FISCO: PRASSI E
GIUSTIZIA
Ernesto Ruffini, avvocato
tributario, esordisce nel suo articolo Fisco.2 con il “principio” L’evasione fiscale è un furto. Dà per
scontato che il ladro è chi non paga le tasse e che il derubato è lo Stato.
Ciò è indubbio nel paradigma iuspositivista, che fa da sfondo a
tutto l’articolo. Lo Stato decide
che l’evasione fiscale è un furto, e le leggi, anch’esse di Stato, avallano la decisione con tutte le
conseguenze civili e penali.
Nel paradigma iusnaturalista, però, il furto non può fare da “principio”. Viene
invece definito come “appropriazione indebita e occulta di una proprietà
altrui”, alla luce della virtù sociale della giustizia, definita 2000 anni fa da Papiniano come “volontà
costante di dare a ciascuno il suo”. In questo paradigma, quindi, è ingiusto
tanto non dare a uno il suo quanto dargli il non suo. Lo Stato commette la
doppia ingiustizia.
Nello stesso paradigma lo Stato ha doveri ben definiti, per finanziare i
quali ha bisogno di soldi: governare,
amministrare la giustizia, difendere la società da possibili nemici,
rappresentare il paese all’estero ed emettere un mezzo di pagamento che
permetta ai contribuenti di pagare le tasse. Quest’ultimo è il dovere che ci
interessa.
Ebbene, questo dovere lo Stato non lo espleta. Invece, e senza
consultare i contribuenti, prende a
prestito credito emesso da
terzi, e tassa il valore aggiunto dal lavoro dei cittadini per pagarne
l’interesse, che è composto e quindi esponenziale. Il risultato matematicamente
certo di codesto operato è che il debito supererà prima o poi la quantità di
denaro in circolazione, finendo per ammazzare la gallina che depone le uova
d’oro. Lo Stato toglie il suo a chi lavora per darlo a chi scrive su un pezzo
di carta “mi devi tot” con la sola fatica di alcune ditate alla tastiera di un
computer.
Lo Stato toglie il suo a chi lavora
in quattro maniere ben sperimentate:
1.
L’imposta sul
reddito, che colpisce la produzione;
2.
Le imposte
indirette, che colpiscono il consumo;
3.
Le dogane,
che colpiscono il commercio internazionale;
4.
E l’IVA, che
colpisce le transazioni commerciali domestiche, e che merita un trattamento a
parte.
Per il momento limitiamoci a
considerare che tutte e quattro le maniere sottraggono sangue all’economia di
produzione per convogliarlo a elementi improduttivi, 98mila dei quali
addestrati a fare uso di forza, anche armata, per costringere a pagare chi si
sente ingiustamente tartassato. Non sorprende quindi che chi può si difende con
l’evasione.
“IVA Madre di Tutte le Evasioni”,
dice Ruffini. Certo. Che l’IVA sia la più assurda e controproducente di tutte
le imposte lo si vide nella Spagna del ‘500, dove la si conosceva come alcabala. Non ci volle molto ad
accorgersi che i costi di esazione
superavano gli introiti, e quindi si cessò di applicarla dato il danno
evidente all’economia.
Questo è ancora vero, ma lo Stato
moderno aggira il problema imponendo
la contabilità fiscale agli operatori economici, senza pagarli. Cioè ri-introduce l’istituto della schiavitù, che
rientra dalla finestra dopo esser stata estromessa dalla porta nell’arco del
millennio precedente. Così facendo azzoppa vieppiù l’economia di produzione,
dato che i contribuenti sono costretti a distogliere l’attenzione dal loro
lavoro per espletare quello dell’Agenzia delle Entrate. Come ebbe a dire James
Robertson (1928-):
“Dopo
il paradiso perduto, è perfettamente possible immaginare Satana riunito con
Beelzebub, Moloch, Belial e il resto del suo gabinetto, per progettare il
sistema fiscale più dannoso possibile da proporre all’umanità. Avrebbero potuto
far di meglio di quello che abbiamo”?[1]
Ma non è tutto. Ruffini auspica
l’uso massiccio dell’elettronica per “consentire al Fisco maggiori controlli” e
per “semplificare gli adempimenti e ridurre i costi”, organizzando il tutto in
modo ammirevole. Ma di che “controlli” si tratta? Quelli al cittadino, che vede
il suo campo di azione restringersi sempre di più ad opera di uno Stato
invasore e fuori da ogni controllo esso stesso. Cioè, nemo custodit ipsos custodes.
È venuto il momento di chiedersi: è
possibile una politica fiscale innovativa
·
secondo giustizia, cioè che dia a ciascuno il
suo, Stato compreso?
·
A buon mercato, senza dover quindi
impiegare un’armata di 68mila Fiamme Gialle e una di 30mila dipendenti
improduttivi?
·
Efficiente al punto di invogliare i contribuenti a pagare le tasse senza neanche pensare di evaderle?
In ipotesi di lavoro e per ottenere
i risultati appena ventilati immaginiamo di spostare la nostra attenzione
fiscale (l’imponibile)
dal valore aggiunto dagli sforzi di chi lavora al valore sottratto alle risorse naturali del paese, e quindi alla
sovranità statale. Mi spiego.
Codeste risorse naturali o comuni sono
suolo, acqua, aria, spettro elettromagnetico e
spazio aereo. Considererò solo il primo.
Il padrone di un’auto parcheggiata
in centro città paga per il diritto di occupazione di una superficie di circa
10m2, cosicchè a 1€/ora, l’occupazione gli costa 8€/giorno, ossia 80
centesimi/m2.
Si tratta di una tassa giusta. Il quid pro quo è immediato e ovvio. L’automobilista non è il padrone
dei 10m2, ma l’occupante temporaneo. E sia che parcheggi una Rolls
Royce o un macinino miracolosamente scappato alla rottamazione, paga sempre i
suoi bravi 80 centesimi/m2.
Supponiamo ora che la stessa città
abbia 10km2 di edifici, assimilabili ad automobili parcheggiate
permanentemente. Alla stessa tariffa, codesti edifici contribuerebbero agli
introiti municipali ben 80 milioni di €/giorno.
L’importante
non sono i calcoli ma il principio. La rendita da suolo spoglio viene fatta
esistere non dall’automobilista, ma dalle attività economiche di chi vi lavora attorno, in ultima
analisi dalla densità di popolazione. Giustizia vuole quindi che il 100% del
frutto di chi lavora negli edifici debba andare a costoro, e che il 100% della
rendita da suolo spoglio debba ritornare
alla comunità che ne ha causato l’esistenza (codesta rendita è nulla dove
non c’e popolazione).
Questa la soluzione di Henry George
(1839-1897) risalente a 130 anni fa e ribadita da Silvio Gesell (1862-1930) nel
suo Ordine Economico Naturale ai
primi del secolo scorso.
L’Italia copre una superficie di
300mila km2, o 30 milioni di ettari o 300 miliardi di m2.
In Italia vi sono 8mila e rotti comuni, con popolazione omogenea se rurali,
eterogenea se urbani. I comuni potrebbero fare gli esattori di imposta
fondiaria, esclusivamente in termini di
superficie occupata, da patteggiare con l’occupante. Vediamo i vantaggi,
ingenti, di una tale operazione:
·
Si
ritornerebbe al principio della tassazione collettiva
patteggiata, che era la norma prima che lo Stato bodiniano e rivoluzionario
la ribaltasse;
·
Sarebbe
infinitamente più facile e meno costoso raccogliere imposte da 8mila centri che
ficcare le mani in tasca a milioni di contribuenti;
·
L’evasione
sarebbe impossibile: la terra non si può nascondere;
·
Idem per la
speculazione. Gli occupanti di un terreno improduttivo o si affretterebbero a
farne uso per non pagare un’imposta a vuoto, o lo cederebbero, ma senza
guadagnarci su;
·
I recidivi
verrebbero puniti semplicemente non proteggendo il diritto di occupazione;
·
L’unità
fiscale, metro quadrato in città, ettaro in campagna o anche kilometro quadrato
in lande disabitate, renderebbe l’intero territorio nazionale fiscalmente
produttivo;
·
Il canone
sarebbe minimo e perfettamente aggiustabile all’entità della spesa pubblica,
date le dimensioni dell’imponibile.
·
Due superfici
equivalenti, nella stessa località, pagherebbero
lo stesso, per cui chi lavorasse di più guadagnerebbe di più e meno tasse
pagherebbe proporzionalmente.
·
E le quattro
tasse-tortore sopraelencate potrebbero benissimo sparire.
Ma “possibile” non vuol dire
“fattibile”. Chi contesterebbe una simile proposta di tassazione giusta? Gli evasori reali, cioè i terratenenti che
da generazioni godono di reddito da non lavoro; i poteri forti internazionali, che
regolarmente attuano la privatizzazione dei profitti e la socializzazione delle
perdite, e gli operatori della truffa conosciuta come riserva frazionaria
bancaria.
Questi ultimi evadono non la giusta tassazione
fondiaria, ma quella monetaria. La moneta, e in particolare la sua
circolazione, è una risorsa artificiale,
anch’essa con valore sottratto tassabile. Esiste un esempio storico di tassa
(minima) sulla circolazione monetaria che invogliò i contribuenti a pagare le
tasse volentieri e anche in anticipo. Facciamo
un flashback di 80 anni.
A Wörgl, cittadina e nodo
ferroviario nel Tirolo austriaco, nel 1932 la moneta scarseggiava, le industrie
chiudevano e infuriava la disoccupazione. I 350 disoccupati di Wörgl (su 4.200
abitanti) sollecitavano aiuto dal borgomastro Unterguggenberger (1884-1936).
Costui aveva letto Gesell durante la
semipovertà delle crisi del 1907-08 e 1912-14, che gli avevano lasciato la
tubercolosi che lo avrebbe portato alla tomba a 52 anni. Ma conosceva il
rimedio, e si mise all’opera.
Dopo un paziente lavoro informativo
e istruttivo presso i piccoli impresari, negozianti e professionisti, il 5
luglio proclamava:
“La causa principale del barcollo
dell’economia è la bassa velocità di circolazione della moneta. Questa
progressivamente sparisce dalle mani dei lavoratori come mezzo di scambio.
Filtra invece nell’alveo dove scorre l’interesse, finendo con l’accumularsi
nelle mani di pochi, che invece di riversarla sul mercato per acquistarvi beni
e servizi, la trattengono per specularvi su”.
Il municipio emise i suoi Bestätigter Arbeitswerte (Certificati di
Lavoro) valorati alla pari con lo scellino ufficiale, ma ogni certificato per
1, 5 e 10 scellini, pur mantenendo un potere d’acquisto stabile, scadeva dopo
un mese dall’emissione a meno di non rinnovarne la validità con un bollino del
valore dell’1% sul nominale, acquistabile in municipio. Il quale, da parte sua,
accettava i certificati come pagamento
di imposte.
Non era obbligatorio accettarli. Le
alternative erano:
- Depositarli in banca a interesse 0%. La banca
se ne sbarazzava immediatamente, o prestandoli o pagando salari e servizi.
- Cambiarli in scellini ufficiali
con uno sconto del 5% sul valore nominale.
Il municipio ne fece stampare 32.000
unità. Tre giorni dopo avere emesso i primi 1.000, il gettito erariale salì a
5.100 scellini, risultato di pagamenti arretrati e della rapida circolazione. Questa
raggiunse una media di 5.490 scellini, cioè poco più di un irrisorio scellino a
persona, che però procuravano lavoro e prosperità a Wörgl più di quanto lo
facessero i 150 scellini/persona della Banca Nazionale. Come aveva predetto
Gesell, la velocità di circolazione era la chiave: scambiandosi 415 volte in 14
mesi, contro le 6-8 volte della moneta ufficiale, quei 5.490 scellini mossero
beni e servizi per ben due milioni e mezzo. Il municipio, con le casse continuamente ripiene da un lato e svuotate
dall’altro, costruì un ponte sul fiume Inn, asfaltò sette strade, rinnovò
le fognature e le installazioni elettriche, e costruì perfino un trampolino di
salto con sci, per un totale di poco più di 100mila scellini. Per avere un’idea
del potere di acquisto, lo stipendio del borgomastro era di 1.800 scellini
mensili.
Al principio c’era chi sghignazzava,
chi gridava alla frode o chi sospettava contraffazione. Ma i prezzi non
aumentavano, la prosperità sì e le tasse
venivano pagate prontamente e immediatamente ri-investite in lavori e
servizi pubblici. I ghigni si trasformarono ben presto in espressioni di
stupore e i lazzi in voglia di imitazione. Ai primi del 1933 circa 300.000
cittadini del circondario erano lì lì per estenderne l’esperimento.
Ma la Banca Nazionale lo cassò e
Wörgl tornò alla depressione.
Una imposizione fiscale secondo giustizia,
quindi, invoglierebbe anche i cittadini ad un comportamento fiscalmente
corretto: ognuno, Stato compreso, avrebbe veramente il suo.
Silvano Borruso
28 novembre 2011