lunedì 4 marzo 2013

I DIVERSI PERCHE’ DEL SUCCESSO DEL GRILLISMO

A mio avviso il recente risultato elettorale si spiega facilmente se si accetta di correggere due gravissimi errori interpretativi che sono stati fino ad oggi compiuti sistematicamente dall’intera sinistra occidentale, a dispetto della loro elementarietà. Errori che richiamandosi a vicenda danno una apparente logicità che, in realtà, non sussiste, e, infatti, viene smentita dai risultati elettorali, ma, ciò nonostante, non viene colta per intervento di un tipico errore psichico umano, la stereotipia, ovvero, di fronte all’insuccesso, la tendenza a ripetere il medesimo errore logico in quantità crescente anziché coglierlo e prendere la direzione opposta. Un po’ come quando non riusciamo ad aprire la serratura della porta di casa nostra e invece di controllare se non abbiamo per caso sbagliato la chiave, forziamo la serratura fino a romperla. Vediamoli:

A)il primo gravissimo errore che è stato sistematicamente commesso in tutti i decenni passati sia dalla sinistra storica che da quella di area, consiste nel credere che la sinistra possa vincere solo proponendo ai moderati un programma di centro-sinistra, ossia moderato, e non un programma progressista. Meno che mai uno rivoluzionario.

B)questo errore non sarebbe così tragico se non si associasse ad un altro ancor più grave errore: non accorgersi che invece di proporne uno moderato se ne sta proponendo in realtà uno fortemente reazionario.

Orbene, un programma è reazionario, moderato, progressista o rivoluzionario non perché lo si chiama così, ma solo se lo è nei fatti. Purtroppo, per ragioni che mi sfuggono, da almeno 40 anni si insiste a ritenere moderato un programma che propone, per limitarmi qui alla disamina delle proposte più sfacciatamente reazionarie, la indiscutibilità della spaventosa sperequazione distributiva attuale quale condizione necessaria per la sopravvivenza del sistema, e, quindi, di tutti, e, nel contempo, l’idea “sorella” che si possa distribuire socialmente solo ciò che prima si è prodotto grazie alla massima efficienza produttiva possibile da conseguire, a sua volta, esclusivamente sul fronte del costo del lavoro.

Ne discende infatti la accettazione:

1)della idea imperialistica e antisociale che si debba cercare di comprimere indefinitamente retribuzioni, welfare e civiltà del lavoro al “lodevole” fine di esportare nei paesi “fratelli”, insieme ai propri beni e servizi, anche tutta la disoccupazione e tutti i fallimenti che inevitabilmente comporta la mancata produzione nazionale di quanto viene soppiantato dalle proprie esportazioni;

2)della più infame detassazione dei ceti possidenti;

3)della insensata indiscutibilità degli alti interessi creditizi, degli alti premi assicurativi e, in genere, delle alte tariffe e degli alti prezzi fissati dai cartelli, nonché degli alti canoni locatizi;

4)dei paradisi fiscali e della ambigua tolleranza verso la grande evasione, dietro il paravento del giustizialismo verso tutta la evasione, inclusa quella “stracciona”, ovvero di quelle partite-IVA che evadendo portano a casa si e no 1000-1500 euro al mese, o anche molto meno, com’è, ad esempio per le lezioni private e per le prestazioni dei “lavoratori della domenica” (idiozia giustizialista responsabile della imperitura frattura tra i lavoratori dipendenti e quelli autonomi, su cui fondano buona parte delle loro fortune elettorali la destra sociale e il berlusconismo);

5)di un ingenuo terzomondismo di estrazione catto-comunista che vuole accogliere senza limiti gli immigrati senza accorgersi che la tolleranza verso la immigrazione selvaggia è solo irresolutezza verso il crumiraggio internazionale voluto dai reazionari insieme alle delocalizzazioni selvagge per abbassare il prezzo della vita in Italia e smantellare il più velocemente possibile retribuzioni, welfare e civiltà del lavoro (facendo una seconda volta la fortuna di chi pesca senza scrupoli nella xenofobia più becera);

6)di un ambiguo garantismo che travalica i giusti limiti imposti dalla civiltà giuridica fino a divenire irresolutezza connivente verso la criminalità organizzata e, soprattutto, verso le corruttele politico-amministrative che si dice di volere debellare, senza poter essere creduti a causa della genericità dei mezzi suggeriti, oltretutto marchianamente smentiti dal troppo voto di scambio e dalla realtà della fitta rete di clientele partitiche e sindacali legate al sottobosco governativo nazionale e locale (facendo per la terza volta la fortuna di chi pesca senza scrupoli nel giustizialismo più becero e forcaiolo, con l’unico limite dell’essere anch’essi ambiguamente inseriti nella medesima rete di clientele);

7)in definitiva, la accettazione, in nome di un malinteso senso della “modernità”, delle più indigeste regole del pensiero liberista, il così detto Pensiero Unico in economia, quali la globalizzazione più estrema, e, quindi, la più assoluta deregulation borsistica, a dispetto della palese ingiustizia e della estrema nocività della speculazione finanziaria, e la più assoluta deregulation valutario-doganale, a dispetto della continua e tremenda fuoriuscita dall’Italia di tantissime aziende, e, parallelamente, della invincibile concorrenza, palesemente “sleale”, delle imprese delocalizzate che producono sottocosto nel massimo dispregio della natura e dell’uomo con la pretesa di esportare poi nei tradizionali mercati del nord capitalistico il 95% della produzione così conseguita, con gravissimo danno delle imprese nazionali, (per l’ennesima volta, a vantaggio di chi mescola senza scrupoli xenofobia e nazionalismo).

Nel contempo, la sinistra più estrema rifiuta in toto il capitalismo senza però discutere “scientificamente” questi assiomi, non ritenendo che meriti interesse occuparsi del funzionamento concreto di un sistema che reputa guasto dalle radici e ormai decotto, cogliendo a sproposito, e messianicamente, in ogni crisi, piccola o grande che sia, gli immancabili segni del suo prossimo e agognato crollo per effetto della marxiana caduta tendenziale del saggio di profitto.

Conseguentemente, quando chiede ridistribuzione sociale lo fa con motivazioni esclusivamente etico-politiche, e, dunque, senza minimamente mettere in dubbio la tesi liberista che così facendo si accelererebbe quel crollo del capitalismo che i più temono e che solo loro agognano, con ciò stesso agevolando la destra reazionaria che si nasconde dietro il moderatismo della UDC e dei montiani, e perfino il “voto utile” che inchioda il PD alla sua suicida posizione reazionaria.

E purtroppo, così non si coglie l’alleanza storica oggi in atto tra la rendita creditizio-finanziaria e l’extra-profitto oligopolista, da una parte, contrapposti all’intero mondo del lavoro, costituito dalle piccole e medie imprese e dai lavoratori. Non si coglie cioè la realtà storica, economica e sociale della irriducibile contrapposizione di classe tra la rendita dei trust finanziarizzati (data dalla somma della rendita creditizio-finanziaria con l’extraprofitto da incetta, quello “da oligopolio” delle multinazionali), interessata alla deflazione recessiva e regressiva indefinita, da una parte, ed il profitto marxiano (quello “da ricarico” della piccola e media impresa e della piccola borghesia autonoma), unito alle retribuzioni da lavoro dipendente, interessati alla espansione keynesiana in regime di inflazione “controllata” e vincoli borsistici, valutari e doganali, dall’altra.

E’ per questo complesso di equivoci che né la sinistra di area né quella “storica” colgono la assoluta necessità tattica di conseguire la unità dell’intero mondo del lavoro in funzione anti-rendita e commette il più tragico degli errori scientifici, quello di rifiutare il keynesismo, l’unico armamentario scientifico che pur consentirebbe di bloccare la deflazione recessiva e regressiva che da ormai 30 anni sta rapidamente distruggendo l’economia mondiale a partire dalla sua tradizionale roccaforte, quell’occidente capitalistico che si era dato la eccezionale forma giuridica delle socialdemocrazie uscite dalle macerie della seconda guerra mondiale.

Così facendo, pertanto, si fa solo il gioco della rendita creditizio-finanziaria internazionale e delle multinazionali, e della fascia più alta dei ceti possidenti, loro naturali alleati, e si rimanda continuamente nel tempo ogni chance di cambiamento.

Perché stupirsi, allora, se buona parte dell’elettorato di sinistra, sia progressista che rivoluzionario, è profondamente disorientato tra la accettazione supina dei principi del liberismo, esplicita (da parte della sinistra storica) e implicita (da parte di quella di area), e, di fronte alla prospettiva di scegliere tra le politiche reazionarie della sinistra “liberista” e le promesse messianiche di una palingenesi socialista o pseudo-tale di cui nessuno riesce a delineare con un minimo di precisione le linee guida, memore delle delusioni del socialismo “reale”, vota solo in piccola parte le forze di “testimonianza socialista” e finisce per rifugiarsi a preferenza nel non-voto, convergendo per il resto, rassegnato, sul voto-utile? 

Perché stupirsi, ancora, che sia i progressisti che i moderati pensino che dalla sinistra di governo ci si può attendere solo l’accettazione supina delle antisociali ricette liberiste della Troika, e, dunque, il permanere della attuale abnorme sperequazione distributiva, l’aumento indefinito di disoccupazione e decozioni, con, al massimo, una parziale tenuta di un welfare che, però, sarà sempre più “straccione” e “maneggione”?

E poi c’è il nodo difficilissimo da sciogliere di quei moderati che sono fortemente meritocratici, e pertanto ostili verso ogni forma di appiattimento dei meriti, sia quando avviene per effetto della arroganza di chi “ha i soldi”, com’è quando nel capitalismo la rendita prende il sopravvento sul profitto “da ricarico”, sia quando avviene per il prevalere di scelte politiche collettivistiche, com’è nel socialismo “reale”. Costoro provano in prevalenza ostilità/diffidenza sia verso la prassi sindacale delle rivendicazioni “orizzontali” anziché premiali della professionalità, sia verso tutto ciò che è pubblico, e, ancora, se non lo sono esse stesse, quanto meno simpatizzano per le partite-IVA. Gli errori politici costantemente ripetuti dalla sinistra nei loro confronti li ha sino a ieri cacciati a forza tra le braccia della destra sociale e della destra berlusconiana, non perché siano loro simpatici i trust e i colossi bancari o la finanza, verso cui il berlusconismo è troppo accondiscendente, o perché siano forcaioli e xenofobi, ma solo perché dovendo scegliere tra un mercato in cui prevale la rendita e un sistema pianificato, finchè nessuno propone una terza soluzione, scelgono obtorto collo il secondo. 

Il quadro si fa ancora più intricato nel momento in cui si nessuno si batte davvero contro la speculazione finanziaria e contro i trust, contro le delocalizzazioni e contro la concorrenza “sleale” delle multinazionali delocalizzate, per uno sviluppo economico che non sia basato sul modello liberista “bassi salari + esportazioni”, proponendo invece alternative scientificamente credibili all’attuale architettura creditizio-finanziaria e all’Europa di Maastricht.

In queste condizioni, la diffusa ostilità verso i “sacrifici” sostenuti dai montiani e dalla Troika e la diffusa convinzione che queste politiche siano di fatto fallimentari, assume la forma prepolitica di un antieuropeismo ingenuamente nazionalistico, mentre i tempi sarebbero invece ormai maturi per il successo di quella forza politica che avanzasse un diverso modello capitalistico e un diverso progetto di Europa. Anzi, nell’assenza di modellizzazioni keynesiane, o quanto meno di fronte alla scarsissima diffusione presso scienza, media e politici di questo genere di posizioni, sostenute solo pochi Nobel e da bloggers, si assiste alla fuga nel fantastico con un fiorire di visioni neobucoliche e malthusiano-ecologiste che alzano l’asticella oltre ogni limite, proponendo salti nel buio quali l’abolizione del denaro, il ritorno a piccole imprese indipendenti con stato quasi inesistente e simili, nonché l’idea, in realtà geniale nella sua accezione keynesiana (v. appresso), della “decrescita felice”.

Tendono così a convergere in modo assai atletico chi è ormai rassegnato a un lento quanto inarrestabile declino del capitalismo e tenta quindi soltanto di salvare il salvabile, e chi spera che così si possa compatibilizzare la società moderna con i fermi limiti imposti dalla natura e della limitatezza delle risorse non rinnovabili, entrambi schieramenti “stranamente” favoriti mediaticamente dalla elite creditizio-finanziaria e multinazionale, il cui intento, invece, è solo quello di fare meglio digerire, senza una vera opposizione sociale, quella ridistribuzione sempre più sperequata di un PIL “reale” in continua contrazione recessiva, che è causata esclusivamente dalle politiche liberiste. 

Nella crisi, peraltro, si scontrano in modo caotico pure le istanze più o meno becere e prepolitiche di tipo giustizialista, xenofobo e neonazionalistico, mentre cala velocemente l’appeal delle forze “responsabili”, accusate a ragione di essere, da un lato, responsabili del continuo peggioramento della situazione economica, e, dall’altro, non credibili per il loro palese coinvolgimento organico nella piramide delle corruttele politico-amministrative.

Il risultato pratico è stato fino a ieri la crescita dell’area del non-voto, con divisione dell’offerta politica tra le posizioni liberiste tradizionali e quelle della sinistra “storica”, liberista anch’essa, entrambe reazionarie nella sostanza, e crescita, laterale al voto “utile”, ancora minoritaria ma sempre più estesa, di una indistinta sinistra ecologista e anti-consumistica in lenta via di strutturazione.

Questo fino a ieri. La novità sta nell’affermarsi di un movimento che si sta sempre più nettamente delineando come sensato e non estremo, sinceramente democratico e solidale, diffidente verso la scienza “ufficiale” e attento ai blogger, nonché giustizialista in termini non violenti né beceri, contrarissimo alla attuale abnorme sperequazione distributiva, desideroso di riformare in senso meritocratico la Pubblica Amministrazione, fiducioso verso uno stato sinceramente democratico che interviene nella economia per contenere gli eccessi di un liberismo ormai scientificamente del tutto screditato, ecologista in modo ragionevole, pacifista e desideroso di equi rapporti economici internazionali, sinceramente desideroso di risolvere la fame nel mondo e di accogliere la immigrazione, ma solo con le dovute garanzie retributive e di welfare, recuperando le risorse con la ridistribuzione sociale a scapito della “politica”, della grande rendita e della fascia alta dei ceti possidenti.

Un movimento di respiro transnazionale che disegna una Europa “dei popoli” in luogo della Europa “della finanza” nata a Maastricht.

Un movimento che, alla luce di quanto detto, è potenzialmente largamente maggioritario, avendo il merito di destrutturare le vecchie aggregazioni ideologiche e riaggregarle in un nuovo polo sinceramente e ragionevolmente progressista, rinnegando la maggior parte delle posizioni della destra e della sinistra non largamente condivisibili.

A meno che irrigidimenti più o meno spontanei anzichè prezzolati affossino la democrazia facendoci degenerare nella guerra civile o nella reazione militare, questa è la via che consentirà finalmente di uscire dalla crisi e creare un mondo migliore, oggi, all’inizio di questo terzo millennio.

L’Italia è il laboratorio politico in cui sta nascendo il “nuovo”, ma il mondo intero ci guarda perché sono comuni a tutti i temi che stiamo dibattendo, e poichè le soluzioni che elaboreremo saranno quasi certamente buone anche per gli altri, sarà pure inevitabile e rapida la estensione del “contagio”.

E’ altresì vero che la elite creditizio-finanziaria e le multinazionali non resteranno a guardare, così com’è pure vero che possono contare su quantità inesauribili di moneta, ma il crollo del loro sistema di potere dipenderà essenzialmente dalla nostra capacità di egemonia, laddove cinque grandi forze lavorano insieme a noi per il crollo: 

1)le forze produttive capitalistiche, che premono oggettivamente per la loro liberazione dalle pastoie deflattivo-recessive care solo alla elite e alle fasce alte dei ceti possidenti, forze materiali che stimolano le forze sociali capaci di operare questa liberazione (maestranze e imprese esterne rispetto al “club” dei trust finanziarizzati) e che insieme a queste ultime cercano continuamente quell’involucro ideologico che possa ricoprire questa lotta, involucro che plausibilmente sarà l’antiliberismo “scientifico” di stampo neokeynesiano e decrescista;

2)la necessaria territorialità “fisica” delle unità produttive, incluse quelle della elite, che, a dispetto della sua ultranazionalità, rende quasi impossibile la loro difesa dall’esproprio democratico; 

3)l’assoluta immaterialità del denaro e la sua natura necessariamente fiduciaria, che consente la facile distruzione per legge di qualsiasi potere, qual è quello della elite, che si basi quasi esclusivamente sulla moneta, attraverso la riconquista della sovranità monetaria;

4)la mancanza assoluta di una “necessità” materiale del potere della elite ai fini della riproduzione del sistema capitalistico, stante la assoluta sufficienza allo scopo dei managers privati e pubblici: 

5)la palese incapacità della esigua classe dei managers internazionali di impedire senza il consenso popolare l’ascesa dei nuovi managers appoggiati dagli stati democratici.

E’ doverosa a questo punto qualche precisazione intorno alla struttura attuale del potere dei managers che, in Italia come all’estero, si sono gradualmente emancipati da ogni proprietà, sia nelle tante imprese, spesso enormi, ad azionariato diffuso, sia in quelle controllate da fondazioni non riconducibili a specifici e individuati privati, e dunque anch’esse prive di effettivo referente proprietario. Dirigenti ormai indipendenti e autoreferenti che agiscono in un vuoto di potere che nemmeno gli stati hanno la forza e l’intelligenza di ricoprire.

Il loro potere si è andato strutturando nel tempo in una rete di relazioni che li lega alle università da cui escono i managers di domani e che “pompa” la ideologia liberista e le idee in genere giustificative della attuale architettura creditizio-finanziaria, coinvolgendo i media, i politici e gli alti quadri della pubblica amministrazione e delle imprese economiche pubbliche in un sistema di favori, reciproci come asimmetrici, che in parte si autoalimenta e che per la parte restante è foraggiata con parte del denaro altrui che quei managers gestiscono.

Non è un potere piramidale, ma un potere che opera per gruppi di pressione, per potentati locali e transnazionali, per conventicole, “quasi-feudale”, attraversato da strutture associative culturali, sindacali, confessionali e perfino esoteriche. Un potere dove la “politica”, ad esempio in Italia dal ’92 ad oggi, ha contato veramente poco, svuotata anche dalla perdita progressiva di ogni senso di responsabilità e del servizio, dove si ruba fino all’ultimo momento che precede l’arresto e dove managers possono accumulare ricchezze in danno alle istituzioni che dirigono nella massima impunità ed anzi migrando da una dirigenza all’altra con doviziosissime buone uscite ed essendo perfino promossi.

Il liberismo più estremo, quello bocconiano, è l’immaginario che giustifica il loro ruolo “sacerdotale” (insieme agli “esperti” finanziari) di questo “credo”, e, insieme, la rispondenza all’interesse collettivo del loro potere e della loro sempre più alta remunerazione, così come più in generale la distribuzione sempre più sperequata di un PIL che è in caduta libera a causa delle misure deflattive suggerite/imposte dal Pensiero Unico in economia, che maggiorano continuamente la “fetta” che va all’1% più ricco mentre fanno calare continuamente la “torta” comune da dividere. 

E’ tempo di cambiare e uscire dalla crisi ridando impulso ai consumi pubblici e a quelli privati delle fasce medio-basse, calmierare gli interessi bancari pubblici e privati e ridiscutere i vincoli comunitari.    

E’ tempo, dunque, che entrino in campo gli antiliberisti “scientifici”, sia per mostrare a tutti la assoluta inconsistenza scientifica del pensiero liberista e delle sue ricette deflattivo-recessive, sia per mostrare le opportune riforme da apportare alla architettura creditizio-finanziario-doganale, necessarie per operare una riproduzione/espansione keynesiana basata sui rispettivi mercati interni in regime di pareggio tendenziale dei vari export-import.

La parola passa oggi dai “dotti” liberisti agli scienziati neokeynesiani e ai bloggers antiliberisti, ed il grillismo è uno schema ideologico-politico che bene si attaglia ad esso. E viceversa. Ma non è l’unico.

Andrebbe benissimo, infatti, anche una sinistra progressista, riformista, antiliberista, neokeyneisana, solidarista e meritocratica, quale potrebbe/dovrebbe essere SEL, ad esempio, o qualunque nuova forza europea analoga.

La sinistra liberista, invece, formalmente riformista ma sostanzialmente reazionaria, e così pure il berlusconismo e il centro democratico, liberisti e reazionari anch’essi, non hanno nessun futuro, ormai.

Nella riaggregazione gestaltica dei valori che si profila, tutto il quadro ideologico-politico va peraltro a modificarsi radicalmente, ed è altamente probabile che sparirà pure ogni vecchia distinzione tra destra e sinistra.

Ma non è mai facile indovinare il futuro, almeno per i contemporanei.Questo è il fascino della “diretta”, del resto.


Nando Ioppolo