LEGGI ECONOMICHE,
ETICA E PARADOSSI
C’È VIA D’USCITA?
(Di Silvano Borruso –
modificato da Economic Law, Ethics and
Paradox -Is there a Way out? American Journal of Political Economy www.arpejournal.com March 2005)
Sommario
Perché
l’economia venga considerata come scienza sociale, una sua analisi deve
cominciare con la verità delle cose, per continuare con la virtù della
giustizia, e finire con mettere, ciascuno al suo posto, gli approcci a questa
scienza degli ultimi 200 anni: liberale, marxista, austriaco, ecclesiale e
georgista-geselliano.
Il
ragionamento che segue fa perno sulle questioni fondiaria e monetaria, che
l’economia moderna si ostina ad ignorare. Il disordine rampante nel quale ci si
dibatte non può che esserne
l’inevitabile conseguenza.
Lo
Stato moderno ha perduto l’indipendenza, finanziaria e politica, a vantaggio di
interessi creati che sono riusciti a tenere segrete entrambe le questioni. Le
soluzioni convenzionali dei vari problemi economici si sono rivelate immancabilmente
difettose per la stessa ragione.
Due
uomini, nessuno dei quali economista di professione, affrontarono quei problemi
e li risolsero: Henry George (1839-97) e Silvio Gesell (1862-1930). Le loro
soluzioni: Terra e Moneta Franca, capaci di metter fine alla terratenenza e
all’usura, e con esse a una oppressione multisecolare. Non v’è dubbio che gli
oppressori continueranno ad opporre resistenze ad oltranza a codeste soluzioni.
Introduzione
Dopo il
licenziamento dal Fondo Monetario Internazionale nel 1999 per averne denunciato
le politiche, Joe Stiglitz, ex economista-capo di quella venerabile
istituzione, ricevette il Premio Nobel per l’economia[1] nel 2001. La motivazione? L’aver spiegato
come funzionano i “mercati asimmetrici”,
i mercati cioè dove operano personaggi che la sanno più lunga di altri. Se
fosse esistito il Premio Nobel ai tempi di Esopo, la volpe che fece parlare il
corvo per rubargli il cacio che portava nel becco ne sarebbe stata un candidato
di prima classe.
L’uomo e il Nobel
sono emblematici del disordine economico che si spande senza sosta dai tempi di
The Wealth of Nations. Gli ultimi 200
anni sono stati testimoni di quello che possiamo chiamare “paradosso Stiglitz”:
da un lato cattedre di economia, professori di ruolo, prestigiosissimi libri di
testo, riviste di grande erudizione, e migliaia di tesi di dottorato
(pubblicate o no) per finire con il Nobel (dal 1969); dall’altro, l’economia
del mondo reale, sofferta in carne viva da folle sconfinate di uomini, donne e
bambini. Qui la povertà regna accanto all’opulenza; la disoccupazione mostra la
sua brutta faccia accanto al fabbisogno di manodopera; il divario tra ricchi e
poveri aumenta di giorno in giorno; e il flagello della guerra e del terrorismo
va a braccetto di una costante diminuzione delle libertà personali ad opera di
uno Stato che indebitamente e oppressivamente si intrufola negli affari
personali e domestici.
Aggiungiamo che
gli economisti che osano fare “previsioni” si vedono smentiti senza fallo dai
fatti, e né università né dipartimenti governativi osano licenziarli come
farebbero se si trattasse, diciamo, di ingegneri o di ragionieri. Ecco alcuni
esempi:
“Appena
un anno prima, degli alti funzionari del FED (economisti per lo più) fecero
predizioni per il 1994. La crescita avrebbe dovuto essere secondo loro del 3 -
3,25%; l’inflazione, un 3%; la disoccupazione a fine d’anno, tra il 6,5 e il
6,75%. Di fatto l’economia crebbe del 4%; l’inflazione fu solo del 2,75% e la
disoccupazione scese al 5,6% [...] Gli economisti di tutte le scuole sono
riusciti ad illudere la gente esagerando il potere delle loro idee.”[2]
“I
pronostici economici sono pericolosi quando vengono pubblicati e creduti – ma
ancora più pericolosi quando non vengono pubblicati ma creduti lo stesso.”[3]
“Il
problema vero è che l’operazione è disonesta; gli economisti non hanno gli
strumenti per predire gli effetti di una riduzione fiscale di 35 miliardi su
un’economia di sette mila miliardi.”[4]
“Pagina
dopo pagina, i periodici economici sfoggiano formule matematiche che portano il
lettore da una congerie di presupposti più o meno plausibili a conclusioni
articolate con precisione ma del tutto irrilevanti.[5]
L’Ordine Economico Naturale
Nei suoi termini
minimi, un ordine economico naturale esiste dove chi lavora mangia, e chi non
lavora o si arrangia per farsi portare il cibo dalle cornacchie[6] o
fa la fame. Un ordine economico naturale fa perno sui cardini della produzione
e distribuzione di ricchezza.
Terra, lavoro e materie prime sono i fattori di produzione di ricchezza. Il
lavoro può produrre capitale se glie
lo si permette.
Esiste una
pletora di mezzi che distribuiscono ricchezza: il commercio, le leggi,
specialmente fiscali, e una varietà praticamente infinita di patti e
consuetudini sociali: stipendi, doni, offerte, furti, ricatti, privilegi
ingiusti, frodi, il gioco d’azzardo, e numerosissimi altri escogitati durante i
secoli da chi tenta –e malauguratamente riesce- a vivere a spese altrui.
Tutto quanto
sopra viene facilitato (od ostacolato secondo i casi) dal denaro, eccellente
invenzione dello spirito umano la cui storia può leggersi altrove.[7]
Si cominci col
notare che mentre le leggi di produzione di ricchezza sono necessariamente
leggi fisiche, quelle di
distribuzione sono necessariamente morali,
cioè conseguenze di decisioni umane libere e responsabili (o irresponsabili
secondo i casi). L’indagine economica finisce con il verificare dove va a
finire la ricchezza prodotta. I fattori di produzione: terra e lavoro (con o
senza) capitale agiscono ora come ricettacoli di distribuzione. Ma guarda caso,
a questi si aggiunge il denaro, che non era presente tra i fattori di
produzione. Come ciò avvenga verrà trattato nella sezione sulla Questione
Monetaria.
Un ordine
economico naturale dovrebbe quadrare con
- La verità delle cose. La verità, definita come adaequatio intellectus et rei[8]
deve essere, come in un tribunale di giustizia, totale e senza orpelli.
- La giustizia, come volontà
costante di dare a ciascuno il suo”.[9]
È quindi ingiusto non solo non dare il dovuto, ma anche il dare il non
dovuto.[10]
- La libertà di prendere decisioni economiche a
tutti i livelli, prima di tutte se lavorare in proprio o per conto altrui.
- La solidarietà.
La natura umana di “animale politico” richiede solidarietà, cioè una dipendenza volontaria che lungi
dal limitare la libertà, la migliora. Si tratta di uno dei tanti paradossi
della vita dello spirito.
- La sussidiarietà,
cioè il principio che trascende tanto la libertà quanto la solidarietà,
portandole a convergere. Senza
di essa, libertà e solidarietà divergono: la prima degenera in
liberalismo, la seconda in collettivismo.
Anche una rapida
occhiata ai cinque punti di cui sopra mostra che oggi non esiste “ordine”
economico di cui valga la pena parlare, non diciamo poi “naturale”. Esiste
invece un disordine di proporzioni colossali, alla cui radice sta l’abdicazione
della sovranità statale: della terra, lasciata ai terratenenti, e della moneta,
lasciata all’alta finanza.
Parecchi si
illudono ancora che Banca Centrale e governo la facciano da placidi buoi che
tirano del carro dell’economia, con il popolo che fa da cocchiere, gentilmente
pungolando le due bestie perché tirino il carro nella direzione giusta.
In realtà è il
popolo a fare da bestia da soma. La Banca Centrale è il cocchiere e il Governo
la frusta, con la quale lo Stato “governa” (se è la parola giusta) la bestia
per mezzo di politiche, specialmente fiscali, non sempre confessabili.[11] Le banche commerciali la fanno da mosche
cavalline che pungono il bue-popolo nelle parti tenere.
Il resto del
saggio verrà dedicato a provare codesta tesi.
La questione fondiaria
Diamo la parola
ad Adam Smith (1723-90), padre dell’economia moderna.
“Non
appena la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata, i
terratenenti, come tutti, amano mietere dove non hanno seminato, ed esigono una
rendita anche per i prodotti naturali del suolo. Il legname delle foreste,
l’erba dei prati, e tutti quei frutti della terra che quando questa era in
comune costavano al lavoratore solo la fatica di raccoglierli, adesso hanno un
prezzo. Costui deve pagare per il permesso di raccoglierli; deve consegnare al
terra-tenente una porzione di quello che raccoglie o produce.[12]”
Da buon
pragmatista britannico, Smith si ferma alla constatazione di fatto. Dà per
scontato che “chi ama mietere dove non ha seminato” abbia tutti i diritti a
massimizzare la rendita. Chiunque è in grado di recintare un appezzamento e
chiamarlo “mio” rivendica una sovranità de
facto.[13] Ha infatti reciso parte
di una risorsa naturale (il suolo) e tassa
chi vi vuole lavorare su. Dato che chiunque voglia lavorare, giù fino al più
piccolo operatore economico in un contesto urbano, ha bisogno di terra sotto i
piedi, costui paga un canone, che lo sappia o no, al possessore del titolo di
proprietà di quel particolare appezzamento. Se ne può andare ovviamente ad
occupare terra libera, ma le distanze dai mercati aumenterebbero i suoi costi
di quello che risparmierebbe andandosene.
La
tassazione del terratenente è la sua rendita, che costui massimizza
- Aumentando il canone degli affittuari fino al
limite;
- Riducendo i salari di chi lavora per lui,
anche qui fino al limite.
Un pool di
disoccupati va come guanto alla mano del vivente di rendita, giacché se affittuari
o braccianti protestano, la minaccia della disoccupazione li fa sottomettere. Questa
è la ragione principale del perchè nessun governo in tutto il 20° secolo sia
riuscito ad eliminare la disoccupazione per mezzo di politiche “ortodosse”.
La proprietà
privata fondiaria, che oggi unisce lo ius
utendi allo ius abutendi, ha due
effetti principali:
- Deprime i salari agricoli. Gli appezzamenti
migliori, vicini ai centri di consumo, vengono occupati per primi, per usi
più vantaggiosi che non il coltivarli. Per cui il margine di coltivazione
viene spinto sempre più lontano da codesti centri, forzando gli
agricoltori a dipendere da lunghe catene di intermediari per convogliare i
prodotti al mercato. E vedono ridursi i frutti del
proprio lavoro.[14]
- Monetizza come rendita tutti i vantaggi del
tratto sociale. Ad ogni miglioramento di infrastrutture, di amenità
sociali, di tecnologia ecc., che convincono chi lavora a restarsene dov’è
invece di andarsene, il terratenente o aumenta il canone di affitto, o
reduce i salari dei dipendenti, o entrambe le cose.
La storia della
questione fondiaria è lunga. I patrizi e i plebei di Tito Livio lottarono per
secoli proprio attorno alle due grandi questioni di questo saggio: terra e
moneta. Ad ogni minaccia di rivolta plebea, i patrizi facevano in modo di depistare
l’attenzione della gente verso un’invasione nemica, frequentemente
provocandola.[15] Nella storia
ecclesiastica la stessa questione incombe massiccia, dalla donazione di Pepino
di Heristal (756)[16]
alla scomparsa degli Stati Pontifici (1870).[17]
L’origine dello
Stato moderno, databile con la sfortunata decisione presa al Concilio di
Costanza (1415) di dividere i Padri per nazionalità, promosse una sovranità
basata sulla terratenenza politica, ma ben presto codesta sovranità venne
usurpata da privati, a cominciare da quando Enrico VIII d’Inghilterra commise
l’imprudenza di vendere ai nobili le
proprietà ecclesiastiche confiscate nel 1536-39. Costoro pagarono, ma pretesero
i titoli di proprietà che tuttora mantengono.[18]
La questione
fondiaria è alla base della tensione mai risolta tra sovrano,[19]
nobiltà e plebe, nonché di fenomeni come la “sovrappopolazione”, la
colonizzazione europea, la criminalità organizzata e la guerra come valvola di
scarico della lotta di classe.
Da nessuno degli
argomenti suesposti segue che la proprietà fondiaria sia immorale di per sé. La ragione è che la terra è immortale, l’occupante
individuale non lo è. Una comunità immortale come la terra, è occupante
legittimo.
Terratenenti
consci della funzione sociale della
loro proprietà sono sempre esistiti, anche se non in gran numero.[20]
Però offrire l’opportunità di vivere sul lavoro altrui da un lato e domandare
di non farne uso dall’altro è chiedere un po’ troppo.
La Questione Monetaria
Dice Erodoto che
furono i Lidi ad inventare la moneta. Re Creso prese la importante, ma malefica
decisione di imprimere il sigillo reale su un pezzo electrum, lega naturale di oro e argento, che ne garantisse il
peso. Due cose scapparono a Re Creso:
- I depositi alluvionali da cui si estraeva l'electrum
non sarebbero durati per sempre, per cui lo sviluppo di un’economia basata
sulla suddivisione del lavoro avrebbe richiesto una caccia permanente di
nuovi depositi.[21]
- Dato che i metalli preziosi hanno “valore
intrinseco” (leggi: piace a tutti possederli), chiunque possegga una
moneta siffatta ci pensa due volte prima di spenderla, così favorendo la
deflazione. La contraddizione tra spendere e risparmiare viene
indissolubilmente unita nello stesso pezzo di metallo. E poi, chi
controlla il metallo controllerà anche la moneta.
Licurgo di Sparta
(c. 9° secolo a.C.) aveva capito ciò, e bandì l’oro come materiale coniabile,
guadagnandosi le lodi di Pitagora e gli scherni, quando non gli insulti, dei
patiti del metallo giallo.[22]
Sia come sia,
quell’accoppiamento contraddittorio fa da causa base dell’usura, che non è
altro che il tributo che chi usa
moneta come mezzo di scambio deve
pagare a chi la usa principalmente come portavalori.
L’usura non ha nulla a che vedere con le sciocchezze appioppatele lungo i
secoli, come “fecondità”, “produttività”, “utile”, “lucro cessante”, “denaro
che lavora”, “interesse eccessivo”, e “sfruttamento”. L’usura è potere, seguito da sopraffazione, crisi
economiche e politiche, economia di guerra, rivoluzioni, lotta di classe,
povertà nel bel mezzo dell’abbondanza, e la Questione Sociale. Le due grandi
questioni terra-moneta fanno da ali ad un infernale uccello di malaugurio, del
quale è da sperare il decesso in questo 21o secolo.
La questione
monetaria rimane irrisolta. Lungo i secoli i governi, fino a quando il potere
di batter moneta non fu usurpato loro dall’alta finanza,[23]
emettevano denaro inteso come mezzo di scambio, ma mai e poi mai riuscirono ad
impedire a risparmiatori e usurai (che per lo scopo di questo saggio sono la
stessa cosa) di sottrarre denaro dalla circolazione per interessi privati. Per
cui la scarsezza di contante, rampante ancora oggi, rimane causa primaria
(anche se non esclusiva) del disordine economico che affligge tante nazioni.
La scarsezza del
mezzo di scambio fece nascere l’istituzione del credito. Tra i primi a rendersi conto che il credito poteva
benissimo sostituire il costosissimo (e pericolosissimo) trasferimento di
contante metallico furono i Templari. Già alla loro espulsione da Terrasanta
nel 1291 costoro avevano stabilito una rete di credito con quartier generale a
Parigi. Naturalmente non confidarono a nessuno che non vi era oro alcuno
“dietro” ai loro pezzi di carta, il che fu la loro rovina. Filippo il Bello, in
combutta con il primo papa avignonese Clemente V, distrusse l’Ordine e ne
saccheggiò il quartier generale e le comanderìe, nella vana speranza di
trovarvi un tesoro fantasma.[24]
La superstizione
di Re Filippo (e di Creso) è viva e vegeta nelle menti dei più, che chiamano
“denaro” tanto la moneta quanto il credito. È vero che a parità di condizioni
si comprano le stesse cose tanto con un biglietto da €100 ($, £, ¥ o quel che
sia) quanto con un assegno per lo stesso importo. Ma l’assegno altro non è che
uno strumento di credito: non fa che
trasferire informazioni da un conto
bancario ad un altro, una sola volta. Il biglietto da €100, d’altro canto,
trasferisce beni e servizi per €100 ogni
volta che cambia di mano. Nel caso ipotetico, ma non impossibile, che quel
biglietto venga scambiato tre volte al giorno per un anno, lo stesso pezzo di carta farebbe
muovere beni e servizi per più di €100.000. Questo è il significato di liquidità, posseduto dal contante per
definizione.
Il credito gode
anch’esso di liquidità, ma definita diversamente. Per gli speculatori e
manipolatori di denaro il credito è liquido fino a quando chi vende pezzi di
carta più o meno decorati chiamati azioni, buoni Tesoro, derivati, ecc. trova
compratori convinti in qualche maniera che dietro ai numeri stampati sui pezzi
di carta vi sia ricchezza reale.[25]
Questa mancanza
la si è pagata, letteralmente, con fiumi di sangue. La situazione odierna non
può che venir profilata sommariamente.
I soliti più (le
masse) continuano ad illudersi che sia lo Stato ad emettere moneta. Per gli
spiccioli ciò è vero. Su questi lo Stato incamera un signoraggio (differenza
tra il valore facciale e quello di produzione) irrisorio. Quando si stampa
moneta, questa non va al Tesoro per essere spesa in infrastrutture necessarie,
ma alle banche. Queste non ne fanno circolare più di quanto non sia necessario
per dare l’illusione di solvenza, e l’emissione totale viene sempre accoppiata
(nessuno sa dire perchè) alla quantità di “riserve” “prese in prestito”. Il
grosso viene accaparrato come portavalori, come base di emissione di credito
bancario per 10-12 volte di più. Invece di chiamarla “truffa”, l’operazione la
si chiama “riserva frazionaria”. È così che si nega l’uso di contante a chi ne
ha bisogno come mezzo di scambio, e si addebita “interesse” (rectius usura) no
su denaro prestato, ma sul privilegio “concesso” (bontà loro) dai
“prestatori” ai “prestatari” di scrivere
potere d’acquisto su assegni. Confondendolo con un prestito, il firmatario si
impegna a a pagare interesse su un capitale mai esistito.
Una seconda frode,
ancora più grossa, è il debito pubblico.
La Banca Centrale crea denaro dal nulla e lo “presta” allo Stato, pretendendo
il pagamento di interessi (non di capitale, che estinguerebbe il debito)
tassando chi lavora.
Il fatto che
nessuno chieda: “ma perché deve essere la Banca Centrale a fare questo? Non può
farlo lo Stato, con una sua moneta libera da debito?”,[26]
lo si deve agli imbrogli di Adam Smith e discepoli, che sono riusciti ad
offuscare la vista di sette generazioni di imbrogliati. Pochi infatti sanno, e
molti benpensanti si scandalizzeranno a leggere, che l’istituzione di una Banca Centrale costituisce l’oggetto
del punto programmatico n.5 del Manifesto Comunista del 1848. Marx - il
“capoccia delle teste confuse”, come lo chiamava Henry George - propone nel suo
Manifesto:
“La concentrazione della
ricchezza nelle mani dello Stato per mezzo di una banca nazionale con monopolio
esclusivo”.
Da allora,
quell’istituzione si è andata spargendo per il mondo a macchia d’olio. Le
banche centrali emettono moneta secondo i dettami della Banca Mondiale, la cui
politica odierna è di trasferire potere d’acquisto dal contante al credito,
impoverendo fasce sempre più ampie di cittadini. Quei paesi che osano sfidare
codeste politiche divengono un bersaglio che comincia con la calunnia per
finire con i bombardieri di alta quota[27].
Le banche
commerciali emettono credito, ma solo ai già “accreditati”, cioè ai già ricchi.
Oltre al credito, le banche creano confusione, grazie alla quale prosperano. È
nel loro interesse rifilare due storielle con le quali ingannano il pubblico da
400 anni:[28]
- Che prestano il denaro depositatovi dai
risparmiatori;
- E che il contante cartaceo è “sostenuto” dai
lingotti d’oro che fanno bella mostra di sé nei loro sotterranei.[29]
Nessuna delle due
proposizioni è vera, ma sono entrambe efficacissime a far continuare la
confusione denaro = credito/moneta nelle menti dei più. La differenza tra
credito e moneta è qualitativa, non quantitativa; ma la mente “moderna”,
abituata a stimare quantità e a disprezzare qualità, trova difficile percepirne
la differenza. Su codesti falsi prestiti, naturalmente, le banche esigono
interesse, ma senza crearlo. L’interesse va estratto dall’economia di produzione
e di scambi, il che garantisce che qualcuno, prima o poi, vada regolarmente in bancarotta.
Un paradosso che
ne segue è che i cosiddetti “cattivi” prestiti possono esser cattivi per le
banche, ma non per l’economia, nella quale rimane il credito emesso senza danno
per nessuno; un secondo paradosso è che i furti di contante dagli stabilimenti
bancari, a mano armata o no, per quanto dannosi per chi può rimetterci la
pelle, iniettano contante nell’economia, allontanandone la deflazione.
L’emissione di
credito e la manipolazione dello stesso su grande scala hanno creato dal nulla
una bolla di sapone finanziaria di proporzioni mostruose, che Bernard Lietaer[30]
chiama “casinò globale” e che non ha se non tenuissime relazioni con l’economia
reale di produzione e di scambio. Nel 2001 codesta bolla aveva raggiunto la
cifra di 98 mila miliardi di dollari. Tre anni dopo era salita a 140 mila
miliardi. In agosto 2007 si parlava di 450-600 mila miliardi. Nel 2008 la bolla
è scoppiata, con le conseguenze visibili a tutti.
Lo Stato moderno, impotente succube di Mammona
Incapace di sconfiggere
sia il potere fondiario che quello monetario, lo Stato impotente si è alleato a
entrambi. La fiscalità moderna preme sempre più. Come osserva James Robertson,
“Dopo
il paradiso perduto, è facile immaginare Satana in seduta con Belzebù, Moloch,
Belial e il resto del suo consiglio di ministri, per escogitare il sistema
fiscale più dannoso che l’umanità sia disposta ad accettare. Avrebbero potuto
trovarne uno peggiore di quello che abbiamo?[31]
La fiscalità
moderna ha tutta l’impronta dell’ingiustizia,
qualunque sia la caratteristica che si analizzi. Come ebbe a dire George
Bernard Shaw (1856-1950)
“Qualunque
governo che prometta di derubare Pietro per pagare Paolo avrà sempre il
sostegno di Paolo.[32]
Lo Stato moderno
deruba Pietro in cinque maniere.
·
Dogane e dazi sono la versione moderna del barone predone che saccheggiava i mercanti di
passaggio. L’arte di far ciò consisteva nel non toglierli tanto da invogliarlo
a cambiare strada. Dogana e dazio criminalizzano l’istinto umano di base, cioè
la consuetudine sociale per gli scambi di beni e di servizi. Ed agiscono, come
non potrebbe essere più chiaro, da freno potente sullo sviluppo di qualsiasi
economia. Notava Henry George che le derrate passavano molte più settimane nei
depositi doganali di quante ne passassero nelle stive delle navi che
incrociavano gli oceani. L’aereo ha ridotto drammaticamente i tempi di
trasporto, ma solo per far aumentare alle derrate il numero di settimane ferme
nei depositi doganali. Per giunta, un esercito di funzionari controlla, autorizza,
rifiuta, verifica, blocca ed esercita poteri varî sugli sfortunati che non
conoscono i trucchi del mestiere. E un certo numero di doganieri, che si
rendono conto del potere discrezionale conferito loro dalla carica, esigono la
tangente.
·
Le imposte indirette colpiscono il consumo
in tutte le sue forme. “Non olet”,
sembra amasse dire Vespasiano odorando le monete provenienti dalle imposte
sugli orinali pubblici.[33]
La tassazione indiretta moderna data dall’Inghilterra del 17o
secolo, quando i terratenenti al potere, riluttanti a pagare le imposte sui
terreni, ne trasferirono la base ai beni di consumo. La pratica continua. Basta
dare un’occhiata ai prezzi dei carburanti.
·
La tassa sul reddito colpisce la
produzione. La sua introduzione (1909) ha appena un secolo di esistenza. Dato
che lo Stato ha il dovere di proteggere la vita e la proprietà dei cittadini,
ha il corrispondente diritto di tassare le due cose. Si può sostenere (come chi
scrive) che la tassa sul reddito sia una tassa sulla sicurezza della persona,
controbilanciata quindi dai servizi di difesa, di ordine pubblico e di
giustizia. È quindi la meno ingiusta delle imposte moderne. Sarebbe più giusta
(e per giunta aumenterebbe le entrate dello Stato) se venisse imposta a
percentuale fissa invece che progressiva.
·
L’IVA
colpisce le transazioni. Sotto tutti i punti di vista, si tratta della più
ingiusta e controproduttiva, per non dire assurda, imposta mai escogitata. E
non è neanche nuova. La Spagna aveva la sua IVA nel 16o secolo: si
chiamava alcabala. Non durò, perché ci si accorse ben presto che il costo di
riscossione superava il gettito, e che l’economia andava in rovina. I burocrati
odierni lo sanno, ma per occultare la frode impongono i costi di riscossione a
produttori e negozianti; senza pagarli, naturalmente, ma minacciando castighi
severissimi nel caso di non ottemperanza. Costringere a lavorare senza pagare è
il punto di arrivo della tesi di Hayek (The
Road to Serfdom, 1944).
·
La quinta e
ultima idea su come riempire le casse dello Stato è la legalizzazione dei giochi d’azzardo. Che questo poi causi
un incremento di criminalità organizzata, di bancarotte, divorzi e
maltrattamento di minori, con un costo sociale eccedente la riscossione, non ha
molta importanza.
L’intervento
statale, tanto temuto (e combattuto) dalla Scuola economica austriaca, è quello
di uno Stato impotente, costretto a girare senza sosta nella bolgia appena
descritta.
Gli effetti del disordine
Si osservi il
grafico[34]
che segue:
La curva A rappresenta
la crescita naturale, cioè degli esseri viventi. Codesta crescita dipende dai
grandi cicli della natura: acqua, ossigeno, carbonio ecc. Agricoltura e
industrie derivate seguono, o dovrebbero seguire, quella curva: crescita rapida
seguita da equilibrio dinamico.
La linea retta B
rappresenta la crescita industriale. Nella decade 1860-70 la produzione
industriale superò per la prima volta quella agricola negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, seguiti dai paesi oggi chiamati “industrializzati”.
La curva C è
quella esponenziale dell’interesse composto, spinto inesorabilmente dall’usura,
dettata dalla forma di moneta in uso da 4.000 anni, e dovuta alla confusione
mezzo di scambio - mezzo di risparmio, e peggiorata da quella tra contante e
credito.
Le decadi 1890-1930
segnarono l’intersecarsi dell’interesse composto con l’agricoltura. Gli effetti
sono stati profondi per non dire tragici. Segnalo:
·
L’agricoltura
di rapina, praticata a cominciare dalle grandi praterie americane. Milioni di
tonnellate di granaglie a prezzi sotto costo si rovesciarono sui mercati
europei, rovinando i piccoli agricoltori e costringendo milioni di costoro ad
emigrare.
·
La fine,
dovuta alla Grande Guerra, dell’uso di nitrato del Cile per quello dei concimi
artificiali. Spinta dall’interesse composto C, l’industria che produce concimi
in tempo di pace ed esplosivi in tempo di guerra, fa produrre quantità enormi
di derrate ma di qualità scadente, e pertanto insufficiente a sostenere la
salute umana o animale. I concimi naturali o non si producono o si distruggono,
dando così “lavoro” a disoccupati.
·
L’invenzione
del mulino a dischi piani. Separando il chicco di grano in amido, crusca ed
embrione, codesta pratica permette agli speculatori di vendere quest’ultimo a
prezzi esorbitanti per farne cereali di lusso, e deprime la qualità del pane,
ridotto a insipida pappa.
·
La sparizione
per indebitamento dell’azienda agricola familiare, e la sua sostituzione con la
monocultura, pratica questa sempre più deprimente della fertilità del suolo.
Quando l’esponenziale
C interseca la retta B, è l’economia di guerra. Si produce per distruggere,
così da mantenere l’occupazione e pagare interesse. Codesta pratica è in pieno
auge. L’industria di guerra produce, i mercanti di morte vendono ai cosiddetti
“governi” dei paesi sottosviluppati, che ne fanno uso eccellente
(economicamente parlando, cioè morte e distruzione), e i paesi cosiddetti
“industrializzati” risolvono, seppure parzialmente, il problema della
disoccupazione industriale.
Poi qualcuno si
accorge che dall’altra parte si fa la fame e c’è povertà. E si mandano derrate
alimentari e materiale d’urgenza. “Esperti” espatriati, naturalmente,
incamerano una parte non disprezzabile degli “aiuti”. È un’altra spintarella
all’occupazione, ma a quella dei paesi “sviluppati”.
È evidente che la
pace, specialmente se duratura, non rappresenta una priorità per chi vive di
una tale situazione. Il problema reale rimane l’usura. Fino a quando questa non venga affrontata e sconfitta, non
vi saranno programmi e progetti, per quanto ispirati da buona volontà e
implementati da buone persone, che possano invertire la marcia.
Tutti i paesi
cosiddetti “industrializzati” o “sviluppati” hanno raggiunto questa tappa. Che
scelgano di usare il materiale bellico per conto proprio, o per venderlo
altrove, l’immoralità dell’operazione dovrebbe essere ovvia, ma coloro che
intascano “lauti dividendi” dell’industria di guerra sono comprensibilmente
poco propensi a scrutare da vicino gli effetti dei giocattoli di morte,
specialmente se non maneggiati dai loro figli.
Soluzioni
L’Accademia
Dovremmo avere il
diritto di aspettarci che le università, facoltà, professori e professoresse di
ruolo, prestigiosi libri di testo, e le decine di migliaia di tesi di
dottorato, per non parlare della Riksbank che assegna il “Nobel” dell’economia,
notassero gli impicci appena descritti, anche con un rapido sguardo. Ma il
mondo accademico si muove su un’altra lunghezza d’onda, sospinto da una falsa
definizione dell’economia e da varie scuole in contrasto prima con la realtà
delle cose e poi l’una con l’altra.
Il termine
tradizionale “economia politica”, definito come “studio di produzione e di
distribuzione di ricchezza”, è stato furtivamente sostituito con quello di
“economia” tout-court, definita come
“assegnazione di risorse scarseggianti”.
Codesta
definizione apparentemente innocua nasconde non una ma due trappole. La prima
è: “In che senso una risorsa scarseggia?”.
La seconda è: “A chi spetta assegnare?”.
Nessuna risorsa
“scarseggia”. Ogni scarsezza è dovuta a interessi creati, come nell’energia per
esempio. Nel 1898 il genio che si chiamò Nikola Tesla (1856-1943) aveva da
tempo scoperto che noi terrestri siamo immersi in un oceano cosmico di cariche
elettriche, e era riuscito a convogliare codeste cariche così da far loro
produrre forza motrice, senza fili e
gratis per giunta. Nel 1901 aveva finito di costruire a Wardenclyffe (Long
Island, Nuova York) una torre alta 57 metri, la prima di otto che avrebbero fatto
alla bisogna globale. E qui il povero Tesla venne silurato da interessi
petro-politico-finanziari, che gli distrussero la torre e lo fecero morire in
povertà. È per questo che abbiamo un mondo festonato da milioni di kilometri di
cavi elettrici, trasformatori, stazioni, dighe, tutto perfettamente ridondante
ad avergli dato retta. Il petrolio sarebbe da tempo una curiosità storica e il
nucleare un passatempo da laboratorio.
Ora vediamo il
termine assegnazione. Insinua che
solo gli “esperti”, che sono “al corrente” possono “assegnare”. Il che è vero
fino a quando il monopolio terra-moneta rimane quello che è. Ma con lo
svegliarsi della gente, che già avviene, l’economia decollerà sulle due ali di
Terra e Moneta libere.
Bernard Maris
dell’Università di Parigi inveiva:
“Da
Milton Friedman (Nobel ’76, il guru dei superliberali) a Modigliani, sono tutti
“incompetenti perentori”, ripetitori di ricette che sanno essere sbagliate,
maggiordomi di potenti. Non osano dire che non esiste una teoria del
liberalismo, dell’efficienza, della concorrenza. Queste parole non sono che
ideologia e utopia, totalitarie come lo stalinismo.[35]
La tribù
La terra
appartiene alla comunità. La moneta non è necessaria. In condizioni idilliache
perché primitive, o primitive perché idilliache, ciò e vero. Diceva il capo
Seattle della tribù Suquamish:
“Come
si può comprare o vendere il cielo, o il tepore della terra? Quest’idea ci è
strana. Dato che non siamo i padroni della frescura atmosferica e dello
scintillio dell’acqua, come si fa a comprarli?[36]
Quando l’idillio
finisce in seguito alla crescita demografica, la suddivisione del lavoro rende
impossibile codesta visione delle cose. La moneta diviene necessaria, e con
essa non tanto il diritto quanto l’obbligo di insediarsi da qualche parte. Ma
il principio resta: la comunità è il terratenente naturale.
Il feudalesimo
La terra
appartiene alla elite, cioè alla nobiltà e all’alto clero. Costoro godevano
dello ius utendi, ma non dello ius abutendi. Venivano impediti
dall’esercitarlo assegnandosi doveri. I nobili si accollavano i costi di amministrazione
e di difesa, e gli ecclesiastici quelli della previdenza sociale: culto
religioso, educazione, sanità, orfanotrofi, accoglienza ecc. La rendita del
suolo spoglio pagava per codesti servizi.
In Europa il
sistema feudale durò sette secoli. Aveva due inconvenienti maggiori: il primo,
la servitù della gleba. Il servo, si noti bene, mancava di libertà politica, ma godeva di una libertà economica invidiabile: lavorava per circa
240 giorni e godeva di 120 giorni di vacanze all’anno.[37]
Il secondo, la fragilità, provata dal crollo rapidissimo (tre anni, 1536-39) di
tutto un sistema di previdenza sociale basato sui monasteri messo su in 900
anni, e causato da Enrico VIII e il suo faccendiere Thomas Cromwell (c.
1485-1540).
La politica
monetaria feudale faceva perno sulla superstizione del “valore intrinseco”. La
manipolazione della moneta metallica con
tecniche varie, e la scoperta di miniere d’argento qua e là, permisero il
rilancio economico, ma l’accresciuta liquidità, e con essa la mobilità, decretarono
la fine del sistema feudale.
Capitalismo: il Titolo di Proprietà
Con la fine del
feudalesimo, il “sacrosanto” titolo di proprietà venne a garantire non solo il
diritto di occupazione (ius utendi),
ma anche quello di sfruttamento (ius
abutendi). I servi divennero affittuari, ma la richiesta sempre crescente e
incalzante di canone finì per espellerli dagli appezzamenti dove avevano
lavorato per secoli. La scelta rimasta era o di vivere delle terre demaniali
deove ce n’erano ancora, o accontentarsi di salari da fame lavorando per i
terratenenti. Insomma divennero proletari. Quando i terratenenti recintarono le
terre demaniali per trasformarle in pascoli, le masse affamate si affollarono
attorno alle città. Chi li salvò dalla morte per inanizione fu la Rivoluzione
Industriale, provvidenzialmente sorta allo stesso tempo degli sfratti massicci.[38]
Adam Smith
scrisse a quel tempo il già citato The
Wealth of Nations. Gli economisti odierni della scuola liberale non
ripetono i pragmatismi di Smith. Menzionano la terra come fattore di produzione
di ricchezza al principio dei loro trattati, poi dicono (non scrivono)
“abracadabra” e la terra si trasmogrifica[39]
in capitale.
La Questione
Sociale scoppiò virulenta nel 19o secolo, causando una massiccia
emigrazione verso nuove terre. Britannici e tedeschi, militarmente forti,
andarono ad espropriare gli africani; gli irlandesi e gli italiani,
militarmente deboli, andarono a tentar fortuna nelle due Americhe.[40] E
Marx poetizzava sui datori di lavoro che sfruttano i proletari, guardandosi
però bene dal menzionare che i primi fossero solo dei sensali tra i salari da
miseria dei nullatenenti e i due poteri terratenenza-usura. La situazione reale
la descrisse Henry George nel 1887:
“Vi sono... tre fattori di produzione, e sempre un
quarto e generalmente anche un quinto di distribuzione. Oltre al capitalista
datore di lavoro A, e il lavoratore dipendente B, c’è il terratenente C,
l’esattore di imposte D e i rappresentanti di monopoli non fondiari E. Quello
che A e B si dividono tra loro non è il prodotto dei loro sforzi congiunti, ma
quello che gli lasciano C, D ed E”.
Quello che George
chiamava “rappresentanti di monopoli non fondiari” è infatti il potere usurario,
meglio identificato e descritto da Gesell una generazione dopo. È importante
notare che il capitalismo intreccia i due monopoli fondiario e monetario più
strettamente di qualsiasi altro sistema economico. Al monopolio fondiario sono
indissolubilmente legati gli alti tassi di interesse. In regime di
recintazione, la terra mal distribuita tra i pochi possessori e i molti
nullatenenti diviene il tipo di investimento più redditizio: il rendimento ne
viene garantito dalla densità di popolazione e dalle infrastrutture che
crescono attorno alle proprietà.
Questa è anche la
ragione per cui l’alta finanza è nemica dichiarata di agricoltori e di attività
agricole. I monopolisti monetari vedono codeste attività come una minaccia alla
loro speculazione, e con ragione. Le derrate alimentari sono forma di moneta.[41]
L’agricoltura di sussistenza, il baratto e la cambiale impediscono all’usura di
aumentare le sue richieste più di quanto non faccia. Per la stessa ragione la
manipolazione finanziaria ha cacciato via milioni di piccoli agricoltori dai
loro appezzamenti durante tutto il 20o secolo.[42]
Riforme Agrarie e Distribuzione
La
proprietà fondiaria è aggregante per natura. Differenze naturali di abilità e
attitudine fanno sì che sempre si finisca nel latifondo, cioè una grande
superficie coltivata da braccianti con salario minimo. Questa è una delle
ragioni del fallimento al 100% di ogni riforma agraria, comunque e dovunque
tentata.[43]
Una seconda
ragione è che le terre ri-distribuite sono sempre a distanze notevoli (a volte
centinaia di kilometri) dai centri di consumo, il che dirotta i salari dalle
tasche degli agricoltori a quelle degli intermediari. Il dover comprare sementi
ed implementi agricoli a prezzi sempre più alti forza gli agricoltori ad
indebitarsi, ed è questione di tempo prima che la piccola proplrietàq venga
incorporata in un preesistente latifondo.
La dottrina sociale della Chiesa
I documenti
pontifici sulla Questione Sociale non offrono soluzioni bell’e fatte. Sono
dichiarazioni di principio, da servire come punti di riferimento per un’azione
effettiva. Quando suggeriscono una soluzione, questa sarà certamente libera da
errori dottrinali e morali, ma non necessariamente da quelli economici o
politici.
La Rerum Novarum (1891) fa il primo punto,
citando S. Tommaso:
“L’uomo
non deve considerare i suoi possedimenti esterni come propri, ma comuni a
tutti, così da farne partecipi gli altri quando ne hanno bisogno. Per cui
l’Apostolo dice: “Comandate ai ricchi di questo mondo... di elargire
generosamente, di far partecipi gli altri”[44]
La proprietà
privata, quindi, deve svolgere una funzione
sociale oltre a venire incontro alle esigenze del proprietario. La Quadragesimo Anno (1931) fornisce un
punto ulteriore:
“È
un’ingiustizia, un gran male e un disturbo dell’ordine naturale, che grandi
conglomerati e associazioni si arroghino funzioni che potrebbero benissimo
venir espletate da società più piccole e a livello più basso... Chi sta al
potere deve convincersi che quanto più fedelmente venga seguito questo
principio di sussidiarietà, tanto più contenta e prosperosa diverrà la società.[45]
Però ecco che il
rimedio suggerito da Leone XIII è proprio la recintazione:
“Con un
salario sufficiente... il lavoratore non troverà difficile... farsi una piccola
proprietà... questa... questione non potrà esser risolta se non con il
considerare la proprietà privata sacra e inviolabile. Le leggi, quindi, devono
favorire la proprietà, e le politiche vanno dirette ad invogliare i più a
divenir proprietari.[46]
Ma i salari,
insufficienti, non lo consentono. E non per l’avidità del datore di lavoro, ma
per il suo farla da sensale coatto tra i lavoratori e i terratenenti/usurai.
Per di più, anche se il lavoratore riuscisse a fare quel che il documento
pontificio suggerisce, si innescherebbe il processo che, iniziando dalle
piccole superfici, ha sempre finito, inesorabilmente, nel latifondo.
È verissimo, come
afferma Papa Leone nello stesso documento, che “il lavoro ha bisogno di
capitale e il capitale di lavoro”. Ma la questione è se questo bisogno
reciproco possa, da sé, fare aumentare i salari. Ciò non è accaduto per tutto
il 20o secolo: l’aumento di un salario di un certo sindacato o
gruppo di sindacati è sempre
avvenuto a spese di altri salari, gruppi e sindacati, mai a spese di chi lucra rendite e interesse.
Il fallimento di
ogni politica diretta a risolvere la Questione Sociale ha aperto la strada alle
corporazioni transnazionali, oggi esercitanti uno sfacciato dominio mondiale
con la loro politica di globalizzazione.
Il collettivismo
Il territorio
nazionale è proprietà dello Stato. Ne segue che ogni cittadino è un impiegato del
medesimo. Codesta soluzione semplicistica è dovuta al presupposto marxista che
lo sfruttamento dei lavoratori sia effetto della proprietà privata dei mezzi di
produzione. I socialisti di tutte[47] le
persuasioni ancora ci credono, dimentichi del fallimento clamoroso di ben 70
anni di sovietismo.
La
nazionalizzazione del suolo non solo fa di ogni cittadino un servo della gleba,
ma anche rende l’uso della moneta largamente inutile. Nella Russia sovietica i
lavoratori ricevevano, sì, salari alti, ma non potevano comprare alcunché. Il
solo mercato che funzionasse era quello nero.
La
ragione dietro al fallimento di dette politiche è sottile: lo Stato è lungi
dall’essere una comunità naturale. È invece un proprietario terriero,
spalleggiato dal potere delle armi.
La scuola austriaca
La scuola
economica cosiddetta “austriaca” aborrisce l’intervento statale, ma continua a
sostenere a spada tratta l’equazione terra = capitale, sotto l’incantesimo
dell’abracadabra liberale.
La stessa scuola
austriaca condanna l’emissione di moneta da parte dello Stato, auspicandone la
privatizzazione. Jörg Guido Hülsmann, del Von Mises Institute scrive:
“La
produzione monetaria dev’essere lasciata al libero mercato. L’intervento
governativo non migliora gli scambi monetari; semplicemente arricchisce i pochi
eletti a spese di chi fa uso di denaro. E dal punto di vista estetico il
disastro è naturalmente completo: invece di maneggiare belle monete di argento
o di oro, i cittadini sono costretti dalla legge ad usare disdicevoli pezzi di
carta”.[48]
Sorprendentemente,
perfino The Economist se la prende
con la moneta cartacea:
“Dal
(1971) il mondo ha fatto assegnamento su moneta “fiat”, cosiddetta per esser
creata da decreto governativo, e non sostenuta che dalle promesse delle banche
centrali di proteggere il valore della moneta. C’è chi ha cominciato a mettere
in dubbio il valore di quelle promesse”.[49]
Nessuno dei due
fa attenzione alla tesaurizzazione, o alla falsa equazione moneta = credito. Che
coloro delle “belle monete d’oro e d’argento” e dei “disdicevoli pezzi di carta”
non facciano menzione alcuna di George o di Gesell è a dir poco sconcertante.
Ma non è tutto:
che i signori della scuola austriaca non si rendano conto che l’emissione di
moneta è proprio controllata dal cosiddetto “libero mercato” da 200 anni, e che
i governi esercitino il signoraggio esclusivamente sugli spiccioli di metallo,
è ancora più sconcertante. Che poi si tratti di ignoranza sic et simpliciter, o di connivenza, non sta a me dirlo.
Terra Franca
A questo punto,
due cose dovrebbero apparir chiare:
- Né la
Questione Sociale, né qualsiasi altra questione politica o economica, può
essere risolta senza attaccare entrambe
le questioni fondiaria e monetaria.
- Ogni
soluzione escogitata sta in piedi, o cade, dipendendo da tutti e cinque i principi di
verità, giustizia, libertà, solidarietà e sussidiarietà.
Il principio di
sussidiarietà non è generale. È un caso particolare del più esteso principio
dello et-et, che in questioni etiche,
coinvolgenti cioè la libera volontà, sostituisce l’aut-aut caratteristico delle scienze sperimentali.
La sussidiarietà
rende possibile la convergenza di
libertà con solidarietà, trascendendole entrambe. Nella questione fondiaria,
ciò che ha bisogno di convergere sono l’istituzione della proprietà privata con
la sua funzione sociale auspicata da Rerum
Novarum. Chi occupa un appezzamento contratta con la comunità locale il
tempo e modalità di occupazione. Il canone lo si rivedrebbe ad intervalli
convenuti, aumentandolo nel caso di crescita di popolazione, diminuendolo in
caso di decrescita.[50]
George e Gesell
proposero di spostare l’imponibile fiscale dal valore aggiunto dallo sforzo di
chi lavora a quello sottratto dall’uso commune della terra. Cosi i frutti del
lavoro dell’occupante gli andrebbero in tasca al 100%, mentre la rendita da
suolo spoglio, creata dalla comunità che vive e lavora attorno all’area,
andrebbe al 100% alla comunità.
Chi occupa un
appezzamento sarebbe sempre libero di andarsene, vendendo le strutture a un
libero acquirente, ma lasciandogli gli obblighi verso la comunità.
Così la proprietà
privata assolverebbe la sua funzione sociale, e ogni cosa cadrebbe al suo posto:
- Verità: la comunità riafferma la sovranità usurpatale dall’istituto dell’allodio (diritto di uso + diritto
di abuso); questa, e non l’individuo, convoglierebbe l’eccesso di entrate
all’erario;
- Giustizia: l’industriosità viene premiata, l’accidia e il parassitismo impediti
o puniti;
- Libertà: ognuno ottiene accesso alla proprietà fondiaria se e quando lo desidera,
abbandonandola per un’altra se così desiderasse;
- Solidarietà: il canone di occupazione copre la spesa pubblica: forse non per il
100% come opinava George, ma abbastanza per abolire le imposte più
ingiuste;
- Sussidiarietà: L’istituzione della proprietà privata,
indissolubilmente unita alla sua funzione sociale, non può più dare
origine a disordini sociali come nel passato.
Moneta Franca
“Franca” non è
sinonimo di “gratis” ma di libertà da debito e da interesse, entrambi dovuti ai
difetti esaminati poco fa. Il credito bancario, grazie alla sua natura
ovviamente antidemocratica, è essenzialmente incapace di risolvere qualsiasi
problema economico, come stiamo verificando giornalmente. Si tratta di una
influenza corruttrice da estirpare e sostituire con Moneta Franca.
Gesell propose di
prelevare sul contante un’imposta del 6% annuale, così forzandone la
circolazione e impedendone la tesaurizzazione. I biglietti porterebbero una
data di emissione e una di scadenza a un anno l’una dall’altra, e verrebbero rinnovati
mensilmente o affrancandoli o obliterandoli o goffrandoli secondo il gusto.
All’anno, il biglietto scaduto verrebbe sostituito con uno nuovo.
Gesell scommise
non sulla quantità ma sulla circolazione rapide della moneta: una modesta
quantità che cambia di mano ripetutamente ed ininterrottamente avrebbe lo
stesso effetto di una gran quantità di credito, che cambia di mano una volta
per poi sparire senza lasciar traccia.
Nel 1932, nel bel
mezzo della Grande Depressione, la pratica confermò la teoria. Il borgomastro
Unterguggenberger (1884-1936) di Wörgl, Tirolo austriaco, mosse 2,2 milioni di
scellini dei beni e servizi con una somma irrisoria di 5.490 Certificati di Lavoro emessi dal
municipio. Ma la Banca Nazionale cassò l’esperimento dopo 14 mesi di prova che
la Grande Depressione poteva essere sconfitta.
La Moneta Franca assolverebbe
anch’essa i requisiti di:
- Verità: la contraddizione insita nella presente forma di moneta sparirebbe,
così come sparirebbe la confusione tra moneta e credito (da M2 a M4);
- Giustizia: l’interesse diminuirebbe gradualmente fino a sparire. Non sarebbe
più possibile vivere del lavoro altrui;
- Libertà: ogni tipo di lavoro, incluso quello domestico, verrebbe retribuito,
così da dare alle donne la scelta
se lavorare a casa o fuori;
- Solidarietà: prestare allo 0% diverrebbe più profittevole che tesaurizzare al
-6%. Fiducia, lealtà e amicizia
verrebbero favorite, non ostacolate come lo sono oggi.
- Sussidiarietà: la carità completerebbe la giustizia invece
di sostituirla come fa oggi.
La moneta Franca
adempirebbe per l’economia le stesse funzioni del sangue in un corpo vivo, nel
quale cinque litri fluiscono continuamente come cinque tonnellate nelle 24 ore.
Con la Moneta
Franca, due istituzioni cambierebbero radicalmente: il prestito e
l’imprenditoria.
Il prestito
diverrebbe la maniera naturale di ottenere denaro per somme di una certa entità.
Chi vende sarebbe generalmente d’accordo nell’accettare il dovuto in somme
intervallate da tempo invece che tutte in una volta. Le banche presterebbero non solo volentieri,
ma in fretta, prestando adesso moneta esistente invece dell’aria fritta che
fanno passare per “prestito”; e per questo servizio addebiterebbero un
onorario, non usura come fanno adesso. E il tasso di interesse sarebbe sempre
0%, mentre tesaurizzare moneta costerebbe -6% per anno.
Un imprenditore
prenderebbe in prestito quel che gli occorrerebbe durante il tempo anteriore
alle prime vendite. Dovrebbe (non potrebbe) pagare salari alti, conseguenza
inevitabile di Terra e Moneta Franche. E si affretterebbe a restituire il primo
prestito non appena le vendite si stabilizzassero. La concorrenza non
avverrebbe più in termini di prezzi ma di qualità e affidabilità. Nessuno
dovrebbe più fare bancarotta per scarsezza di mezzo di scambio. E
infrastrutture sia pubbliche che private verrebberoi misurate in ore di lavoro,
non in unità monetarie.
L’ego di coloro che pensano che i loro talenti valgano
più di quelli degli altri verrebbe ancora soddisfatto. Ma le somme ottenute
andrebbero spese in flusso continuo. Potrebbero costruirsi monumenti, metter su
istituzioni sociali, ecc. Così da essere ricordati dopo la loro dipartita. E
nessuno verrebbe più “misurato” in termini di quanto guadagna, ma in quelli di
lasciti di buone opere.
Terra e Moneta
Franche rinforzerebbero i legami solidari oggi lacerati da un’usura e una
terratenenza azzoppanti. Il bisogno di “confini” ai quali estorcere denaro a
chi viaggia non esisterebbe più, giacchè ogni governo otterrebbe entrate
erariali sufficienti dai suoi cittadini, quanti più meglio. Il mappamondo non
apparirebbe più come il cappotto rabberciato di un mendicante: la gente sarebbe
libera di muoversi dovunque le idiosincrasie personali la porterebbe.
Come ebbe a dire
Victor Hugo (1802-1885) 150 anni fa,
“Nulla può fermare un’idea per la quale è arrivato
il tempo”.
CONCLUSIONE
Le metafore non
hanno valore probatorio, ma favoriscono la comprensione. Mi piace paragonare
l’economia ad un uccello che tutti, da “esperti” a gente qualunque, presumono
non essere volatore semplicemente perchè nessuno l’ha mai visto volare. E
nessuno l’ha mai visto volare perchè in verità non ha mai volato.
Dal che non segue
che l’uccello non vola perchè non abbia ali. Le ali sono incollate al corpo
dalla terra catturata e dalla moneta a doppia faccia. E siccome un uccello che
non vola è più facile da controllare di uno che vola, gli interessi creati che
conoscono la vera natura dell’uccello hanno fatto tutto il possibile per tenere
nascosta l’esistenza delle ali. Ci sono riusciti, e per millenni.
Da quando
l’economia divenne scienza (più o meno) i suoi adepti si sono concentrati non
sulle ali che non riuscirono a vedere (o che volutamente occultarono, non sta a
me decidere) ma sulle zampe, becco, piume, ecc. Hanno poi rafforzato e
ottimizzato tutto quell’equipaggiamento, ma è ovvio che senza liberare le ali
l’uccello non volerà mai, nonostante sia fatto per quello.
Nel suo magnum opus Gesell prova che non esiste
problema economico irrisolvibile dalle due istituzioni di Terra e Moneta
Franca.
Traducendo in
termini correnti, gli arraffatori di terre e risparmiatori di moneta sono
riusciti a vivere del lavoro altrui negando a costoro i frutti dei loro sforzi.
Tutte le politiche messe in atto che hanno lasciato intatte codeste fonti primarie
di ingiustizia hanno fallito, e continueranno a farlo. Però esiste una gran
disparità tra le due questioni.
La questione
fondiaria non può essere risolta senza volontà politica. I terratenenti sono
sempre riusciti a influenzare le decisioni politiche, o direttamente stando
loro stessi al potere, o indirettamente battendosi per tariffe doganali e altre
politiche che sostenessero le rendite.
La buona notizia
è che la riforma monetaria, diversamente da quella fondiaria, può ricevere il
via dal basso. 40mila e rotte comunità in tutto il mondo lo stanno provando
sotto i nostri occhi. Nel momento che si mettano d’accordo su uno standard
comune, l’usura cesserà di essere un incubo per divenire semplice ricordo
storico.
Silvano Borruso
31 agosto 2005
Riveduto e sfoltito 27 dicembre 2011
[1] Si tratta di una frode in tono
minore: di Nobel codesto premio ha solo il nome. Non viene concesso dal
Comitato dell’omonima istituzione, ma dalla Riksbank svedese. Come e perchè ciò
avvenga non mi è dato sapere.
[2] Robert J. Samuelson, Soothsayers on the Decline (declino degli indovini) Newsweek 13
febbraio 1995.
[4] Samuelson, art. cit. p. 44
[5] Wassily Leontief, Premio Nobel
per l’economia, citato in The Economist
17 luglio 1982.
[6] I Re, 17, 1-6. Qui sono
“cornacchie” anche quelle buone persone che danno da mangiare a chi non può lavorare.
[7] Cf Money,
whence it came, where it went di J.K.Galbraith, Houghton Mifflin 1995; The Lost Science of Money di S.
Zarlenga, American Monetary Institute 2002 per una visione convenzionale e una
non convenzionale.
[8] La definizione è di Avicenna
(Ibn Sina, 980-1037). S. Tommaso d’Aquino la fece sua.
[9] La definizione è di Papiniano (ca.
140-212). Fa banco da 18 secoli.
[10] Ciò è valido anche se il non
dovuto viene dato per carità o misericordia.
[11] Vale la pena ricordare una
citazione di Proudhon (1809-65) di 150 anni fa: “Essere governati vuol dire
essere sorvegliati, ispezionati, spiati, diretti, legislati, regolati,
etichettati, indottrinati, predicati, controllati, assessorati, pesati,
censurati e comandati da uomini che mancano tanto del diritto di farlo quanto
di conoscenza e di virtù. Essere governati significa, ad ogni operazione,
transazione o movimento, venir notati, registrati, controllati, tassati,
stampigliati, misurati, valutati, assessorati, brevettati, autorizzati,
approvati, ammoniti, ostacolati, arrestati. Sotto pretesto dell’interesse
generale, si viene tassati, addestrati, ricattati, sfruttati, monopolizzati,
estorti, raggirati, derubati; e alla minima resistenza, alla prima lagnanza,
repressi, multati, maltrattati, infastiditi, seguiti, tiranneggiati, bastonati,
disarmati, strangolati, imprigionati, mitragliati, giudicati, condannati,
deportati, spellati, venduti, traditi e in fine burlati, scherniti, insultati,
disonorati. Ecco il governo, la giustizia, la moralità!” C’è dell’esagerazione,
ma non tanta. Citato in American Opinion
May 1980.
[12] Adam Smith, The Wealth of Nations, Penguin 152-53, traduzione mia.
[13] Sempre che sia anche in grado di difenderlo con
la forza delle armi, sue o dello Stato.
[14] Da ragazzo ebbi il privilegio (capito decenni dopo) di conoscere un attempato
mezzadro che coltivava un piccolo podere ad un paio di kilometri dal mercato
più vicino. Sbarcava il lunario, ma se fosse vissuto dieci o più kilometri più
in là, gli intermediari gli avrebbero portato via il grosso dei guadagni.
[15] Storia di Roma da Romolo all’invasione
dei Galli.
[17] Per più di 1000 anni ogni papa
cingeva due corone: quella di Sommo Pontefice e quella di re degli Stati
Pontifici. Gli interessi delle due non sempre coincidevano, per dirla con
moderazione. Forse l’episodio più grottesco fu la guerra tra Sua Maestà
Cristianissima Filippo II di Spagna e Papa Paolo IV per la contea laziale di
Paliano nel 1556.
[18] Sia qual sia il governo al
potere nel Regno Unito, la camera dei Lords esiste per impedire che i Comuni
prendano qualsiasi decisione contraria agli interessi dei terratenenti. Ben lo
sa il Duca di Westminster, che rifiuta di vendere agli americani il terreno su
cui si alza l’ambasciata USA a Londra. La rendita che ne ricava ha permesso ai
suoi antenati, e permetterà ai suoi discendenti, di vivere “raccogliendo quello
che non hanno seminato”.
[19] Questo termine vale tanto per i
re e principi di una volta quanto per presidenti , chairmen e simili titoli
odierni.
[20] Si pensi ai Conti di Modica in
Sicilia, che crearono una prosperità diffusa che dura ancor oggi; o alla
Marchesa di Barolo (1791-1864) benefattrice di Don Bosco.
[21] Silvio Gesell sostiene che la
decadenza dell’Impero Romano fu dovuta alla superstizione che la moneta dovesse
esser fatta di metalli preziosi, le cui miniere erano già esaurite dai tempi di
Augusto. La mancanza di moneta avrebbe causato il collasso della suddivisione
di lavoro, e con essa dell’organizzazione politica. Die
Natürliche Wissenschaftsordnung Parte 3 cap. 17.
[22] Plinio si schierò dalla parte di
Pitagora, maledicendo il giorno in cui Roma aveva abbandonato la sua moneta
iniziale di metallo vile per sostituirla con l’argento. I patiti dei metalli
preziosi, che considerano un progresso quello che in realtà fu un regresso,
continuano a non capire Plinio ancora oggi.
[23] Il principio di quella
usurpazione fu la fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694. Napoleone,
consapevole che la rovina della Francia fosse stata opera del finanziere Necker
e compagnia, voleva una Francia libera di debito, il che spiega il suo Sistema
Continentale. Tentò la resistenza armata contro Mammona, ma fallì a Waterloo
(1815).
[24] L’ironia (per non dire nemesi)
storica non si fece attendere: re e papa morirono dentro l’anno (1314) in cui
arse sul rogo Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dei Templari.
[26] Se lo chiese Lincoln (1809-1865)
che finanziò la Guerra di Secessione con 450 milioni di “Greenbacks” e che non
volle ritornare al sistema aureo a conflitto finito. Se lo chiese anche Kennedy
(1917-1963), che nel giugno 1963 autorizzò il Tesoro (Executive Order 11110) ad
emettere 4 miliardi di dollari senza “prenderli in prestito” dal FED.
[27] V. Libia marzo-ottobre 2011. 150 anni fa furono i cannoni a canna rigata di
Cialdini a fare lo stesso con il Regno duosiciliano.
[29] In realtà non fanno altro che
raccogliere polvere.
[32] Comunicazione privata, senza
citazione.
[33] Che non per nulla in Italia
ricevevano il nome di “vespasiani”. Ma non se ne vedono più, chissà perché.
[34] Lo si trova in Inflation and Interest Free Money di Margrit Kennedy, New Society
Publishers p. 19. Le
date sono aggiunte.
[35] Maurizio Blondet, Lettera aperta ai guru dell’economia che ci
prendono per imbecilli, Avvenire 18-4-2000
[36] Circa 1854. Cortesia di Jeffrey
Smith (geonomist@juno.com).
[37] Durante le quali non se ne stava
con le mani in mano: costruiva cattedrali o adornava suppellettili di uso
comune che oggi si trovano solo nei musei. L’italiano medio odierno lavora per
lo Stato per 28 settimane, per sè 20 (se ha famiglia ha bisogno anche dello
stipendio della moglie) e può considerarsi fortunato se gli spettano 4
settimane di vacanze per annoiarsi o a casa o in luoghi esotici non esenti da
terrorismo o da catastrofi naturali.
[38] Gli storiografi agganciati al
carrozzone terratenenza-usura fanno della Rivoluzione Industriale la “causa”
della Questione Sociale.
[39] Mi permetto di trascrivere una
facezia inglese del 17o secolo che non ha traduzione italiana.
Comporta un elemento di magia. L’idea
è di Mason Gaffney e Fred Harrison, The Corruption
of Economics, Shepheard Walwyn 1994.
[40] Uno di costoro fu Zi’ Grazio Forgione, genitore
di S. Padre Pio da Pietrelcina. Emigrò due volte: 1900-03 e 1910-17. Dieci anni
di esilio per pagare un debito di 100 (cento)
lire e permettere al figlio di divenire sacerdote!
[41] Specialmente le granaglie. Si
ricordi che Salvatore Giuliano (1923-1950) sostenne il primo conflitto a fuoco
con le forze dell’ordine per due sacchi di grano sottratti all’ammasso.
[42] La relazione tra interesse,
contante, baratto, cambiale e agricoltura di sussistenza viene pienamente
spiegata ne l’Ordine Economico Naturale
di Silvio Gesell Parte 3. L’interesse non si può permettere di salire al di là
del livello al quale la gente giudica che non vale la pena pagarlo, e ritorna
al baratto-sussistenza. In una economia monetaria, la cambiale fa muovere beni
e servizi liberi da debito, ma è ingombrante e a volte inaffidabile.
[43] L’America Latina è piena di esempi di codesti
fallimenti.
[44] N. 24.
[45] N. 79, corroborato da Centesimus Annus (1991) N. 48.
[47] Il termine ‘socialismo’ ha acquistato tre
significati diversi. Secondo Proudhon (1809-65) si trattave di eliminare
proprio rendita da non lavoro ed interesse; secondo Marx (1818-83) si trattava
di statalizzare i mezzi di produzione; e secondo i moderni si tratta di
intervento statale nell’economia, senza preoccuparsi troppo del grado di
sussidiarietà.
[50] Anche oggi, chi si contentasse di vivere in un
villaggio abbandonato, avrebbe una casa gratis.