QUESTIONE FONDIARIA
E STORIA
La questione di cui ci occuperemo fa da sfondo a qualsiasi libro di storia di qualsiasi
luogo e periodo. Quanto meno l’autore ne percepisce l’importanza come causa
determinante di guerre, trattati, matrimoni dinastici, colonialismo, elezioni
papali, rivoluzioni, esecuzioni capitali e chi più ne ha più ne metta, tanto
più costui rivelerà al lettore attento, e solo
a lui, i drammi quando non le tragedie della sperequazione fondiaria.
Dico questo perchè nessuno, ripeto nessuno degli autori da me consultati
mostra di percepire quell’importanza. Se qualcuno lo avesse fatto, sarei grato
ai lettori di questo saggio che avessero la bontà di comunicarmene gli estremi.
I due autori che mi aprirono gli occhi: Henry George (1839-1897) e Silvio
Gesell (1862-1930) ne trattano in teoria, e abbastanza lucidamente da rendere l’argomento
irrefutabile. Ma gli accenni storici sono insufficienti.
Questo saggio si propone di proiettare la questione fondiaria dallo sfondo
al primo piano della storia. Non esaurirà l’argomento per ovvi motivi, ma gli
esempi scelti, o meglio accadutimi, dovrebbero bastare per stimolare ulteriori
ricerche magari da sfociare un giorno in
una soluzione politica.
Per capire la questione, presupposto indispensabile per parlarne, diamo la
parola ad Adam Smith (1723-90), padre dell’economia moderna.
“Non appena la superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà
privata, i terratenenti, come tutti, amano mietere dove non hanno seminato, ed
esigono una rendita anche per i prodotti naturali del suolo. Il legname delle
foreste, l’erba dei prati, e tutti quei frutti della terra che quando questa
era in comune costavano al lavoratore solo la fatica di raccoglierli, adesso
hanno un prezzo. Costui deve pagare per il permesso di raccoglierli; deve
consegnare al terratenente una porzione di quello che raccoglie o produce”.[1]
Da buon pragmatista britannico, Smith si ferma alla
costatazione di fatto. Dà per scontato che “chi ama mietere dove non ha
seminato” abbia tutti i diritti a massimizzare la rendita: o abbassando i
salari dei dipendenti, o aumentando il canone degli affittuari della proprietà,
o entrambe le cose quando la proprietà è grande abbastanza da permetterlo. Facciamo
aprire il discorso a
La Sicilia
Da ragazzo ebbi il privilegio (capito solo decenni dopo)
di conoscere Don Cola Tampuso, un attempato contadino di Palma di Montechiaro
(AG) che chissà come era andato a finire in quel di Cefalù (PA), dove coltivava
un piccolo podere in regime di mezzadria insieme all’anziana moglie.
Nonostante che il 50% dei frutti del suo lavoro andassero
a finire nelle tasche di uno che “amava mietere dove non aveva seminato”, Don
Cola sbarcava il lunario, dato che l’appezzamento distava da Cefalù non più di
due chilometri. A distarvi dieci o più, gli intermediari gli avrebbero portato
via quasi tutto il resto, lasciandogli solo il giusto per sopravvivere. Il
lettore avrà riconosciuto la “legge di ferro” di David Ricardo (1772-1823).
Cerchiamo ora di capire cosa succede quando “la
superficie territoriale di un dato paese diventa proprietà privata”.
In regime di recintazione sorgono due sovranità: quella del governo, che la sbandiera con vessilli,
uniformi, inno nazionale, tassazione e orpelli vari, e quella dei terratenenti,
che si guardano bene dallo sbandierare alcunchè, però la esercitano di fatto,
come la esercitava il padrone del podere di Don Cola.
Il quale, come tutti i tagliati fuori dalla lotta per il
potere, faceva il proletario, o se si vuole il nullatenente. Campava,
circostanze permettendo.
Quattro sono le conseguenze della recintazione:
·
Essa conduce,
prima o poi, al latifondo. Ciò si
deve alle diversità individuali decretate dalla natura umana. I gestori meno
abili di una proprietà non ci metteranno molto a venderla, facendola così fondere con quella di chi ci sa fare e
che offre loro una certa somma. Questa è una ragione per cui nessuna “riforma”
agraria basata sulla recintazione abbia mai
avuto successo.
·
Il latifondo
ha sempre come contropartita la schiavitù.
Una delle sue facce odierne consiste nel deprimere
i salari tanto di chi vi lavora dentro quanto fuori, dato che la recintazione
spinge il margine di coltivazione sempre più lontano dai centri di consumo.[2]
È una seconda ragione del fallimento delle cosiddette “riforme” agrarie: la
distanza delle proprietà dai centri di consumo le rende antieconomiche.
·
Per
massimizzare la rendita, il “sovrano” latifondista deve poter contare su un pool di disoccupati, così da poter
mantenere i salari bassi, e su tariffe
doganali che lo proteggono dalla concorrenza, così da poter mantenere i
prezzi di vendita alti. Il primo scopo lo ottiene tenendo fuori uso buona parte
della proprietà, il che nega un equo accesso ad altri, e il secondo manipolando
le politiche governative in un modo o in un altro. Ecco perchè la
disoccupazione non è mai stata
eliminata dal 1789 in poi.
·
Man mano che
la società si va dividendo in un gruppo poderoso (ma necessariamente piccolo)
di terratenenti e uno spodestato, ma in continuo aumento, di nullatenenti, è la
lotta di classe, che non è affatto invenzione marxista: basta Tito Livio per comprenderla.
Lo spargimento di sangue, sia di
guerra intestina sia estera provocata da chi vuole proteggere i privilegi
ingiusti a tutti i costi, è inevitabile.
Ce ne è abbastanza per un trattato, ma limitiamoci alla Sicilia, specialmente
ai suoi ultimi 200 anni.
Fino al 1806 vigeva in Sicilia il demanio,
istituto feudale sapientemente riformato dal diritto napoletano.
Suo scopo era di impedire ai terratenenti di usurpare la sovranità regia
sul suolo per mezzo di una vera pletora di usi
civici che ne regolavano l’uso e ne impedivano, o severamente limitavano,
l’abuso. I Don Cola del tempo non scialavano, ma non morivano di fame:
coltivavano in uso privato appezzamenti demaniali che bastavano loro per
mangiare, vestirsi, avere un tetto, e godere di un reddito sufficiente per
soddisfare i loro obblighi. Non c’era né disoccupazione né emigrazione.
Il demanio era un istituto paternalista, che schierava il sovrano dalla
parte del popolo contro i potenziali arraffaterra desiderosi di “mietere dove
non avevano seminato”. Non si trattava quindi di un equilibrio, ma di uno squilibrio contenuto, come quello,
diciamo, di un tappo di bottiglia di spumante maldestramente usato per bloccare
una diarrea.
Il primo colpo al sistema lo infersero le leggi murattiane del 1806-08.
Abolito il diritto feudale, i terratenenti assaporarono cosa volesse dire
vivere di rendita per più di 40 anni.
Fu come fare assaggiare il sangue umano al leone.
I moti rivoluzionari, come dovunque, non furono opera “del popolo” ma di
coloro che avevano fiutato la possibilità di vivere del lavoro altrui. Ai
poveri si rubarono perfino le suppellettili ammucchiate sulle barricate del
1848.
Ferdinando II l’ebbe vinta, ma per poco. Non solo abolì la costituzione, ma
tra il 1850 e il 1854 “redintegrò” al demanio più di 100mila moggie di terreno
usurpato dagli arraffaterra murattiani in tutto il Napoletano.
Non c’è da meravigliarsi quindi che costoro gridassero a “la tirannide
borbonica”, inneggiando a Garibaldi e ai Piemontesi: liberatori sì, ma non dei
poveri, come tambureggiano i libri di testo.
Nel 1860 venne la disoccupazione, e con essa la fame. Che fare con
l’improvviso straripare di proletari, proletarie e proletarietti di ambo i
sessi?
Non c’era che l’imbarazzo della scelta: dallo scherzoso modest proposal di Jonathan Swift
(1667-1745) cioè servire i loro neonati come manicaretto prelibato alle tavole
dei ricchi, a quello di Malthus (1766-1834, che ancora viene preso sul serio)
di convincerli ad avere meno figli; al Terrore, il cui vero scopo era una
drastica riduzione della popolazione francese[3];
all’emigrazione tipo irlandese, volontaria o forzata in Australia (anche per il
furto di un fazzoletto), alla coscrizione di centinaia di migliaia di
disoccupati come carne da cannone, o alla facile incarcerazione (gli U.S.A. ne
hanno sui 3 milioni, circa l’1% della popolazione). I Piemontesi optarono per i
plotoni d’esecuzione, con i quali ottennero il doppio scopo di eliminare buona
parte del sovrappiù di proletariato e convincere l’altra ad andarsene.
E così la Sicilia “gode” (se è il termine giusto) di codesto regime di
proprietà fondiaria ancora oggi. Il principio liberale “ognuno per conto suo e
il diavolo si porti chi rimane indietro” ha funzionato a dovere. Per finire
diamo la parola a uno che di storia non ne sapeva, ma che aveva assaggiato il
coltello dalla parte della lama.
L’intervista ebbe luogo a Calcarelli, Palermo, verso il 1960, a circa 100
anni dalla “liberazione”.
“E allora i figli emigrano. Vanno in Germania, a Torino. Io non è che mi
nascondo: quando mio figlio lavorava con me alla fine della settimana, la
domenica, se gli servivano 100 lire per ire a tagghiarsi la barba, iddu questa
disponibilità non l’havìa. E se ne scappò perchè riconoscìu che lavorando qua
non ci restava neanche 100 lire. L’altro fratello, pure lui fu costretto a
scappare, come scapparono tutti gli altri. Allora non c’era progresso, non
c’era terreno, e dovevamo fare gli schiavi per forza, e oggi siamo più schiavi
ancora per mancanza di soddisfazione. E io penso che se non si prendono
provvedimenti finisce tutto nella Sicilia, finisce tutto. Certo, di fame non è
che si muore, ma sta siccando tutto, i giardini sono tutti abbandonati, gli
orti non li fanno più nuddu. La gente si contenta di arrivare alla pensione e
di non travagghiari più. La legge è diventata chista: “Il poco m’abbasta e
l’assai m’assopérchia”. Male me la passavo prima, almeno ora me la passo pure
male, però non faccio niente”.[4]
Il 24 maggio 1992 ebbi l’opportunità di percorrere al rallentatore (leggi:
bicicletta) i 160km Cefalù-Catania.
La desolazione mi colpì: unico segno di attività economica, un pastore
solitario andato a ispezionare (in auto) la sua mandria di bovini vicino al
Colle del Contrasto. Da Troina a Paternò era un susseguirsi di campagne
abbandonate e case coloniche in rovina. Le macerie avevano aspetto recente. Non
potei collegare le mie osservazioni con la questione fondiaria semplicemente
per non essermici ancora imbattuto, il che sarebbe avvenuto nel 1998-2001.
La stesura dell’analisi siciliana risale al 2005. Da allora le cose vanno
di male in peggio. Alla serie recintazione > latifondo > lotta di classe
> guerra manca solo l’ultimo termine, ma certe avvisaglie sono state i
blocchi stradali di gennaio 2012. Mi limiterò a segnalare che i 2,5 milioni di
ettari siciliani rimangono fiscalmente
sterili per lo Stato, che invece si impegna ad estorcere i frutti del
lavoro dalle tasche dei cittadini. I terratenenti, che esercitano sovranità
reale, hanno avuto la meglio, e non ci vuole un profeta per predire che la
situazione prima o poi esploderà nella violenza.
Kenya (Africa Orientale ex-britannica)
Il trait-d’union tra la Sicilia e
il Kenya, a 5mila km di distanza l’una dall’altro, in questo saggio, è solo la
mia persona, nata nella prima e vivente nel secondo. La differenza, osservata
personalmente, è lo spargimento di sangue dovuto alla questione fondiaria, che in
Kenya decora i media locali per lo meno settimanalmente.
Quel cappotto rabberciato da mendicante[5]
al quale assomiglia una carta politica d’Africa, divide il continente in una
cinquantina di quello che il pensiero debole chiama “nazioni”. E poi si apprende,
a scuola, che in ogni “nazione” africana vivono centinaia di “tribù” che le
Grandi Potenze europee “pacificarono” dopo il Congresso di Berlino (1885) e che
dall’indipendenza in poi (1956-2008) non fanno che scannarsi a vicenda.
La realtà, però, è un’altra. Definendo come “nazione” una popolazione omogenea in usi e costumi, ne esistono in Africa un migliaio o giù di
lì. Alcune raggiungono cifre rispettabili: i 30 milioni di Igbo in Nigeria, per
esempio, sono più numerosi di scandinavi, danesi e belgi messi insieme. Ma li
si continua a chiamare “tribù”, dimenticandosi che a coniare quel termine fu
Servio Tullio sesto re di Roma, il quale divise l’Urbe in quattro distretti tributari (dai quali il termine). Come
e quando codesto termine sia stato appioppato alle nazioni africane non mi è
dato saperlo.
Per cui se i membri di due suddette nazioni, dopo decenni di convivenza
pacifica e perfino di matrimoni vicendevoli, esplodono in una orgia di
distruzione e di morte, ci deve essere qualcosa di più profondo della
differenza etnica, e così infatti è.
Il “Titolo” di Proprietà
Il paragrafo di Smith riprodotto a p.1 espone un bubbone sociale che stava
già esplodendo ai suoi tempi dopo aver covato un’infezione per circa due
secoli: l’espulsione degli orgogliosi ’yeomen’ inglesi dalle terre che avevano
coltivato per secoli, e che l’ingordigia di Enrico VIII aveva venduto ai nuovi
ricchi in cambio di “titoli di proprietà”. Sulle prime gli espulsi si erano
rifugiati nei demani della Corona, ma alla fine del 18° secolo anche questi venivano
recintati dai grandi terratenenti. Sarebbero morti di fame se la Rivoluzione
Industriale non fosse intervenuta con i suoi salari da fame, ma sempre salari,
che permisero agli espulsi di sopravvivere.
I nullatenenti discendenti delle vittime di quella ingiustizia d’origine
andarono ad espropriare nazioni africane perchè, come i nullatenenti spagnoli[6]
di due secoli prima che avevano espropriato le nazioni indigene sudamericane,
erano popoli militarmente forti. Italiani e irlandesi, militarmente deboli,
andarono a cercare fortuna nell’America settentrionale. Ma la spinta
surrettizia per i quattro popoli fu la
stessa: i nuovi terratenenti, con i loro “titoli di proprietà” sostenuti
dal potere politico/militare, avevano costretto
i nullatenenti a fare la fame o a emigrare. Dietro ad ogni “titolo” emesso
dall’autorità, sia essa inglese, spagnola o piemontese, vi fu un atto di violenza.
Alla radice
Tutte le antiche culture, dovunque si guardi, avevano senza eccezione
sviluppato un sistema fondiario di occupazione comunitario. Abbiamo già visto come un tale sistema, detto “demaniale”,
esistesse nel Regno Duosiciliano fino al 1860.
Vi è una ragione naturale, e quindi di senso comune, per una tale
istituzione: la terra (a) non è manufatta, e (b) è immortale. Ne segue che una
proprietà terriera è comunitaria per
diritto naturale, giacchè la comunità
è anch’essa immortale come la terra
su cui risiede. La proprietà terriera individuale è un costrutto giuridico.
Dota di privilegio ingiusto un mortale,
autorizzandolo a chiamare “suo” qualcosa per cui non ha lavorato e che un
giorno, volente o nolente, dovrà lasciare.
È vero che un tale privilegio può esser temperato da extra doveri assunti
dal terratenente. Così fu durante i sette secoli di feudalesimo. I terratenenti
ecclesiastici si accollavano i servizi sociali e quelli secolari i servizi di
amministrazione e di difesa. Più modernamente, il terratenente potrebbe
sborsare un canone di occupazione per la superficie occupata, intascando i
proventi da lavoro. Sarebbe come estendere il sistema di parcheggio di una
città, dove si paga un tot giornaliero per il privilegio di parcheggiare
un’auto, in esclusiva e per un tempo convenuto. Se la legge autorizzasse il
primo occupante a vendere il titolo
di occupazione al suo successore, e così via, il municipio perderebbe gli
introiti da parcheggio.
Se la stessa legge che consente ad un municipio di riscuotere un canone di
occupazione per un auto parcheggiata temporaneamente, venisse estesa a edifici “parcheggiati”
permanentemente, nella stessa misura di tot unità monetarie per metro quadrato
per giornata, il sovrappiù di entrate municipali andrebbe a impinguare
l’erario. Quella somma potrebbe coprire la gran maggioranza, se non la
totalità, della spesa pubblica. Lo Stato non avrebbe bisogno di impiegare un
esercito di funzionari, anche armati, con poteri draconiani di confisca dei
frutti del lavoro, e l’economia verrebbe liberata dalle pastoie che ne
impediscono il decollo.
Con il “titolo” di proprietà succede esattamente l’opposto. Quando un “padrone”
lo vende ad un altro, la porzione corrispondente alla superficie nuda, che in
giustizia dovrebbe andare alla comunità, gli va in tasca. Questa situazione,
che in una Europa addormentata sotto una coltre burocratica da due buoni secoli
non viene percepita, in Africa ha effetti esiziali come vedremo poco più sotto.
Per provare che dietro a ciascun “titolo” concesso a un individuo (e quindi
innaturale) vi sia un atto di violenza, dalla conquista militare fino
all’omicidio, è sufficiente leggere un caso qualsiasi, dovunque nel mondo.
Eccone uno del 1999 dalla Louisiana.
Il richiedente di un prestito presso la National Housing Authority (FHA)
aveva offerto il suo “titolo di proprietà” come garanzia. Tre mesi di cerca
avevano consentito al suo avvocato di farlo risalire al 1803. Ma la FHA non fu
soddisfatta, e richiese che il titolo venisse rintracciato “alle origini”.
L’incavolatissimo avvocato rispose come segue:
“Non sapevo che una persona istruita, in questo paese, particolarmente se
avente a che fare con la proprietà fondiaria, non potesse sapere che la
Louisiana venne comprata dagli Stati Uniti dalla Francia nel 1803, l’anno di
origine del titolo sottoposto dalla nostra richiesta. Per l’edificazione dei
mal informati burocrati della FHA, il titolo di proprietà anteriore agli Stati
Uniti venne ottenuto a suo tempo dalla Francia per Diritto di Conquista dalla
Spagna. La terra era venuta in possesso della Spagna per Diritto di Scoperta,
ad opera di un capitano di mare chiamato Cristoforo Colombo, che godeva del
privilegio di cercare una nuova rotta per l’India dall’allora monarca regnante
Isabella. Come donna pia che era, e scrupolosa circa i titoli terrieri tanto quanto
la FHA, la buona regina prese la precauzione di ottenere la benedizione papale
prima di vendere i gioielli che le avrebbero permesso di finanziare la
spedizione di Colombo. Come suppongo sappiate, il Papa è l’emissario di Gesù
Cristo Figlio di Dio. Ed è opinione comune che Dio abbia creato il mondo. Per
cui penso sia prudente presumere che abbia anche creato quella parte del mondo
detta Louisiana. Ne sarebbe quindi il padrone originale. Spero proprio che
lorsignori trovino la rivendica di codesto titolo di origine soddisfacente. Ci
concedete o no questo maledetto prestito?”
Il prestito venne concesso. Ora che c’entra la Louisiana con il Kenya? C’entra
perchè il punto chiave è lo stesso.[7]
Un titolo di proprietà vale né più né meno della capacità del possessore di
difenderlo con la forza. Quando è lo Stato a farla da terratenente, la sua
rivendica circa il territorio che chiama “nazionale” dipende dal potere delle
sue forze armate; ma quando il terratenente è un individuo, e per lo più
disarmato come nel Kenya, la sicurezza della sua proprietà dipende dalla
capacità e volontà delle forze dell’ordine di difenderne il titolo.
Gli eventi dei primi di gennaio 2008 costà non sono che una coda sanguinolenta
di uno stillicidio di morti e feriti che dura da più di 50 anni, trasformandosi
in fiumana di tanto in tanto. Si può cominciare con la rivolta dei Mau Mau negli
anni Cinquanta: da allora, decine di migliaia di unità di capitale umano e
milioni di ora-uomo sono state immolate sull’altare di un idolo chiamato “titolo
di proprietà”.
La storia del nostro idolo è lunga. Venne intronizzato da Enrico VIII
d’Inghilterra (1509-47), e importato in Kenya dai non tanto illuminati
discendenti degli ex-yeomen ridotti a nullatenenti dalle devastazioni dello
stesso idolo. Cosa sarebbe successo se i colonizzatori britannici avessero
applicato in Kenya un sistema di proprietà terriera illuminato e pacifico
invece di uno oscurantista e violento?
Una Soluzione
Speculiamo un po’. Invece di emettere titoli individuali a ciascuno dei coloni bianchi, come venne fatto, il
governo coloniale avrebbe fissato dei confini per ciascuna nazione/comunità già
esistente, garantendone la sicurezza con le forze dell’ordine. Ciò fatto,
avrebbe emesso titoli di proprietà a ciascuna
nazione/comunità come tale, in cambio di un tributo fisso come contropartita per la protezione armata e per
l’amministrazione. Ogni colono bianco avrebbe pagato un canone di occupazione
contrattato con la comunità, la
quale gli avrebbe garantito tanta terra quanta ne avesse avuto bisogno, in
termini stilati caso per caso per iscritto. Il contratto avrebbe avuto forza di
legge davanti al governo coloniale.
Le quantità del tributo sarebbero state calcolate secondo la località e
densità di popolazione. Non si sarebbero confiscati i frutti del lavoro a
nessuno, con il risultato desiderabile che quanta più ricchezza fosse stata
prodotta dentro i confini di una comunità, tanto meno il tributo fisso da
pagare al governo avrebbe gravato su di essa. Per di più, una politica di
salari bassi non sarebbe stata possibile, data la opzione dei nativi se
lavorare in proprio o per il colono bianco.
Ne sarebbe scaturito un circolo virtuoso. Coloni bianchi (allora) o neri
(dal 1963) invece di essere percepiti come intrusi, e pertanto sfruttatori,
sarebbero stati percepiti, e continuerebbero ad esserlo, come fonte di
ricchezza e di entrate erariali, dirette per la comunità e indirette per lo
Stato.
Non fu così. Quando le forze dell’ordine della Corona britannica non
protessero più i titoli dei coloni bianchi, costoro dovettero andarsene, e con
loro andò in malora gran parte del capitale creato in mezzo secolo di duro
lavoro.
Come prova del suddetto, una dozzina di coloni bianchi ancora oggi coltivano terre in Kenya, ma senza sbandierare “titoli
di proprietà”. Pagano invece un canone ai Maasai, che proteggono l’occupazione
come contropartita.
Nell’Africa subsahariana solo i popoli Sotho, Swazi e Tswana sono nazioni-Stato
sensu stricto. I Somali lo sono
anch’essi, ma di Stato non ne vogliono sapere, il che è affar loro, non della
cosiddetta ‘comunità internazionale’ che vuol dettare legge a destra e a manca,
e per lo più a sproposito.
Il Kenya, Protettorato e Colonia Britannica multinazionale fino al 1963, è
divenuto Stato da allora, ma è rimasto multinazionale, e qui sta il busillis:
chi comanda?
Dai tempi più antichi, un’accozzaglia di nazioni sotto la stessa autorità
politica si chiamava Impero. Ma oggi quella parola, orrore, è politicamente
scorretta, per cui è anatema perfino suggerire che uno stato così verrebbe
governato meglio da un Re Travicello di natura estranea ai sudditi-rane che da
un Re Biscione d’acqua che li percepisce come manicaretti.
Il primo Presidente (1963-78) apparteneva alla nazione Kikuyu. Da uomo
perspicace che era, si rendeva conto che una democrazia a base di partiti
politici sarebbe stata rovinosa per una società multinazionale.[8]
Aveva quindi optato per il partito unico, che benchè limitasse certe libertà
mantenne la pace fino alla sua morte.
Qui però vanno capiti i Kikuyu. Costoro sono un popolo di formiche operose,
che sanno come affrontare rischi ed accollarseli. Non esitano a emigrare in
capo al mondo, dalla Scozia al Giappone, e fare fortuna. Forti di circa quattro
milioni, sono andati uscendo fuori dai 13mila km2 della loro
provincia per emigrare dentro il Kenya stesso, insediandosi a decine di
migliaia, tanto nelle campagne quanto nelle città, dei territori di tutte le
altre tribù (pardon, nazioni). E siccome lavorano, e sodo, hanno fatto tanta
più fortuna quanto più si sono andati insediando tra nazioni-cicala, che per
carità di patria è meglio non nominare.
Il presidente, com’è logico, ne aveva favorito l’emigrazione, dando loro,
indovina, il famigerato “titolo” di proprietà su terre altrui. Fu una bomba ad orologeria, dato l’attaccamento
morboso di tutte le società africane alle loro terre ancestrali. Poteva durare
solo fino a quando le forze dell’ordine avessero difeso i titoli.
Il secondo Presidente, (1978-2002), non-Kikuyu, riuscì a tenere il cane
addormentato per dieci anni fino al 1988, sempre con il partito unico KANU
(Kenya African National Union). Ma non aveva fatto i conti con i paladini della
Democrazia, il cui pensiero unico, spregiante le realtà sociali, va imposto al
mondo anche a prezzo di guerre sanguinose, come l’Europa ben sa.
Quell’anno 1988 l’ambasciatore USA in Kenya sferrò un calcio ben assestato
al cane dormiente, pressionando il governo ad accettare il sistema
multipartitico, al di fuori del quale, si sa, non vi è che pianto e stridore di
denti.
Siccome i partiti africani non hanno ‘programmi’, ‘manifesti’ e coriandoli
del genere, gli elettori votano sempre a uno della loro nazione, il cui
‘programma’ fisso è: “Io voglio diventare Presidente”.
Per cui avvicinandosi le elezioni del 1992, il presidente vide chiaro che a
lasciare i Kikuyu indisturbati dov’erano, gli avrebbero votato contro. E si
diede da fare per organizzare quello che la stampa occidentale faceva passare
come “scontri tribali” ma che in realtà erano operazioni militari di pulizia
etnica di Kikuyu da aree non-Kikuyu.
Ci riuscì per ben due volte: 1992 e 1997. Mancano ancora cifre rotonde su quanti
cadaveri e quanto capitale distrutto ne siano stati il risultato.
Nel 2002 una coalizione di Kikuyu e altre nazioni stufe di un potere
presidenziale che superava di gran lunga quello di un Luigi XIV qualsiasi,
riuscirono a sconfiggere il potere KANU, presidente e accoliti, e ad installare
un secondo Kikuyu.
Quando gli elettori del 2007 trombarono 22 dei 27 ministri
dell’amministrazione uscente, era chiaro che avrebbe vinto l’opposizione. Ma la
storia insegna quanto sia facile truccare elezioni dai seggi di potere. E così
fu.
La bomba esplose a non più di dieci minuti dall’annunzio dei risultati.
Questa volta il paese si spaccò nettamente in due, e la pulizia etnica, del
tutto irrazionale, irrorò il paese di fiumi di sangue illuminati da tragici
falò di proprietà distrutte.
Bilancio finale: circa 1200 morti, un numero imprecisato di feriti e
600mila senza tetto. La maggioranza di questi ultimi ha trovato terra e lavoro
altrove. Una minoranza visibile vive ancora in campi di rifugiati, sbandierando titoli di proprietà
assolutamente inutili.
Le immagini televisive trasmesse a
suo tempo, per quanto agghiaccianti, non danno che una pallida parvenza della
realtà. Che ben nascosta sotto una coltre secolare di disinformazione, rivela
la sua vera faccia solo a chi è al tanto: la Questione Fondiaria, ancora
irrisolta in pieno Terzo Millennio.
La Doppia Corona
Nella storia delle istituzioni ecclesiastiche, dal papato in giù, la
Questione Fondiaria incombe massiccia, ma senza mai affiorare dal sottofondo.
Che però è visibilissimo, come notato al principio, per chiunque abbia letto
George e Gesell.
A partire dell’Editto di Tessalonica (380) che impose la confessionalità di
stato all’Impero, cominciarono a fioccare le donazioni fondiarie non “alla
Chiesa” come maldestramente dicono gli storiografi incastonati, ma a papi,
vescovi e preti, cioè uomini in carne ed ossa che si beficiarono della rendita
di quegli appezzamenti.
Ma come in tutte le cose di questo mondo, vi fu una doppia maniera di farne
uso: una benevola, che come già visto consistette nel mantenere una fitta rete
di servizi sociali: educazione, sanità, assistenza ai poveri e orfani, alloggi,
eccetera, tutti gratis, cioè che non costringevano le autorità civili a tassare
i redditi da lavoro. Un’altro, malevolo uso della stessa rendita era, indovina,
intascarla personalmente, per usi non sempre confessabili, e che permettevano a
molti membri della gerarchia di fare una vita più o meno “bella”.
Ci porterebbe troppo lontano analizzare 17 secoli di questione fondiaria
ecclesiastica. Basta accennare qui all’anomalia che dalle vistose donazioni di
Pepino di Heristal (756) mise su gli Stati Pontifici, facendo cingere al papa
una doppia corona: quella di Sommo Pontefice e quella di re dei summenzionati
Stati. E questo per più di mille anni, fino alla loro scomparsa nel 1870.
Paul Johnson (1928- ) così si
diffonde nelle lodi del “titolo di proprietà”:
“La proprietà fondiaria assoluta (Eng. freehold)
era sconosciuta nell’Europa dei barbari. Infatti, fu solo imperfettamente
sviluppata da Roma e Bisanzio. La chiesa
ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà e la inscrisse nei
codici legislativi che elaborò, e così
indelibilmente che codesta proprietà sopravvisse le forme di feudalesimo
superimpostevi. Lo strumento del titolo (o carta) fondiario, che investe di
proprietà terriera assoluta sia l’individuo privato che la corporazione, è una
delle grandi invenzioni della storia umana. Preso insieme alla nozione di stato
di diritto, si tratta di un istituto economicamente e politicamente
importantissimo. Giacché una volta che un tizio è in condizioni di possedere
terra assolutamente, senza qualifiche sociali o economiche, e una volta che
quel diritto viene protetto, anche contro lo Stato, dallo Stato di diritto,
costui ha una vera sicurezza di proprietà”.[9]
Johnson confonde, come tanti, la Chiesa con la sua gerarchia. Quello che il
“titolo” realmente operò fu una spaccatura della gerarchia stessa tra alto e
basso clero, il primo vivente di rendita, il secondo arrangiandosi come poteva,
dall’elemosina all’intrallazzo. E naturalmente facendo perdere un tempo
smoderato a preti che si dedicavano alla caccia di benefici invece che ad
espletare l’ufficio per cui erano stati ordinati. Non parliamo poi della
famigerata lotta per le investiture, che vide figuri più o meno loschi accedere
agli ordini sacri per lo più fraudolentemente pur di godere del “beneficio”.
Questo solo paragrafo darebbe di sè per un bel volume, ma non qui.
L’equilibrio fondiario ecclesiastico, come quello Napoletano della sezione
precedente, non fu affatto stabile, anche se dava quell’impressione, e per
secoli. Fu uno squilibrio contenuto, che
si mantenne fino a quando i sovrani accettavano il controllo dall’alto, cioè
del Decalogo, e quello dal basso della fitta ragnatela di corporazioni,
confraternite e municipi, alle cui libertà giuravano fedeltà.[10]
Mi limiterò ad un solo esempio, ventilato in precedenza: l’Inghilterra Tudor
nei tre anni 1536-39.
Quello che più colpisce in History of
the Reformation in England and Ireland di William Cobbett (1763-1835) (ma
solo se si è letto George e Gesell) è come un lavoro di assistenza sociale ad
opera di mille monasteri gestiti da 10mila monaci di varî ordini, e in funzione
da 900 anni, si sgretolò in soli tre
anni ad opera di Thomas Cromwell (1485-1540), scagnozzo di Enrico VIII.
Costui arrivò perfino ad usare la polvere pirica (la dinamite non c’era) per
demolire le grandi abbazie, le cui rovine si ergono ancora oggi maestose dal
paesaggio.
E la terra? I Lords che la arraffarono, inclusi i prelati della nuova chiesa
anglicana, e i loro discendenti ancora oggi, si fecero un baffo dell’assistenza
sociale, e intascarono le rendite, “amando mietere dove non avevano seminato”.
Per chi non è al tanto della questione, nessun partito laburista è mai riuscito
a sbarazzarsi della House of Lords, come ripetutamente promesso e mai mantenuto
in sede di campagna elettorale, perchè essa esiste con lo scopo preciso di
impedire alla Camera dei Comuni di intaccare i privilegi fondiari assicuratisi
dai loro antenati con il semplice sotterfugio di apostatare da Roma per arroccarsi
a Westminster. Alla faccia di “una delle grandi invenzioni della storia
umana”.
Come i Latifondi Cancellarono la
Polonia dalle Carte Geografiche
Chi
consulti una carta storico-geografica della prima metà del XVII secolo, può
sorprendersi nel constatare come la Federazione Polacco-Lituana (Rzeczpospolita Polska) fosse a quel tempo il paese più esteso d’Europa. I suoi 773mila km2
coprivano dal Mar Baltico fino a quasi il Mar Nero da nord a sud, e dalla
Slesia fino a 200km oltre al fiume Dnieper da ovest a est. Ma un buon 60% della popolazione dentro quei confini non era etnicamente
polacco/lituano, e comprendeva un considerevole numero di Cosacchi. La
stabilità della federazione non poteva che dipendere da come i polacchi al
potere trattassero la loro popolazione allo-etnica.
Ma al
potere c’erano i terratenenti, che ignoranti di storia ripeterono per la
Polonia, seppure in piccolo, quella di Roma. L’espansione verso oriente si
basava nell’estendere latifondi di dimensioni sterminate, alcuni dei quali
quanto la Svizzera o l’Olanda. E i latifondi generavano, come sempre fanno
dovunque attecchiscono, forme di schiavitù. Ma gli schiavi prima o poi si
ribellano, divenendo sempre più restii a combattere per difendere terre altrui
dalle quali non ricevono beneficio alcuno.
Dovunque
si guardi: Roma, Grecia, Irlanda, Inghilterra ecc., i termini del problema sono
sempre gli stessi. Con una monotonia degna di miglior causa, la popolazione che
avrebbe dovuto difendere il territorio si trasformò in un proletariato rurale, con diritti civici
ma nullatenente. E non ebbero altra scelta che lavorare come braccianti nelle
grandi tenute, i cui nobili proprietari accumulavano sempre più ricchezza e
potere estendendole.
Come
l’istituto del latifondo sia nocivo al bene comune lo si vide, e per secoli, nell’adozione da parte del Sejm (parlamento) del liberum
veto, il diritto di un singolo terratenente a vietare qualsiasi intervento
legislativo che egli considerasse contro gli interessi delle sue migliaia,
quando non milioni, di ettari. Le necessarie riforme venivano così paralizzate
e il paese progressivamente indebolito.
Le
popolazioni sottomesse, d’altro canto, erano terratenenti ma senza diritti
civici, ai quali però aspiravano.
Nel
1633, il Sejm approvò una legge che proibiva il commercio, specialmente di
alcoolici, ai membri della nobiltà. Costoro cominciarono a vivere
esclusivamente di rendita, estratta più o meno a forza dai proletari rurali. Gli
esattori erano invariabilmente giudei, immigrati nella tollerantissima Polonia
(dove non c’era Inquisizione) nei cinque secoli precedenti. Il 15% di costoro
nelle città e l’80% nelle campagne esercitavano codesto mestiere.
Ne sorse
un circolo vizioso, che partiva dal capitale importato beneficiando tanto la
nobiltà quanto lo Stato. Forte di questi apparenti vantaggi, questo spingeva la
colonizzazione sempre più ad est. Gli esattori ben presto si accorsero che
oltre ad incrementare il potere politico dei nobili polacchi, potevano
incrementare i loro affari mettendo con le spalle al muro i piccoli coltivatori
indipendenti, profittando dei loro fallimenti, e aiutando i nobili ad arraffare
sempre più terra.
Alla
morte di Re Sigismondo II nel 1572, la Federazione aveva steso i suoi domini
sui Cosacchi dell’Ucraina meridionale, che solo a denti stretti tolleravano di
far parte della Polonia, nonchè, come ortodossi orientali, di sottomettersi a
regolamentazioni religiose estranee alla loro cultura.
Una
riforma si imponeva. Si promise ai Cosacchi una legge, che dando loro diritti
civili alla pari con i polacchi, li avrebbe protetti dalle vessazioni degli
esattori di imposte e dalla presenza dei Gesuiti, entrambi estremamente invisi nel
loro territorio.
Il
progetto di legge arrivò al Sejm nel 1648, l’anno di Westphalia. Ma i grandi
terratenenti, in combutta con gli esattori, e anteponendo i loro interessi di
latifondisti al bene comune, non permisero che la misura si adottasse.
L’aspettativa
fiduciosa dei Cosacchi si trasformò in sdegno veemente. Era loro capopopolo lo
hetman Bogdan Chmielnicki. L’esattore Zachariah Sabilenki gli giocò un brutto
tiro, aiutando il terratenente polacco Czaplinski a impadronirsi non solo della
proprietà ma anche della moglie. Un altro di costoro tradì i suoi negoziati con
i Tartari al governo polacco.
Non lo
avessero mai fatto. Dopo aver ottenuto udienza con il re per ben due volte, e vedendosi
negata giustizia, Chmielnicki radunò un esercito di Cosacchi e di Tartari e
inflisse una doppia, cocente sconfitta all’armata federale in campo aperto il
16 e il 26 maggio 1648. Ne seguì un’orgia di saccheggi e massacri che costò una
montagna di centinaia di migliaia di cadaveri, senza discriminazione di età e
sesso.[11]
Nel
dettare le condizioni di resa, Chmielnicki invariabilmente imponeva l’espulsione
della Chiesa cattolica e degli ebrei dai territori sotto il suo controllo.
Le
potenze circonvicine non ci misero molto a verificare che il colosso polacco
avesse i piedi d’argilla. Moscovia, Prussia, Svezia, Brandenburgo e l’impero
Ottomano cominciarono a mordicchiare territorio che diveniva tanto più
indifendibile quanto più esteso esso fosse.
Nel 1772
un esercito russo e uno prussiano invasero il territorio federale sconfiggendo
una disperata ma inutile resistenza polacco-lituana. 20 anni dopo si aggiunse a
questi l’Austria-Ungheria, e le spartizioni del 1793-95 completarono
l’operazione. Non vi sarebbe stata Polonia fino al trattato di Versailles nel
1919.
I
polacchi se lo ricordano ancora. Chiamano quel disastro “il diluvio”.
Gli
storiografi incastonati, nonchè gli artisti convenzionali, si soffermano sul
complotto delle Tre Aquile (Russia, Prussia e Austria) magari aggiungendovi
particolari piccanti come quello di Stanislao Augusto Poniatowski, ultimo re di
Polonia e amante di Caterina di Russia, ma nessuno percepisce il latifondo come
causa remota dell’evento. E il famigerato “titolo di proprietà” rimane nei
libri di testo come “una delle grandi
invenzioni della storia umana”. Spero di aver offerto un’ipotesi più credibile.
Silvano
Borruso
20 febbraio 2012
[4] Piccolo proprietario anonimo, in Vite di Pastori e di contadini siciliani, p.
10
[5] Sono debitore della felice espressione a Silvio
Gesell (1862-1930).
[6] Nel secolo XVI la Spagna aveva nove milioni di abitanti. Era proprio
necessario andare a colonizzare l’America?
[7] Come lo sarebbe anche per l’Italia, i cui cittadini vengono tartassati da
un fisco fuori controllo proprio per avere trascurato la stessa questione per
circa due secoli.
[8] Rosmini aveva detto la stessa cosa, e John Stuart
Mill lo aveva ripetuto, 150 anni prima.
[9] “Is there a
Moral Basis for Capitalism?” in Democracy
and Mediating Structures, ed. Michael
Novak (Washington D.C.: American Enterprise Institute, 1980, p. 52). Neretto
aggiunto. Corsivo nell’originale.
[10] La statua di Carlo V in piazza Bologna a Palermo
coglie il sovrano nell’atto di giuramento
[11] Graetz (History of the Jews)
stima le vittime a 100mila. La Jewish Encyclopaedia le moltiplica per
tre.