con l’estero. Se salgono gli uni scenderanno gli altri e viceversa.
Ecco perchè nel 1922-26 l’abbondanza di circolante aveva fatto sorgere centinaia di medie e piccole aziende, ma deprimendo il tasso di scambio con la sterlina, la sola “riserva” di allora.
Il Duce reagì prestando attenzione a quest’ultimo: “il regime era legato alla lira” aveva detto, e “il prestigio della Nazione” dipendeva dal riportarla a “Quota 90”. Il ministro delle Finanze Volpi era contrario a un salto così repentino ad una lira “forte”, e avrebbe preferito un tasso di 122:1 o giù di lì. Cosa sarebbe successo a dare retta a Volpi?
Non è difficile dedurlo: la deflazione che colpì tutti quei medi e piccoli operatori economici ne avrebbe colpiti di meno, o meno duramente, ma li avrebbe colpiti lo stesso. I fallìmenti furono dovuti ad asfissia di contante, ossigeno dell’economia naturale. Il promettente decollo economico del primo quadriennio andò in stallo.
Il “prestigio della Nazione” fu in realtà prestigio di usurai, grandi industriali facenti uso di economie di scala, e gente simile. Per centinaia se non migliaia di imprenditori “Quota 90” fu semplicemente rovinosa.
Il punto comunque è un altro: qualunque cosa si fosse fatta, non si sarebbe per niente sfuggiti alla logica del doppio risultato, che non dipendeva allora, né dipende oggi, da decisioni ad hoc ma dalla doppia natura della moneta, come già visto.
Per avere un’idea di quello che Mussolini avrebbe potuto mettere in opera adottando una lira geselliana nel 1926, vediamo quello che riuscì a fare sei anni dopo un borgomastro tirolese con gli attributi, Michael Unterguggenberger,[4] il cui mezzo busto campeggia ancora oggi a Wörgl nel Tirolo austriaco.
Costui, dopo aver letto e riletto Gesell, lo mise in pratica a fine luglio 1932. Con una manciata di 5300 Schilling a circolazione forzata eliminò la disoccupazione e costruì opere pubbliche per due milioni e mezzo, alla faccia della depressione economica che flagellava il resto del mondo.[5]
Cosa fece “il sindaco dal lungo nome” come ironizzava l’economista americano Irving Fisher (1865-1947)?
Penalizzò la funzione parassitaria di riserva di valore per un 1% mensile, (12% annuale). Lo fece con un duplicato che ebbe l’accortezza di chiamare Certificato di Lavoro, alla pari con lo Schilling. Il Municipio pagava metà di fatture e stipendi con codesti Certificati, e come contropartita li accettava in pagamento di imposte.
I Certificati pertanto circolavano insieme alla moneta di Stato, ma ad una velocità 50-60 volte superiore. I tagli, da 1, 5 e 10 Schilling si potevano prestare a tasso nullo (0%) o accaparrare a un tasso di -12% annuale. Qui è importantissimo capire come funzionava la multa di magazzinaggio, che molti ancora oggi mal chiamano “svalutazione programmata”.
Non vi fu svalutazione di sorta. Un Certificato da 10 Schilling andava fuori corso a fine mese a meno di non incollargli un bollino da 10 pfennig in una delle dodici caselle ivi stampate, acquistabile in Municipio. Il mese seguente lo stesso certificato sarebbe passato da altre mani, così da disperdere il costo di magazzinaggio tra dodici utenti in un anno. Dopo 100 mesi (8 anni 4 mesi) il folle che avesse deciso di tenersi il certificato invece di spenderlo, avrebbe dovuto pagare uno sdoganamento equivalente al suo valore nominale. Ecco cos’era la “svalutazione programmata”. In realtà, in 100 mesi otto-nove certificati da 10 Schilling cadauno avrebbero circolato, facendo muovere beni e servizi per 10 Schilling ad ogni cambio di mano.[6]
Fu una sorpresa generale constatare che la media mensile del circolante si stabilizzò a 5300 Schilling, che cambiando di mano ±450 volte in 14 mesi fece muovere beni e servizi per due milioni e mezzo. Si costruì un ponte sul fiume Inn (ancora in servizio), si asfaltarono sette strade, vennero rinnovati gli impianti di illuminazione e di fognatura, e si costruì perfino un trampolino di salto con sci (Wörgl è una stazione alpina).
Nel frattempo il paesino era divenuto meta di “pellegrinaggio” di schiere di “macroeconomisti” andati a vedere il “miracolo” in prima persona. C’era anche Pound, ma nei suoi scritti appena menziona la Freigeld geselliana.
Dei nomi degli altri non si trova traccia, eccetto che di Irving Fisher, presunto entusiasta dell’idea. Tornato negli USA la mise in pratica. A Wörgl si brontolava che 12% annuale fosse eccessivo, anche doppio del necessario. Fisher adottò un mostruoso 2% settimanale (104% annuale) che fece fallire l’esperimento così da non riaversi più. Fu ottusità mentale o mala volontà? Non è dato sapere. Ma tutti i denigratori della Freigeld di Gesell si rifanno al modello Fisher. Ci sono troppi elementi per dubitare che i “pellegrini” si fossero recati a Wörgl per imparare. È più probabile il sabotaggio, ecco perché da allora fino all’avvento di internet l’esperimento rimase del tutto sconosciuto come rimase sconosciuto Gesell.
Venti di Guerra
Il sabotaggio aveva una ragion d’essere: la guerra. Tutti più o meno la stavano preparando. Duole dirlo, ma il passato di Mussolini era stato bellicista, anche se come semplice recipiente di mazzette britanniche al suo giornale per spingere l’Italia alla guerra.[7] I macroeconomisti “pellegrini” a Wörgl non ci misero molto ad accorgersi che le somme che vi circolavano erano troppo esigue per muovere anche un mozzicone di guerra. Wörgl fu una genuina offerta di pace, respinta dalle forze dell’usura. False offerte della stessa, come Monaco (1938), non furono che prestidigitazioni foriere di quella gigantesca operazione sotto bandiera falsa conosciuta come Seconda Guerra Mondiale. La sfida di Wörgl finì quando la Banca Nazionale condannò l’esperimento dopo un appello inutile. Lo sforzo costò la vita al borgomastro, che nel 1936 soccombeva alla tubercolosi contratta a causa degli stenti sofferti durante la depressione del 1907-1908.
Gli storiografi incastonati danno la colpa della guerra ai “dittatori”. Chi capisce la questione monetaria, come Ezra Pound, li sdoganava entrambi, puntando il dito nella direzione giusta:
Questa guerra non è stata causata dai capricci di Mussolini, o di Hitler. Questa guerra fa parte della guerra di secoli tra gli usurai e chiunque lavora onestamente, sia manualmente che intellettualmente”.[8]
Mutatis verbis, era lo stesso punto di Lord Acton di 70 anni prima.
Unterguggenberger non fu il primo a mettere in campo la moneta franca di Gesell. Era stato preceduto nel 1930 da Herr Hebecker, il padrone di una miniera di carbone a Schwanenkirchen in Baviera. Costui emise i buoni Wära, con i quali pagava i 40 dipendenti, e che poi accettava in pagamento di carbone. L’economia del paesino di 500 abitanti ebbe una ripresa eccellente, attraendo la malaugurata attenzione del Cancelliere Brüning. Con un paio di decreti liberticidi -nonché guerrafondai- costui si sbarazzò di  Schwanenkirchen richiamando in Germania disoccupazione e povertà.
C’è da chiedersi: se 4000 anime con a capo un borgomastro di visione e di azione, e un gruppuscolo di casolari organizzato dal padrone di un giacimento di carbone riuscirono a fare quello che fecero, cosa non avrebbero potuto fare 40 milioni di Italiani guidati dal solo statista degno di quel nome in 150 anni?
Si può solo speculare, ma realisticamente. Prima a sparire sarebbe stata la disoccupazione, presto sostituita da scarsezza di manodopera. Con lavoro per tutti, sarebbe sparito ogni prurito di spargere sangue per andarsi a cercare “un posto al sole” lontano un ottavo di circonferenza terrestre. 
E chissà che nel constatare il benessere italiano, Haile Selassie non si fosse ricordato del suo predecessore Dawit I (1382-1413), che nel XV secolo voleva importare maestranze veneziane in Etiopia. Ne sarebbe scaturita una benvenuta collaborazione (etimologicamente = lavoro insieme) invece di una vicendevole distruzione di cui si beneficarono solo le forze dell’usura.
Prestiamo ora attenzione alla Germania. Nel 1926 Hitler era sconosciuto, ma non Gesell, il cui libro era alla quinta edizione, e che stava ispirando vari Hebecker e il borgomastro “dal lungo cognome”. Funzionava colà da anni il partito Nazional Socialista dei fratelli Gregor e Otto Strasser, bene organizzato, solvente e con due periodici, con crescente popolarità ma scarso di fondi.[9]
Hitler lo rilevò con i soldi del banchiere von Schröder rappresentante dei Rothschild ad Amburgo, lo rinominò Nazionalsocialista, ne ridusse i punti programmatici da 25 a 18, e dopo essersene servito lo annientò a rivoltellate la notte del 30 giugno 1934.[10]
Hitler non voleva la pace. Tre mosse chiave lo rivelano senza ombra di dubbio. La prima, che non appena arrivato al potere dichiarò l’Ordine Economico Naturale letteratura proibita. L’ultima edizione anteguerra risaliva al 1931, e la prima postguerra dovette aspettare fino al 1949. La seconda mossa fu la “notte dai lunghi coltelli” appena vista: i Nazional Socialisti degli Strasser non erano bellicisti; si aspettavano, ingenuamente che Hitler desse loro posti di responsabilità come ricompensa per averlo fatto eleggere.  E la terza, sconosciutissima in Italia, fu la taglia di due milioni di dollari sulla testa di Otto Strasser, sfuggito alla strage con una fuga rocambolesca che dalla Germania lo portò in Canada nel 1942.
A questo punto non sorprenderà nessuno leggere che la persecuzione hitleriana di Otto Strasser fu rilevata dal democraticissimo Canada, che a guerra finita gli impedì di rimpatriare con artifizi burocratici da far verde di invidia un Machiavelli. Gli permisero –bontà loro- di ritornare in Germania nel 1956, quando colà le redini del potere erano già saldamente nelle fauci dei soliti cagnolini da salotto.[11]
Una lira italiana franca[12] geselliana, tirando il tappeto da sotto i piedi a Schröder e compari d’oltre Manica e d’oltre Atlantico, avrebbe consegnato la seconda guerra alla pattumiera della storia un buon decennio prima che scoppiasse.
  Per quantificare quello che avrebbe potuto fare l’Italia, basta moltiplicare per diecimila (quattro ordini di grandezza) i successi di Worgl: 70mila km di viabilità stradale e/o ferroviaria, 10mila ponti o infrastrutture equivalenti, 20mila km di fognature o strutture equivalenti, energia elettrica nei paesi più sperduti, e installazioni sportive a volontà. Con il paradigma economico spostato dall’usura al lavoro non ci sono limiti al fattibile eccetto l’immaginazione.
Ma così non fu.  Non ci vuol molto a vedere come nessuno delle nullità che ha governato (si fa per dire) la Penisola dal 1945 ad oggi abbia per un momento pensato, se mai ne avesse avuto sentore, a una Lira Franca. Moro fu l’unico che osò emettere moneta di Stato nella forma del bigliettino che sostituì quel capolavoro di numismatica che fu il pezzo da 500 lire emesso negli anni Cinquanta. Si dice in Rete che il suo assassinio fosse dovuto a quella mossa. Non lo si può né affermare né negare, ma una cosa è certa: solo una moneta franca è in condizione di debellare l’usura, e con essa la guerra. Quando si tenta di farlo con la moneta portavalore di Creso si va incontro a una sicura disfatta.
Dove stiamo andando?
Dove aveva predetto Gesell nel 1918: verso una terza guerra. Quando la funzione esponenziale dell’interesse composto interseca quella lineale della crescita industriale, ne segue inevitabilmente che l’unica industria capace di tener testa al pagamento di interessi è quella bellica, dove si costruisce con il preciso scopo di distruggere. Ogni aereo che si schianta in  fiamme, ogni missile che semina morte e distruzione, ogni vascello da guerra che affonda, ogni proiettile che lascia la canna dell’arma da fuoco, vada a segno o no, sono “lauti profitti” per i mercanti di morte. Cosa si può fare?
Con gli uomini politici, lo abbiamo visto: niente. Chi più chi meno, erano tutti guerrafondai quelli che si videro offrire la pace su un vassoio a Wörgl nel 1932-33. Gli unici che recepirono il messaggio di Gesell e lo misero in pratica furono uomini di pace: un ingegnere minerario e un sindaco, che a non venire bloccati dal Leviathan statale erano li li per capitanare una folla ragguardevole di seguaci. Mammona li battè sul tempo.
Non è per niente certo, ma anche oggi è ragionevole assumere che lo stesso tipo di uomini potrebbero duplicarne le gesta.
L’Italia ha ottomila comuni con altrettanti sindaci. È proprio possibile che non ve ne sia uno, dico uno, con gli attributi di Michael Unterguggenberger? Oltre alla visione e spirito di azione, di cosa avrebbe bisogno? Vediamolo.
1.      Consapevolezza dell’esistenza di numerose monete complementari già operanti in Italia e all’estero. Il  campionario è sufficiente per scegliere quale modello adottare;
2.      Suddivisione di lavoro, sola condizione che giustifichi l’emissione di una moneta; detta suddivisione sarebbe automatica in un comune semi-rurale di 20-40mila abitanti (cinque-dieci volte Wörgl);
3.      Detta moneta servirebbe esclusivamente l’economia municipale; fuori di essa si continuerebbe ad usare la moneta nazionale, o l’euro.
4.      Unione compatta sindaco-popolo, senza mediazione di partiti o di sindacati, i cui interessi non coincidono con il bene comune; in parole povere buon governo.
5.      Impartire istruzioni particolareggiate a tutta la popolazione prima di lanciare lo schema; o la cosa riesce di primo acchito o non più.
C’è solo da sperare e pregare che il contagio infetti quante più località possibile, espandendosi a macchia d’olio per tutto il territorio nazionale e oltre. L’Italia rimarrebbe espressione geografica; gli Italiani farebbero da nazione guida al resto del mondo, restaurando la gloriosa epoca dei liberi Comuni.
Silvano Borruso
19 gennaio 2016



[1] Ministro delle Finanze di Luigi XIV (1638-1715).
[2] La cifra del tasso non è importante. Basta che sia non tanto bassa da incoraggiare l’incetta e il tesoreggiamento dei biglietti, e non tanto alta da scoraggiarne l’accettazione. Può anche essere mensile, o bimestrale.
[3] Tutti i lavori consultati danno Zeitung am Mittag come fonte, ma senza data oltre l’anno.
[4] 1884-1936. Oggettivamente si tratta dell’uomo politico più importante del secolo XX.
[5] Ma non la Cina, che si era guardata bene dall’adottare la superstizione di Creso.
[6] Come punto di riferimento, il mensile del borgomastro era di 1800 Schillling.
[7] 1915. La storia di come i britannici ricattarono l’Italia facendole voltare gabbana esula da questo scritto.
[8] Ezra Pound, L’America, Roosevelt e le cause della guerra in corso, Venezia 1944.
[9] Il partito originale era stato fondato da Thomas Masaryk (1850-1937) nel 1887 in Boemia, allora parte di Austria-Ungheria. Era un partito di ispirazione cattolica con un programma di 25 punti. Il termine “Nazional Socialista” fu scelto in opposizione a “Internazional Socialista”, di ispirazione giudaica come tutti i movimenti anti nazionali.
[10] Secondo Douglas Reed (1895-1976), inviato speciale del Times di Londra in Europa Centrale (1921-1938), le vittime furono 1200, non “circa 85” come piamente recita Wikipedia.
[11] Chi vuole approfondire scarichi The Prisoner of Ottawa di Douglas Reed. Non vi è versione italiana.
[12] Per “franca” si intende libera da debito e da interesse composto (usura).