martedì 31 marzo 2020

Uomo e moneta


Gli uomini temono la moneta. Desiderandola, mentono a se stessi. In quanto desiderano possedere l’ente fisico della moneta e non il potere concettuale che a principio le dà valore: il potere del Logos, al quale essa un giorno dovrà essere restituita. Potere sistematicamente invertito dall’identificazione coi processi sensibili del sistema nervoso; ovvero ciò che si sa per non sapere quel che al di là è vera fonte del sapere, per paura dell’ignota forza nel concetto della moneta. La moneta è allora temuta, desiderarla è menzogna. Il demone stende solo il velo ingannando il desiderio verso l’oggetto che rappresenta la moneta, di cui in realtà nemmeno il suo nome appartiene alla tenebra. Gli uomini che anelano all’eterno - centro dell’anello che rincorrono all’esterno -, non individuano quel centro dove comincia l’individuo con l’Io, interiorità dell’anima e gestazione del conio. L’eterno precipitato nella percezione materiale come soggetto umano svolge un tempo proprio al quale esso ripone fede nell’apparenza spaziale, identificandosi. La moneta diventa allora strumento divino nella misura in cui l’umanità la redime conoscendo il movimento intuitivo che la ha ideata dietro tale apparire sensorio-spaziale. Per cui il mondo riconoscerà lo Spirito come reale patria, nel quale non servono più monete essendo tutti gli enti fusi nel medesimo Essere scorrevole che è l’Uomo. Gli uomini erano comete, cadute dall’origine dove nascono anche le monete. Esperienza della caduta che si è data per sollecitare un guadagno cosciente: esseri che partivano dal salvadanaio del cranio per restituirla al centro del Cuore e tornare nuovamente in un cranio ricco della ricchezza redenta dal Cuore. Gli Umani saranno Soli che lasceranno a terra la notte della moneta svestendo la notte del corpo.


Elio Manas

CORONAVIRUS. IL DELITTO PERFETTO (reload)

Tertium non datur

lunedì 30 marzo 2020

indizi e prove --- verso la guerra civile?


2019 previsioni di pandemia da coronavirus.

Corona Virus, non finirà bene se continuiamo così...

Medico Tedesco sul Coronavirus: calcoli sbagliati e trattamenti mortali?

The Love of Fiat Currency is the Root of All Evil

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Coronavirus: aggiornamento al 30 marzo 2020

ECONOMIA, POLITICA E CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME


UNA “PANDEMIA”
PER CAPIRE
I TRUCCHI DEI SISTEMI MONETARI
E DELLA COMUNICAZIONE
DI
SILVANO BORRUSO











ECONOMIA, POLITICA E CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME


1.      Economia, definizioni e storia
Gli uomini ingannano a volte, le apparenze spesso, per non dire sempre. Ecco perchè analisti di tutte le leghe, storiografi incastonati e blogghisti variopinti marciano imperterriti senza percepire a) la frode della definizione accademica dell’economia, b) la sua doppia natura, c) la sua deliberata confusione con la crematistica, e d) dulcis in fundo, il perdurare di una questione fondiaria tuttora irrisolta. Codesta multiple cecità impedisce di accorgersi che parecchio di quel che passa per “moderno” ha secoli, quando non millenni, di presenza storica.
La frode
Dal 1945 più o meno, si viene definendo l’economia come “assegnazione di risorse scarse”. E nessun studente si alza dicendo: “Prof, ci potrebbe dare un solo esempio di risorsa naturalmente scarsa”? Sotto pressione, il Prof dovrebbe ammettere che una tal cosa non esiste, e che se una risorsa scarseggia non è colpa della natura, ma di interessi creati che traggono vantaggio da quella scarsezza artificiale, creata da loro stessi o dai loro mirmidoni.
La frode perdura. La parola apparentemente innocua “assegnazione” nasconde l’insinuazione totalitaria che essa sia compito per “esperti”, cioè burocrati assortiti, e che un padre di famiglia, un artigiano, un agricoltore, un pedone, una casalinga e via aggiungendo, non abbiano né qualifiche né autorità per “assegnare” alcunché. Questo tanto per cominciare.
La doppia natura dell’economia
La vecchia definizione di economia era “Scienza della produzione e distribuzione di ricchezza”, quest’ultima definita da Frédéric Bastiat (1801-1850). L’economista francese si accorse che tutta la ricchezza reale consiste alla fin dei conti di servizi, o offerti da persona a persona (insegnamento, cure mediche ecc.), o incorporati in oggetti chiamati “beni” (orologi, scarpe ecc.). Con il rasoio di Ockham (entia non sunt multiplicanda sine necessitate), Bastiat ridusse “beni e servizi” a “servizi”.
Definiamo ora l’economia. Henry George (1839-1897), nel trattato incompiuto di economia politica, fece notare che la produzione e distribuzine di ricchezza sono due scienze, non una.
Produrre ricchezza è un fatto fisico con due fattori di produzione: terra sotto i piedi e lavoro, che modificando l’ambiente produce non solo servizi, ma anche capitale, cioè un tipo speciale di beni non destinati al consumo ma a produrre ulteriore ricchezza (cesto, coltello, ago e filo, ecc.). Distribuire ricchezza, in cambio, è affare morale, anch’esso con due fattori di distribuzione: salari e rendita.
L’affare è morale perchè “distribuire” significa decidere quanta ricchezza prodotta e in che forma vada a parare nelle tasche dei suoi produttori, e quanta in quelle di personale non produttivo (burocrati, militari ecc.) il cui stipendio deve uscire dal prodotto del lavoro altrui. Ogni tale decisione è un atto umano, libero e responsabile, o irresponsabile secondo il caso; pertanto giusto o ingiusto.
Orbene, vi sono tantissime maniere di distribuire la ricchezza creata da chi lavora: la tassazione in primis, ma anche la corruzione, il commercio, il contrabbando, l’inganno, il furto, il gioco d’azzardo, e una lunga serie di eccetera che sarebbe noiosissimo tentare di esaurire.
Se è questione di efficienza pura e dura, tralasciando la moralità, alcuni di essi la fanno da asso vincente. La corruzione unita al buon gusto, per esempio, può lasciare monumenti imperituri, come il magnifico chateau di Vaux-le-Vicomte costruito con denaro malversato dall’Intendente di Finanza del re Luigi XIV Nicolas Fouquet (1615-1680), che però pagò per la sua condotta impropria con l’ergastolo e la confisca dei beni.[1]
Confusione con la crematistica
Qualche lettore si è forse sentito a disagio nel notare la totale assenza del denaro nel discorso precedente. È così perchè il denaro non è che invenzione – certamente utilissima- dello spirito umano, capace di aiutare l’economia se usato secondo giustizia, o di rendersene padrone con conseguenze negative da analizzare infra. Qui facciamo notare la confusione, diffusissima, tra l’economia, scienza basata sul lavoro, e la crematistica, o superstizione, che essere ricco equivale a possedere molto denaro.
Cominciamo quindi dimostrando la fattibilità di una economia senza moneta, ma non quella di una moneta senza una economia che la sostenga. Valgano due esempi, entrambi storici.
Una economia senza moneta fiorisce, hic et nunc, in migliaia di chilometri quadrati di regioni aride e semiaride confinanti: il nord del Kenya, nordest della Somalia, l’est dell’Uganda e il sud del Sudan. Le tribù pastorizie semi-nomadi posseggono milioni di capi di bestiame come unica fonte di ricchezza. E senza suddivisione di lavoro non hanno bisogno di moneta.
Una moneta senza economia ebbe un’esistenza fugace 100 anni fa, in circostanze che vale la pena ricordare. Allo scoppio della prima guerra mondiale, il governatore della colonia tedesca del Tanganyika Herr Schnee si era proposto di non svegliare i cani che dormono, prima perchè una guerra tra forze armate germaniche e britanniche non era di interesse alcuno per gli africani, e poi perchè le forze armate del Tanganyika ammontavano a non più di 4000 askari africani, al comando del generale von Lettow (1870-1964) coadiuvato da 200 sottufficiali tedeschi, assolutamente insufficienti per qualsiasi azione bellica di rilievo.
Ma von Lettow aveva altre idee: “Dobbiamo attaccare i britannici” disse al governatore.
-          Lei è matto.
-          Nossignore; non è questione di battaglie campali, ma di costringerli a sottrarre quanto più personale combattente dal teatro di guerra europeo, così da indebolire il loro sforzo bellico colà e tenerli in Africa con azioni di guerriglia.
Von Schnee si convinse, e tutto il personale germanico, militari e civili, uscirono da Dar es Salaam verso la savana, in puro spirito di avventura.[2]
Tra i bagagli che il governatore voleva portare con sé erano delle casse piene di moneta coloniale tedesca. Questa volta fu il generale a dar del matto al governatore:
-          Signore, è una follia. Questo non è denaro, è carta straccia. Nessuno lo accetterebbe in pagamento di alcunché.
-          No, generale. Il denaro ha valore intrinseco, è prezioso per se.
-          Bene, signore, un bel giorno gli appiccherò il fuoco con le mie mani.
Dopo un paio di anni di facchinaggio inutile di Träger stanchi e sudati, von Lettow mantenne la promessa. Q.E.D. Una moneta senza una economia che la sostenga vale zero.
La superstizione di Creso
L’idea di Schnee che il denaro avesse “valore intrínseco” l’aveva presa il buon uomo da una decisione di Re Creso di Lidia (m.546 a.C.), di monetizzare una lega naturale di oro e argento chiamata electrum abbondante a quei tempi nelle sabbie del fiume Pactolus in Asia Minore.
Che un “valore intrinseco” sia innecessario lo avevano capito secoli prima statisti come Licurgo di Sparta e Numa secondo re di Roma, che monetizzarono metalli vili come il ferro e il rame. I cinesi, a loro credito, non monetizzarono mai l’oro.
Ma gli artigli della superstizione di Creso sono tali che ancora oggi, incredibilmente, esiste un assurdo World Gold Council che fa pubblicità della stessa scapigliata idea.
Le monete di Numa, Licurgo e degli imperatori cinesi erano esclusivo mezzo di scambio. Quella di Creso, al contrario, acquisì la funzione di “riserva di valore”. Codesta decisione epocale continua a costare fiumi di sangue, nonché far strame di tutta una civilizzazione.
Tentiamo di capire. Mezzo di scambio e riserva di valore sono funzioni contraddittorie. Con buona pace di Hegel e del suo metodo con cui si conclude tutto e il contrario di tutto, “contraddittorio” vuol dire che se una funzione è vera l’altra è necessariamente falsa, e viceversa, se una è falsa l’altra è necessariamente vera.
Lo verifichi il lettore. Che fa il denaro che ha in questo momento in tasca? Agisce come pura riserva di valore. Gli appartiene? Sì. Aiuta l’economia? No. Però arriva un momento in cui lo spende. Attenzione a quel che avviene: nell’istante fugace in cui lascia la sua mano per arrivare a quella del venditore, codesto denaro agisce come puro mezzo di scambio: aiuta l’economia, ma senza appartenere a nessuno dei due. Un istante dopo, e si ritrasforma in riserva di valore per il venditore.
È ora di chiedersi: un compratore è obbligato a spendere la sua riserva di valore? Evidentemente no. Può risparmiarla fino a quando vuole spenderla. Ma un venditore, è obbligato a vendere la sua mercanzia? Ebbene sì, sotto pena di vederla marcire, ossidare, passare di moda, rubare, incendiare ecc. in un elenco senza fine di disgrazie naturali o artificiali.
Così che la tanto strombazzata “legge” di domanda e offerta non è affatto legge. La domanda, sostenuta da riserva di valore imperitura, ha un vantaggio indebito sull’offerta, sostenuta dai rischi sunnominati. Il venditore, costretto a vendere da circostanze fuori dal suo controllo, deve pagare un certo tributo al possessore di riserva di valore, non sempre in termini di moneta che gli esce di tasca, ma di mancato guadagno o di altri inconvenienti
Chiamando le cose per il loro nome, caro lettore, codesto tributo non è che usura, così definita da Silvio Gesell (1862-1930).[3] Questa nasce agli scambi e non ai prestiti, come si crede ab immemorabili. L’interesse che il prestatario paga al prestatore è una delle tante forme di tributo usurario, ma niente affatto l’unica. Quante siano alcune di esse lo si vedrà dopo aver studiato il grafico seguente.
1860-70
1890-1930
Economia di Guerra
A
B
C
La curva A rappresenta l’incremento degli esseri viventi: rapidissimo al principio, arriva presto all’equilibrio. In economia, A rappresenta ogni attività agricola e para-agricola.
La curva B è quella dell’incremento industriale. Intersecandosi con A nella decade indicata (Inghilterra e America), marcò l’inizio del consumismo, e di una pubblicità diretta a creare bisogni fino allora sconosciuti.
La curva C è l’esponenziale dell’interesse composto, anima dell’usura. Moderata al principio, prima o poi si impenna quasi verticalmente, trascinando con sé il resto dell’economia. Intersecandosi con A determina la distruzione del medio ambiente per pagare interessi crescenti;[4] intersecandosi con B istituzionalizza l’economia di guerra, cioè produrre per distruggere, la sola in condizioni di pagare un interesse crescente all’infinito.
L’industria bellica apre la sfilata come unica industria ancora di casa negli Stati Uniti, dove garantisce occupazione a circa 60mila disegnatori e produttori di strumenti di morte.
Segue la sottrazione di contante dall’economia, che inevitabilmente danneggia le forze del lavoro per favorire quelle dell’usura. Non tratto di risparmi famigliari, ma di somme ingenti come negli esempi che seguono.
Il 30 marzo 1925 il ministro dell’economia del primo governo Mussolini Alberto De Stefani fece bruciare in piazza, a Milano, 320 milioni di lire in contanti “per combattere l’inflazione”, secondo un mantra ancora oggi in auge, ma che esaspera la secolare lotta di classe tra le forze del lavoro e quelle dell’usura. L’anno seguente, 1926, quattro usurai[5] convinsero il Duce che il tasso di scambio con la sterlina britannica, arrivato a 154:1 dati i salari remunerativi che favorivano le forze del lavoro, “toglieva prestigio” all’Italia, dove quattro anni prima quel tasso era di 90:1. Il Duce, digiuno di economia, cadde nel tranello e decretò il ritorno a “Quota 90”. La cosa favorì la compra di materiale bellico, ma fece affondare centinaia di piccole e medie imprese.
Il gigante Microsoft si vanta di tenere 56 miliardi di dollari in contante pronti per fronteggiare “un possibile anno senza vendite” dei suoi prodotti.
Nel luglio 2002 moriva a Londra il banchiere Lord Weinstock. Diceva il necrologio in The Economist che nel caveau della banca giacevano “diversi” (several) miliardi di sterline in contanti, con lo scopo di convincere i clienti della sua solvibilità. Se several avesse voluto dire più o meno sette, Lord W. avrebbe potuto pagare per la costruzione del tunnel sotto la Manica in contanti e alla consegna, secondo il preventivo iniziale di sette miliardi. Invece, l’impresa costruttrice dovette indebitarsi con un consorzio di 200 banche. Ecco perchè un biglietto Londra-Lille, una distanza di circa 300km, costa 200 sterline invece delle più o meno 20 che costerebbe senza usura.
Ciò a cui mirano le banche, senza ancora ottenerlo ma muovendogli una guerra che si protrae da mezzo millennio a questa parte, è la totale eliminazione del contante, ultimo baluardo di libertà economica. Lo aveva profetizzato Lord Acton (1834-1902), Chief Justice del Regno Unito nel 1875:
La questione che si trascina da secoli, e per la quale prima o poi bisognerà combattere, è quella del popolo contro le banche.
Eccola, davanti ai nostri occhi: l’usura, che esaspera la lotta di classe e che le banche praticano surrettiziamente semplicemente chiamandola “credito”. Vediamo come funziona.
Tu, lettore, chiedi un prestito  alla tua banca, diciamo, di 100mila euro. Ebbene, “prestare”, dice un dizionario qualsiasi, vuol dire
“Dare qualcosa a qualcuno perchè lo utilizzi durante un certo tempo, per poi restituirlo.”
Il prestito viene autorizzato. Cosa ti dà la banca per utilizzarlo durante un certo tempo? Non moneta sonante e contante, ma un libretto di assegni, allo stesso tempo registrando la cifra di 100mila euro come “prestito a…” in una colonna e “deposito da…” in un’altra.
E tu, lettore, ora divenuto “prestatario”, non fai che immettere nell’economia potere di acquisto sotto forma di assegni fino alla somma di 100mila euro. In cambio ti impegni a pagare un certo interesse da un anno dalla concessione del “prestito”. Se tardi a pagare, si scatena il meccanismo dell’interesse composto, osservato nel grafico supra.
Scrutiamo l’operazone al rallentatore per prendere coscienza dell’irreale dell’accaduto.
Primo: la banca non ti ha prestato un bel nulla. Non si è privata di niente per fartelo usare durante un certo tempo.
Secondo: le cifre che tu scrivi su ogni assegno trasformano un semplice pezzo di carta in mezzo di scambio, equiparato a moneta ufficiale dello Stato.
Terzo: prima del 1609, data fondazionale della Banca di Amsterdam, le banche prestavano realmente, cioè si privavano di denaro fisico per farlo usare ad altri. Così facendo correvano un doppio rischio:  lucrum cessans, cioè rinunciavano alle somme trasferite al prestatario, o damnum emergens, cioè che il prestatario, per qualsiasi motivo, non restituisse il denaro preso in prestito. Ma con il credito nessuna delle due condizioni si verifica. Non vi è prestito, pertanto non vi è rischio. A che titolo la banca pretende interesse?
La risposta evidente è: nessuno. Ma le banche hanno codesto potere, usurpato dal potere politico secoli fa e oggi praticato sempre più sfacciatamente. E ce l’hanno a tal punto, che perfino “prestano” ai governi, rinchiudendoli in una gabbia infernale dove l’usura domina tutto, imponendo tributi a destra e a sinistra. Valgano gli esempi che seguono:
La disoccupazione, forse il tributo più crudele imposto dall’usura all’umanità. Non esisteva una tale  piaga prima della tanto strombazzata Rivoluzione Industriale, che introdusse invenzioni di indubitabile utilità, però che strappò alle famiglie i mezzi di produzione di beni di prima necessità, cioè cibo, vestiario e costruzione, e quelli di distribuzione, come il piccolo negozio all’angolo.
Nel tardo secolo XIX Vilfredo Pareto (1848-1923) osservò che un paese industrializzato non bisognava di più del 20% della sua forza lavoro per coprire il 100% dei suoi bisogni. Codesta scoperta la si conosce come “primcipio” di Pareto. Riflettendo, non si tratta di principio come punto di partenza, ma di una costatazione, cioè di punto di arrivo.
Il problema insolubile che da allora aleggia attorno ad ogni economia è, “e che fare con il resto”? Si è tentato di tutto: burocrazie civili e militari smisurate, posti di lavoro fantasma dove si percepisce uno stipendio senza far molto che lo giustifichi, eccetera. Gli è che il furto iniziale ha lasciato sul marciapiede agricoltori, sarti, calzolai e costruttori a decine di migliaia, sostituendoli con un modesto numero di impiegati e con macchinaria sofisticata in supermercati, industrie alimentari, calzaturifici, di vestiario e via dicendo.
In valido aiuto a codesto tipo di usura è arrivato, come guanto alla mano, la cosiddetta “legge” della domanda e offerta, che riduce il lavoro a “costo di produzione”. Così che questo lo si retribuisce non in funzione della sua indispensabilità, o della dignità di chi lo fa, o di criteri di giustizia o di umanità, ma in funzione della sua abbondanza o scarsezza.
Per capire l’assurdità di una tale pratica, si consideri cosa avverrebbe in qualsiasi edificio pubblico, se venissero a mancare per un solo giorno gli incaricati di pulire i servizi igienici. La loro assenza si noterebbe in questione di ore, e dopo un paio di giorni l’edificio diverrebbe praticamente inabitabile. Ma siccome chiunque può espletare un lavoro del genere, lo si retribuisce con salari da miseria, per di più disprezzando, quando non insultando, chi lo fa[6]. Paradosso dei paradossi, la maternità, il lavoro più necessario –e duro- non viene affatto retribuito, giacché metà della popolazione può espletarlo.
Aggiungiamo qui l’obsolescenza pianificata, aspetto dell’economia di guerra del grafico: si manifatturano beni che non durano, ma ai quali si concede una esistenza ragionevole invece di farli esplodere come bombe, missili o obici da artiglieria.
I libri di testo addebitano la famigerata inflazione, a “troppo denaro in circolazione”. Ma i prezzi aumentano anche quando il contante scarseggia. Cosa succede? Semplicemente, agisce l’usura. Un commerciante indebitato non può che alzare i suoi prezzi per pagare l’interesse composto,  inoltrando il rialzo ai clienti sotto pena di andare in bancarotta.
Segue una serie di spese innecessarie però obbligatorie da pratiche come l’impacchettamento, che non permette di comprare roba sfusa o oggetti singoli; la rottamazione forzata di auto dopo un tempo giudicato tale burocraticamente; mode che cambiano ogni sei mesi, terrorizzando chi non si conforma; assicurazioni obbligatorie per legge, ecc. Si volga lo sguardo dove si voglia, ci si imbatte nell’usura come un vascello si imbatte nelle onde del mare.
Pochi sono al tanto di quanto pesi l’usura sul mondo dell’energia. Nikola Tesla (1856-1943), il genio a cui dobbiamo la corrente alternata, nel trasferirsi negli Stati Uniti dalla sua Serbia natìa ebbe la disgrazia di imbattersi in una sfilata di biscazzieri e usurai, ai quali non piacque affatto la sua idea di attingere energia dal cosiddetto “vuoto” cosmico per distribuirla gratis a tutto il mondo. Il banchiere J.P. Morgan (1837-1913) gli disse in faccia: “Se non possiamo mettere un contatore di corrente, non ci interessa”. Ecco l’origine di quei festoni su festoni di cavi elettrici che decorano (si fa per dire) i paesaggi di tutto il mondo.
Nel 1930 Tesla smontò il motore a combustione interna di un’auto Pierce Arrow  e lo sostituì con un motore elettrico di potenza equivalente. Un’antenna riceveva cariche elettriche dal suddetto “vuoto” cosmico; un circuito con dodici valvole termoioniche sul cruscotto faceva fluire le cariche in forma di corrente, convogliandole al motore. Tesla guidò la Pierce Arrow per un giorno intero. Se si fosse commercializzata l’invenzione, non vi sarebbe bisogno di comprare prodotti petroliferi a prezzi gonfiati dall’usura nonché da una tassazione iniqua.
Citiamo ora la Borsa, strumento principe della manipolazione del denaro. Colà si comprano e vendono pezzi di carta variopinti dai nomi altisonanti di “azioni”, “valori”, “derivati” ecc. sotto pretesto di facilitare “risparmi e investimenti”. Il termine “investimenti” non rivela se questi siano in attività produttrici di ricchezza o in attività speculative che permettono ad alcuni di imporre tributo ad altri. È usura con un’altra maschera.
Lord Keynes (1883-1946) non disdegnava la pratica di guadagnare senza lavorare. Prima di colazione scrutava i listini di Borsa, e con un paio di telefonate ai suoi agenti di cambio si assicurava un discreto gruzzolo giornaliero.
È evidente che se si facesse sparire l’interesse, tutto il castello di carte crollerebbe rumorosamente. Ma come? I fautori della pratica hanno saputo bene come proteggersi da un tale pericolo. La linea divisoria tra le due classi, infatti, non è così netta da separarle a vista. Molti tra gli sfruttati si servono dell’interesse per guadagnare qualcosa proprio speculando.
Fu ciò che avvenne prima della crisi del ’29. Una propaganda stampa martellante convinse milioni di lavoratori a “investire” i loro risparmi in Borsa, per poi rovinarli con una offerta improvvisa di titoli invendibili. L’incantesimo non è affatto sparito. Ancora oggi migliaia di irretiti considerano perfettamente normale vivere di interesse.
Il Magistero ecclesiastico e l’usura
Non va male qui un excursus circa la lotta del Magistero ecclesiastico contro l’usura, mossa durante secoli, ma definitivamente perduta per combatterla su un terreno scelto dal nemico, e per giunta con una strategia e tattiche entrambe sbagliate.
L’errore strategico di base fu non aver afferrato la contraddizione tra riserva di valore e mezzo di scambio come origine del tributo imposto dalla classe usuraia di chi guadagna senza lavorare a chi è costretto a lavorare senza guadagnare.
Il primo errore tattico fu non aver localizzato l’usura agli scambi, giudicandola una questione di soli prestiti.
Il secondo fu di stimare che le pene canoniche avessero un valore deterrente che si mostrò storicamente infondato.
E così l’usura entrò a gamba tesa nella Cristianità, da cancro che continua a distruggere una intera civilizzazione. La sua ultima condanna formale risale al Concilio di Vienne, nel Delfinato, del 1311.
I nobili, che durante l’Alto Medioevo si accollavano doveri extra (e.g. il militare) che venivano corrisposti con privilegi giusti, cominciarono a liberarsene nello spirito della Magna Charta (1215), il che introdusse la plurisecolare lotta di classe nella Cristianità stessa.
Il tardo Trecento vide numerosissime rivolte sociali: i Ciompi di Firenze, i contadini di Wat Tyler e John Ball in Inghilterra, ecc., causate da paghe sottratte a chi lavorava per convogliarle ai signori che avevano scoperto la fecondità pratica del denaro. Sempre con meno doveri, i nobili mantennero però i privilegi, che da giusti divennero ingiusti. Ciò non causò, ma esasperò, la Rivoluzione dal secolo XVIII ai nostri giorni.
Alla Riforma, furono dei nobili che strapparono al popolo anche la fede, ed ecco il primo spargimento di sangue tra le due classi. A Frankenhausen i nobili, aizzati da Lutero, inflissero ai contadini una sconfitta sanguinosa con decine di migliaia di caduti.
I doveri furono a poco a poco imposti al popolo, fino a mandarli a perire a milioni in scontri epocali come le due guerre mondiali del XX secolo.
Menti acute come Dante (1265-1321) capirono l’essenza del fenomeno usurario. Nella Commedia, il poeta accomunò sodomiti e usurai nella stessa bolgia infernale[7], i primi per sterilizzare l’atto sessuale di natura sua fecondo, e i secondi per dare fecondità al denaro, di natura sua sterile. Le due pratiche attuano contro natura in due direzioni opposte.
Nessuno notò la natura usuraria del credito bancario al suo sostituirsi al contante dal 1609 in poi. Cosicché la Chiesa non lo condannò.
Un secolo e mezzo più tardi, 1745, Papa Benedetto XIV promulgava Vix Pervenit, primissima enciclica nella storia ecclesiastica, vertente precisamente sull’usura[8]. Il papa, seguendo la dottrina di S. Tommaso, fa una distinzione importante tra l’usura come prezzo del denaro-mercanzia[9], e l’interesse come tariffa del servizio di chi presta, banca o non banca.
Ciò ci permette di giudicare l’operato di coloro che in inglese vengono bollati con il nome infamante di loan sharks, pescecani dei prestiti. Costoro si piantano all’entrata dei mercati locali, offrendo contante a chi ne ha bisogno. Chiedono un minimo di interesse del 10% per diem, a volte anche del 20 o 40%. E l’ottengono, nonostante le condizioni precarie tanto del prestatario quanto del prestatore! Come tasso di interesse sarebbe mostruoso, ma come tariffa per il lavoro duro e sfiancante di dover racimolare un contante reso deliberatamente scarso da politiche bancarie usurarie, il loro operato entra nei termini dell’enciclica benedettina.
Il 1830 segnò il trionfo dell’usura sul Magistero. Interpellata la Congregazione competente (sotto Gregorio XVI) circa un caso di conscienza, la risposta fu di non inquietare “inopportunamente” i penitenti. Da allora, il termine stesso “usura” è sparito dai documenti pontifici, salvo un accenno in Quadragesimo Anno di Pio XI (1931).
Non c’è da sorprendersi. Come si può giudicare qualcosa che non si sa cosa sia?
Il trionfo di Marx
La zuffa tra Proudhon (1809-1865) e Marx (1818-1883) viene menzionata (quando lo viene) in sordina nelle facoltà di economia. I socialismi dei due non coincidevano affatto.
Proudhon capì perfettamente non solo l’usura, ma anche il latifondo, e l’uso perverso del denaro a ragione dei due fenomeni. Diceva: “Il denaro non è la chiave che apre le porte del mercato: è il chiavistello che le sbarra”.
Marx fece uso della conosciutissima arte di cambiare il nome delle cose, a cominciare dal suo proprio. Kiessel Mordechai Levy, un tanto  ostico alle orecchie del pubblico, divenne Karl Marx, breve ed eufonico. Poi chiamò capitalismo l’insieme di pratiche già analizzate che impongono tributi indebiti a chi lavora, e occultò usura, usurai, latifondisti, nonché la lotta di classe plurisecolare sotto una coltre di pomposità semicomprensibili.
Tra le quali spicca una spettacolare non causa pro causa: il Capitalismo come effetto della proprietà privata dei mezzi di produzione! Egli o non vide, o non volle vedere, il furto di questi mezzi alle famiglie da parte di grandi conglomerati, antenati di una industria produttrice e spacciatrice di cibo spazzatura, di medicine che uccidono, di bruttezze artistiche di ogni tipo, ecc. E propose di trasferirne la produzione allo Stato, con i disastrosi risultati sovietici del settantennio 1917-1989. 
Una divisione più razionale sarebbe stata chiamare Grande Usura l’insieme delle pratiche suddette, e usura simpliciter quella riservata ai prestiti ad interesse. Ma tant’è.
Poi si inventò, di sana pianta, una lotta di classe fittizia tra datori di lavoro e operai, classica applicazione di divide et impera. Il marxismo appare così in tutta la sua crudezza di foglia di fico che copre le vergogne di chi si arricchisce senza lavorare.
La zuffa tra Proudhon e Marx fu interrotta dalla morte prematura del primo, ad appena un anno dalla  pubblicazione di Kapital. Il campo di battaglia rimaneva sgombro per Marx, che da trionfo in trionfo ha finito per dominare l’insegnamento dell’economia nella gran maggioranza delle facoltà accademiche occidentali. Non è difficile capirlo: usurai e latifondisti guazzano nell’ombra, dalla quale finanziano lautamente un esercito di ammiratori della gran foglia.
Milioni di seguaci, generalmente limitati, quando non privi, di capacità di analisi –e a fortiori di sintesi- vagliano Das Kapital, ma disattendono il documento che veramente segna il trionfo di Marx[10] nella geopolitica dei secoli XIX – XXI: il Manifesto Comunista del 1848.
I dieci punti programmatici comprendono 2. Imposta sul reddito (pesante, progressiva e graduale), 5. Banca centrale (per controllare il credito della nazione, non per facilitare mezzo di scambio a chi lavora), e 10. Istruzione obbligatoria e gratuita, i cui disastri stanno davanti agli occhi di tutti. L’implementazione globale del Manifesto dovrebbe dar da pensare.
L’ingresso dell’usura nella Cristianità segnò la fine di pratiche culturali come l’ozio creativo motore di costruzioni di cattedrali e monumenti di alto valore artistico, l’inizio del culto della bruttezza nelle arti figurative ed estetiche, e altro.
Ritornanndo ad economia e politica, è da allora sempre più chiara la differenza tra due tipi di governo: quello che protegge il popolo contro le forze dell’usura, e quello che lo opprime in combutta con esse. Tertium non datur.
Accanto al socialismo genuino originario di Proudhon e quello truffaldino di Marx (non per niente lo bollava Henry George come prince of muddleheads)[11] vi è l’intervento statale nell’economia, caldeggiato dall’enciclica Rerum Novarum ma osteggiato da latifondisti, usurai e compagni d’arme.
Il successo più spettacolare di quest’ultima politica spetta alla Cina, che in 20 anni ha surclassato –e continua surclassando- tutte le economie occidentali a cominciare dagli Stati Uniti. La ragione è semplice: la Cina si è scossa di dosso l’usura, emettendo moneta ad interesse zero per opere pubbliche generanti ricchezza. Non lo sbandiera in altrettanti termini, ma chi vuol controllarne lo sviluppo 2000-2020 non ha che da fare una rapida ricerca in Rete.
I cinesi hanno capito quel che gli occidentali offuscano sotto un linguaggio fuorviante. Economisti di grido ripetono Keynes parlando di deficit spending come mezzo per finanziare infrastrutture, enfatizzando che non è necessario farlo con il ricavato delle imposte. Il che è vero, ma non nei termini veri del problema.
I quali sono che esistono due tipi di spese pubbliche: produttive e improduttive. Tra queste ultime campeggiano gli stipendi dei militari, le spese per materiale bellico, il mantenimento di una burocrazia anche necessaria, ecc. Se si stampasse moneta per pagare tali spese, evidentemente ne seguirebbe una inflazione imparabile.
Ma stampare moneta per spese produttive come viabilità, industrie, o anche bebé futuri possessori non solo di bocche che mangiano ma anche di braccia che lavorano e teste che pensano, non produce inflazione; semplicemente fa aumentare i mezzi per scambiare ricchezza pari passu con l’incremento della medesima.
2.      Latifondo, schiavitù e amenità collaterali
Le disgrazie non vengono mai sole, dice un noto proverbio. Per chi conosce la storia dell’usura e del latifondo, è difficile giudicare quale dei due abbia causato più danno all’umanità. Per chi non la conosce, la prima fa un certo senso; della seconda forse non sospetta neanche l’esistenza, o la considera risolta da secoli.
Il cardine della questione è la proprietà fondiaria, cioè l’insieme di diritti  che un individuo, o una comunità, possono esercitare su di una superficie territoriale determinata. Non la si creda una questione facile da dirimere. Cominciamo con un paragrafo di Paul Johnson (1928-), saggista, giornalista e storico britannico:
“Considerando che la storia della proprietà fondiaria collettiva si perde nelle nebbie dell’antichità, quella della proprietà assoluta ha un chiaro inizio storico.
La proprieta assoluta era sconosciuta tra gli invasori barbari; era sviluppata a Roma e a Bisanzio, ma imperfettamente. La Chiesa ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà, cosicché la incorporò nei suoi codici legali, tanto indelibilmente da sopravvivere e sfidare le forme superimposte dal feudalesimo. Lo strumento di titolo o carta di proprietà, che concede il possedimento assoluto di terra a un individuo o ad una corporazione privata, è una delle grandi invenzioni storiche. Insieme al concetto di Stato di Diritto, è economicamente e politicamente molto importante. Quendo un individuo può possedere terra assolutamente una volta per tutte, senza qualifiche sociali o economiche, e il suo diritto su quella terra è protetto perfino contro lo Stato dallo Stato di Diritto, costui ha una vera sicurezza di proprietà”.[12]
Le affermazioni francamente trionfaliste di Johnson fanno parte di un coacervo di opinioni comuni a molta gente, specialmente se occidentali, però che non regge ad una analisi particolareggiata. Facciamola, vagliando i suoi punti uno per uno.
Lungi dal “perdersi nelle nebbie dell’antichità”, ci si imbatte nella proprietà fondiaria collettiva oggi, viva e vegeta, in molte parti del mondo non occidentale.
Per esempio, codesto tipo di proprietà lo incontrarono tutti i colonizzatori europei su terre “nuove” di altri continenti. Il Manikongo Afonso Mvemba Nzinga (m. 1543), “Costantino d’Africa” come lo chiamavano i portoghesi, non concepiva che la terra potesse vendersi o comprarsi come res, cosa. Sempre si rifiutò di venderne ai portoghesi.
La Chiesa decisamente tentò di “incorporare la proprietà assoluta (freehold) nei suoi codici legali tanto indelebilmente da sopravvivere e sfidare le forme superimposte dal feudalesimo”.
Modifichiamo questa affermazione così perentoria di Johnson dicendo che la sfida non sempre ebbe successo. La proprietà fondiaria collettiva vigeva nel Regno delle Due Sicilie fino al 1860, l’anno dell’invasione piemontese. Il diritto napoletano aveva riformato quello feudale, istituendo un demanio che concedeva a chiunque il diritto di occupazione, ma non di possedimento. Nove milioni di napoletani vivevano e lavoravano senza bisogno di emigrare. Ma nel 1861, con l’entrata in vigore del diritto di proprietà assoluta con le leggi degli invasori piemontesi, milioni dovettero espatriare da un anno all’altro in America per lavorare.
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), nella stessa traedizione però intestardito dalla sua mancanza di volontà per pensare (ammessa da lui stesso) e dal suo odio anticattolico, aggiunse dei tocchi infausti circa l’inizio della proprietà assoluta:
“Il ;primo a cui venne in mente di recintare un plotto chiamandolo “suo” per i sempliciotti che gli credettero, fu il vero fondatore della società civile”. Continuava facendo notare come la proprietà assoluta fosse fonte di tutte le ineguaglianze, e che ogni legge, tanto civile quanto ecclesiastica, esistesse per proteggere codesto diritto. Pertanto, proponeva il sognatore, “per tornare all’uguaglianza primigenia bisogna prima far strame della religione, poi dell’ordine sociale, e infine della proprietà”.
È il programma della Rivoluzione, che con il fenomeno delle occupazioni abusive tollerate da governi che chiudono un occhio, sembra aver raggiunto la sua ultima tappa.
Ora, se un fenomeno di portata così universale come la proprietà collettiva, anche se sconosciuto, occultato da “nebbie dell’antichità”, o da supina ignoranza come quella di Jean-Jacques, merita una analisi per verificare se è giustificabile filosoficamente. Vediamolo.
Dicono i manuali di diritto che vi sono tre maniere di possedere una “res” assolutamente. Prima, facendola con le proprie mani; seconda, scambiandola con qualcosa fatta da un altro; terza, se è res nullius,  una cosa abbandonata senza un proprietario tracciabile.
Orbene, quale delle tre sarebbe applicabile ad una parcella di terra?
Sembrerebbe che la terza; riflettendo, però, una parcella non è res, cioè sostanza; è locus, o meglio situs tra le categorie aristoteliche.
Si rifletta anche che la terra è immortale. La si trova alla nascita, la si lascia alla morte. Non è pertanto naturale che un mortale la possegga con diritto assoluto. Chiunque ha il diritto di occuparla per lavorare, ma non di comprarla o venderla come se fosse res, cosa. Chi dunque può possedere terra naturalmente e assolutamente? Un essere altrettanto immortale: una comunità di qualsiasi natura.
Devo ammettere di aver provato un certo disagio nel raggiungere una tale conclusione, ma non vi fu modo di schivarla senza far violenza alla ragione. Per cui l’onestà intellettuale mi obbligò a continuare con i suoi corollari, che condivido qui con i lettori in cerca di verità.
Il “chiaro inizio storico” della proprietà assoluta, quindi, non fu “la Chiesa che ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà”, come afferma Johnson, ma Roma, in circostanze tutt’affatto diverse.
Quel che fecero i piemontesi a Napoli nel 1860 lo aveva fatto Roma 22 secoli prima, espellendo dall’Italia Centrale le tribù che avevano ostacolato la sua espansione, e che punì con la confisca delle terre.
Ciò ci permette di verificare quel che Henry George afferma in Progress and Poverty: all’origine di ogni titolo di proprietà, dovunque nel mondo, si trova invariabilmente un atto di violenza: un’aggressione militare, una espulsione da parte di un più forte, un omicidio, una frode, ecc. Titolo di proprietà assoluta e violenza sono le due facce della stessa medaglia.
Roma concesse le terre confiscate ai suoi senatori, con tanto di quello ius utendi et abutendi così lodato da Johnson, ma con la Chiesa tre secoli nel futuro. Sette secoli dopo, quando alcuni discendenti di codesti proprietari accettarono la fede cristiana, e sapendo che non avrebbero potuto trasferire la proprietà all’al di là, venne loro in mente di “lasciarla alla Chiesa”. Il decreto di Costantino che permetteva loro farlo è datato 321, otto anni dopo l’Editto di Milano del 313.
È ora di chiedersi: la Chiesa “aveva proprio bisogno”, come afferma Johnson, di titoli “per la sicurezza delle sue proprietà”? In che senso doveva avere proprietà “sue” di diritto o di fatto?
Come istituzione immortale, come già detto, la Chiesa ha un diritto naturale di possedere terre. Sempre, si intenda, che le attività da sviluppare su queste terre siano anch’esse immortali: culto, assistenza sociale, et similia.
La Chiesa tentò di praticare lo ius utendi mettendo in sordina quello abutendi, però la storia insegna che non vi riuscì. Somme ingenti di rendita vennero spese in opere di previdenza sociale come scuole, ospedali, alberghi per pellegrini, ecc., ma somme altrettanto ingenti andavano a parare nelle tasche dell’alto clero, vescovi e papi nonché di folle di parassiti non-clericali una cui analisi, anche incompleta, ci porterebbe fuori dal seminato.
La lotta per le investiture, è ben saputo, non fece che stabilire una inimicizia permanente tra il Papato e l’Impero, dove prima c’era almeno una armonia di vedute, anche se non al 100%.
La caccia al beneficio caratterizza generazioni di preti desiderosi di vivere senza lavorare, che alla fin dei conti era l’idea. I seguenti episodi ne mostrano la variopinta storia.
1155: Arnaldo da Brescia impiccato, cremato e le ceneri sparse sul Tevere per aver osato di condannare la vita oziosa dell’alto clero, vescovi e papi. L’imperatore Barbarossa eseguì la sentenza per crimine di eresia, in una confusione mai risolta tra codeste idee, che di eresia non avevano nulla, e di vere eresie arnaldine, che nulla avevano a che vedere con codeste idee.
1253: Robert Grosseteste vescovo di Lincoln, pochi mesi prima di morire, scrisse a Papa Innocenzo IV, rifiutando di concedere un beneficio a un nipote del papa, che voleva godere della rendita del medesimo ma senza vivere in Inghilterra. Il papa accettò la decisione vescovile senza batter ciglio.
1381: I contadini inglesi si ammutinarono al comando del laico Wat Tyler e del prete John  Ball. La questione era chiara nel ritornello ripetuto da Ball durante la marcia su Londra: “Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov’era il gentiluomo”? Si percepiva chiara la lotta tra chi si guadagnava la vita lavorando e chi speculando.
1751: L’abate Ferdinando Galiani (1728-1787) inviò sette scatole con la sua collezione di minerali a Papa Benedetto XIV, con la petizione un tanto irreverente di Beatissime Pater, fac ut lapides isti panes fiant, che tradotto voleva dire, Santo Padre, vediamo se mi concedete un beneficio in cambio di queste pietruzze, che mi sono costate tanto lavoro raccogliere e catalogare.
La proprietà fondiaria assoluta creatura del diritto romano non fu innocua neanche per Roma. Plinio il Vecchio lamentava nel secolo I che latifundia perdidere Italiam, per aver notato a) che il latifondo ha la schiavitù come contropartita, b) che gli schiavi sono pessimi soldati, c) che bisogna reclutare mercenari per l’esercito, d) il che indebolisce la capacità militare della nazione, ed e) determinando la sua sparizione dallo scenario storico. Lo stesso sarebbe avvenuto con Bisanzio un 1000 anni più tardi.
Le proposizioni a) –e) sono evidenti; a) non lo è tanto, cosicché va provata. Lo si può fare osservando il fallimento, monotono, di tutte le cosiddette “riforme agrarie” dovunque nei numerosi tentativi durante il secolo XX.
Quel che fa strame di tali riforme non è cattiva volontà, ma un cattivo comprendonio. Presumono, i fautori di tali riforme, una uguaglianza umana inesistente. Cosicché dividono un latifondo in un certo numero di parcelle, e le distribuiscono tra un numero uguale di beneficiari, aspettandosi che costoro ne facciano uso con uguale abilità e interesse.
Però avviene che uno dei beneficiari, dotato di tali desiderabili caratteristiche, e dopo aver fatto uso eccellente della sua parcella, nota che il vicino, o incapace o pigro o le due cose insieme, disattende la sua, che produce grandi quantità di erbacce e poco altro. Gli offre un prezzo equo e incorpora un secondo plotto al primo. In poco tempo si ritorna al latifondo.
Il quale produce un doppio guadagno al proprietario: a) affittando terre ad un canone più alto possibile; b) contrattando manovalanza a salari più bassi possibile, o le due cose quando la proprietà è sufficientemente estesa per permetterlo. In entrambi i casi, si fa lavorare senza corrispondere la giusta mercede: è schiavitù camuffata sotto spoglie più o meno magiche.
Non finiscono qui le caratteristiche della proprietà fondiaria privata. Nel definire l’economia, dicevamo che il lavoro umano produce non solo salari, ma anche rendita, valore aggiunto alla superficie territoriale del paese. Ogni parcella, quindi, produce due rendite, non una. La minore è prodotta dal lavoro del proprietario: raccolti, costruzioni, o qualunque attività economica personale. In giustizia, questa prima rendita gli appartiene al 100%.
La maggiore, al contrario, non la produce il proprietario lavorando nella proprietà, ma tutti coloro che lavorano attorno ad essa, qualsiasi cosa facciano. È la rendita da ubicazione, direttamente proporzionale alla densità di popolazione della zona.
In  giustizia, se codesta virtù presiedesse l’azione politica odierna, questa seconda rendita dovrebbe aggiungersi alle paghe di coloro che la creano, non necessariamente in forma monetaria, ma di servizi sociali, inclusa la spesa pubblica.
Segue un relato del solo esempio di un tale operato in pieno secolo XX-XXI.
Nel 1969 avvenne in Libia il colpo di Stato che vide il colonnello Muammar Gaddafi al potere. Il regime coloniale italiano, 1911-1951, aveva imposto lo stesso sistema fondiario responsabile per l’emigrazione massiccia di napoletani durante il tardo secolo XIX. Nel 1979, dopo aver studiato la questione, il colonnello distrusse tutti i titoli di proprietà assoluta, nazionalizzando il suolo, la moneta con l’erezione di una banca di Stato, e il 35% della produzione petrolifera.
Un tale intervento dello Stato nell’economia, effettivamente un socialismo alla Rerum Novarum, permise alla Libia di costruire il Gran Fiume Artificiale, un acquedotto di 6mila chilometri per quattro metri di diametro, che nei 25 anni 1986-2011 convogliò acqua dalle falde acquifere sotterranee della Nubia alla costa. I cittadini libici godevano adesso di “oro bianco” gratis.
E non solo. Per il 2011 la Libia godeva anche di elettricità, istruzione e sanità gratis; gli agricoltori ricevevano terra, sementi e bestiame iniziale gratis; la Banca di Stato faceva un dono di 5mila dollari ad ogni neonato, e un prestito senza interesse di 50mila a una coppia di sposi novelli. Sfortunatamente, venne in mente al colonnello di metter su un sistema monetario basato sulla superstizione di Creso, nell’illusione di poter liberare il continente dalle strette dell’usura.
Fu di troppo per usurai e latifondisti, che affossarono il progetto con i bombardamenti “umanitari” NATO e fecero assassinare Gaddafi dai mirmidoni del presidente “francese” Sarkozy.
Zambia è l’altro stato africano dove la proprietà fondiaria collettiva vige dal 1975. I suoi effetti si vedono contrastando il paese con il Kenya, dove vige il titolo tanto lodato da Johnson.
Lusaka, la capitale, ha una rete di strade a doppia carreggiata; il traffico fluisce da una rotonda all’altra senza difficoltà; i soli grattacieli sono edifici pubblici nel centro commerciale; gli altri sono villette ad uno o due piani con giardino attorno; il parcheggio è abbondante e gratuito in tutte le zone della città, giorno e notte. Si può occupare terra, ma non comprarla o venderla: le agenzie immobiliari sono chiuse dal 1975. Ma quel che più attrae l’attenzione è che da allora non una goccia di sangue è stata sparsa a ragione di conflitti aventi a che fare con la proprietà fondiaria.
Il Kenya e tutt’altra storia. Negli anni 2009-2019 una spropositata quantità di grattacieli, ognuno sfoggiante i gusti di un architetto diverso, sono stati costruiti vicinissimi l’un l’altro, in agglomerati confusi che non lasciano spazio neanche per parcheggi; il traffico si muove (quando può) da un ingorgo ad un altro; si può comprare terra, fino a quando arriva un secondo proprietario dello stesso plotto con un titolo ottenuto per corruzione; processi per occupazione abusiva tardano fino a dieci anni in tribunale; ma quello che attrae di più l’attenzione è lo spargimento di sangue a volte tra membri della stessa famiglia, se non giornalmente spesso settimanalmente.
Nel 2007, in seguito ad una elezione truccata, esplose una guerra civile tra alcuni Kikuyu, ai quali il primo presidente aveva concesso terre nel territorio di altre tribù, e gli autoctoni che ne reclamavano la proprietà, senza che le forze armate dello Stato fossero o capaci o vogliose di intervenire. Il risultato furono 1500 massacrati e 300mila senza tetto, che dovettero fuggire con quello che avevano addosso per non rischiare la vita. Per dieci anni vissero come profughi nel loro paese, tutti con titoli di proprietà variopinti però inutili.
Che la “grande invenzione storica” di Paul Johnson si riveli nella sua innaturalità in pieno secolo XXI in Africa lo si può capire; capiamo anche, però, come cessò di funzionare nella Cristianità del secolo XVI con la cosiddetta “Riforma” protestante, che sotto slogan più o meno pii come sola scriptura e sola fides occultava la smisurata ingordigia di una masnada di ladri[13].
A Enrico VIII Tudor, dopo aver espulso 10mila monaci da 900 monasteri, non venne in mente di confiscarne le terre a beneficio dello Scacchiere, che gli avrebbe permesso di non opprimere il popolo con imposte ingiuste. Vendette invece le terre produttrici di rendita ai ladri. Costoro si scrollarono di dosso immediatamente gli obblighi sociali espletati dai monasteri per secoli, e i poveri riapparirono sulla scena per non andarsene più.
Nel 1864 il Professore Edwin Thorold Rogers di Oxford (1823-1890) pubblicò una storia di Inghilterra dove mostrava, cifre alla mano, che ogni sovrano da Enrico VIII in poi aveva lasciato più poveri alla sua morte di quanti non ne avesse trovati alla sua accessione al trono. La pubblicazione non fu gradita al potere. Thorold Rogers venne radiato da Oxford.
La situazione economica dei poveri era peggiorata in due tappe. La prima, al venir espulsi dalle terre che coltivavano in affitto al tempo della distruzione dei monasteri, 1536-1541; la seconda, quando vennero espulsi dai pascoli comunitari dove si erano rifugiati per sopravvivere. I pascoli (commons) vennero recintati per l’allevamento di ovini, molto più profittevole dei canoni di fittavoli. In Scozia, dal 1750 al 1860, centinaia di villaggi vennero cancellati dalla faccia della terra, e i loro abitanti forzati ad emigrare per fare arricchire latifondisti, usurai e malfattori. Non rimane traccia di una popolazione rurale un tempo vibrante ed operosa, le cui terre fanno oggi da riserve di caccia per gentlemen che vivono senza lavorare.
Gli espulsi sarebbero morti di fame senza la Rivoluzione Industriale di fine secolo XVIII, che li salvò dalla morte con un salario da miseria, ma salario alla fin dei conti. Salario che in pieno secolo di crescita industriale (il XIX) non permetteva ad una famiglia neanche un piatto di carne all’anno.
Ora chiediamoci: a) È giudicabile la situazione odierna nei termini discussi fin qui? b) Può un uomo della strada far qualcosa almeno per palliarla?
La situazione odierna
Alla fine della seconda decade di un secolo XXI già alquanto ineunte, stiamo assistendo a rivolte sociali che, con nomi diversi, ricordano quelle di 700 anni fa. Le forze del lavoro, sulle quali si regge tutta l’economia reale, sono stufe di essere oppresse, sfruttate, penalizzate eccetera, da un sistema fiscale perverso in radice, ossia progettato per castigare chi lavora e premiare i fannulloni.
Ciò non è evidente. Se lo fosse, vari popoli inferociti lincerebbero altrettanti arcivescovi di Canterbury come fecero con Simon of Sudbury i contadini inglesi nel 1381. Va provato.
Il Regno Unito offre un buon paradigma.
Quel che gli arraffaterre della Riforma temevano di più durante la breve restaurazione cattolica ad opera di Mary Tudor (1553-1558) era che la regina li obbligasse a restituire le terre strappate ai monasteri. In consulta con il legato papale Reginald Pole, la regina si astenne prudentemente da una tale misura, che avrebbe peggiorato le relazioni tra l’Inghilterra e la Santa Sede dopo i regni turbolenti di Enrico VIII e il figlio Edoardo VI.
Cosicchè i discendenti dei nouveaux riches del secolo XVI continuano vivendo di una rendita che cresce senza sosta anno dopo anno fino adesso. Pochi sanno che il compito preponderante se non esclusivo della Camera dei Lords è di impedire che venga in mente ai Commons di metter le mani sulle loro rendite, anche con una pubblicità inopportuna.
La cosa è occultata così bene che non esistono dati ufficiali, o algoritmi “scientifici” che permettano di calcolarla. Esistono studi di ricercatori indipendenti come Fred Harrison (1928-2019), britannico e Mason Gaffney (1923-) americano. I due calcolarono la rendita del Regno Unito per il 2016 a 493 miliardi di sterline, tutti intascati da privati.
Di tanto in tanto sprazzi di luce, per chi capisce, appaiono nei necrologi di usurai e latifondisti VIP. Quello del banchiere Weinstock (luglio 2002) rivelava come la pratica squisitamente usuraria del tesoreggiamento del contante impone un pesante tributo di disoccupazione ad un numero sconosciuto, però imponente, di lavoratori. E quello del Duca di Westminster, deceduto nel 2018 con un lascito di otto miliardi di sterline, rivelava quelli della rendita fondiaria. Non c’è male per nessuno dei due.
Il suddetto va inquadrato nell’ottica di Brexit, che ha segnato la vittoria delle forze del lavoro su quelle dell’usura abbandonando l’Unione Europea.
Non ci si lasci ingannare dalle apparenze: le forze dell’usura latifondista continuano a fare il possibile per mettere i bastoni fra le ruote di Brexit, non perchè importi loro il classico fico secco della prosperità di chi lavora; quel che importa è la loro libertà di azione, che verrebbe severamente limitata da una politica di interessi nazionali al di sopra di quelli globali.
I gilet jaunes francesi si muovono nella stessa ottica, così come il partito Vox in Spagna ed altri. Quel che ogni oppresso, sfruttato ecc. desidera è una distribuzione di ricchezza ispirata alla virtù della giustizia, negata fin qui dalla perversione fiscale ventilata.
Approfondiamo. Tutti, perfino i manuali di tassazione, danno per scontato che l’imponibile fiscale debba essere il valore aggiunto dal lavoro umano. E questo nonostante l’esempio eclatante della Libia di Gaddafi fino al 2011, che dimostra la falsità della proposizione. Il colonnello aveva usato come imponibile fiscale non il valore aggiunto dal lavoro umano, ma quello sottratto all’uso pubblico di risorse naturali come la terra e il petrolio, più quello di riservare l’emissione di moneta al potere politico e sottrarla a quello privato.
I governi odierni, imperterriti, continuano a rubare il frutto del lavoro dei cittadini, non per coprire la spesa pubblica, ma per pagare interesse su prestiti innecessarii quando non fraudolenti, a “prestatori” che non hanno prestato un bel niente. Esempi di tassazione odierna:
L’imposta sul reddito colpisce la produzione. Generalmente il furto (a mano armata) avviene per trattenute obbligatorie sulle paghe.
Le imposte indirette colpiscono il consumo. La loro invenzione risale all’Inghilterra del XVII secolo, ad opera dei latifondisti allora al potere desiderosi di sbarazzarsi di imposte da loro dovute per trasferirle ai poveri. Raggiungendo così l’unico risultato di mettere una gran quantità di prodotti fuori portata di chi non guadagna uno stipendio sufficiente.
Niente batte l’IVA per malevola assurdità, che richiede un certo trattamento.
 Pochi ricordano che la Spagna, proprio per applicare questo tipo di imposta, detta alcabala a quel tempo, perdette i Paesi Bassi in seguito a una rivolta fiscale.  Non fu la rivolta a costringere il paese ad abrogare la alcabala, ma la costatazione che i costi di riscossione, su un imponibile di milioni di transazioni commerciali, superavano di gran lunga le entrate erariali, ossia si trattava di una imposta regressiva che non rende. Ciò continua ad esser vero, però verso il 1990 venne in mente a chissà che “esperto” di accollare tali costi proprio alle vittime dell’IVA. Senza pagarli, naturalmente, il che ha fatto rientrare dalla finestra la schiavitù, dopo averla messa alla porta durante il primo millennio.
Dazi e dogane chiudono la lista di imposte che Harrison e Gaffney bollano come  tapis roulant, cioè che forzano a correre sempre più rapidi per rimanere nello stesso posto. Queste colpiscono il commercio internazionale, ma il loro uso è principalmente político, cioè impedire che un libero commercio tout court  introduca, insieme a beni e servizi prodotti da paesi con bassi salari, anche la loro legislazione del lavoro. Dazi e dogane servono per proteggere la forza lavoro nazionale.
Un ultimo sintomo del sistema fiscale moderno è quello che l’economista norvegese Thorstein Veblen (1857-1929) chiamava “consumo cospicuo” ossia le spese stravaganti che si permette chi vive di usura e di rendita: yachts, mansioni alla Vaux-de-Vicomte, riserve di caccia, viaggi con residenza in costosissimi alberghi 5 stelle, eccetera.
C’è via d’uscita?
L’ultima domanda è: cosa può fare l’uomo qualunque per togliersi di dosso i pesantissimi carichi dell’usura e del larifondo? In una guerra senza quartiere, conoscere il nemico e identificare il suo (o suoi) tallone di Achille è di prima importanza. Facciamolo.
Il latifondo si può eliminare solo cambiando il paradigma fiscale. L’uomo qualunque, sprotetto e disarmato dopo la distruzione delle corporazioni del lavoro durante la Rivoluzione, non è assolutamente in grado di poterlo fare da solo.
Una rivolta fiscale richiederebbe unità, metodo e leadership di prima classe. Ma per l’IVA sembra esserne giunta la scomparsa grazie all’inaspettata e repentina emergenza sanitaria, senza bisogno di scendere in piazza. Non vado oltre per mancanza di elementi di giudizio.
Una riforma fiscale richiederebbe spostare l’imponibile dal valore aggiunto dal lavoro a quello sottratto all’uso pubblico da chiunque, sia che viva di rendita e interesse o no.
Siccome la rendita del suolo nazionale non è omogenea, disegnare un algoritmo che permetta di calcolarla non è cosa facile. Brevemente si tratterebbe di confiscare (etimologicamente: convogliare al Fisco) la seconda rendita, quella da ubicazione, creata da chi lavora attorno alle proprietà, e che in stretta giustizia appartiene a loro, non ai detentori di “titoli” più o meno variopinti. Gaddafi docet[14]. Non è certo compito per l’uomo qualunque.
Circa l’usura, occorre stare al tanto dei guadagni del nemico nel forzare il credito al posto del contante, in una guerra il cui obiettivo finale è l’eliminazione del secondo, già eseguito in Svezia e fatto avanzare a grandi passi in altri paesi.
Eliminare il contante significa dipendere interamente da controlli esercitati da gente anonima, che con un semplice clic ti può cancellare dalla faccia della terra, senza appello e senza rimedio. Se l’uomo qualunque anela libertà, è estremamente importante non lasciarsi abbindolare da un tale stratagemma. Cosa può fare?
Primo, anche se obbligato per legge ad aprire un conto corrente bancario, mai depositarvi contante. Vi depositi esclusivamente strumenti di credito: assegni, cambiali, effecti commerciali, tutto eccetto denaro contante. Un tale contro-stratagemma obbligherebbe le banche, a lungo termine, a mettere in circolazione quello che tesoreggiano nei loro caveaux, senza però causare le crisi economiche del passato.
Dove tenere il contante? In schedari, in scaffali pieni di carta stampata: libri, riviste ecc., in cassette di attrezzi, o, conoscendo un buon muratore, in un nascondiglio invisibile a occhi indiscreti. O dovunque suggerisca la fertile immaginazione di chi vuol essere libero.
Secondo, colpire il tallone di Achille: l’interesse. Questo puro incantesimo, con un credito senza lucro cessante o danno emergente, ha perduto ogni raison d’être.
Sarebbe ora quindi di confrontarsi con il primo direttore di banca con cui si concerti un muto di qualsiasi entità. Senza ambagi, contestare l’interesse. Il credito non presta alcunché; autorizza a creare denaro dal nulla firmando pezzi di carta in forma di libretto; la banca non corre rischio di nessun tipo; l’interesse è illegittimo.
Il primo banchiere che udisse un discorso del genere non esiterebbe a mettere alla porta il troppo audace cliente. Ma sentendola due, dieci, cinquecento o mille volte, la pratica parassitaria, per non dire criminale, dell’interesse composto dovrebbe cedere il posto a qualcosa di più ragionevole, come una tariffa una tantum, senza proliferazioni indebite.Il mantra “l’interesse non si tocca” verrebbe così nullificato.
Ne rimane un secondo: Come può una società “moderna” funzionare senza banche? Una brevissima risposta sarebbe “restituendo a chi lavora il contante rubato loro per secoli”. Fu sottratto surrettiziamente e paulatinamente, così da controllare più del 95% delle transazioni commerciali. Le stesse banche hanno azzoppato il lavoro indipendente, rifiutando credito ad artigiani e piccoli agricoltori, ma concedendolo lautamente a speculatori, usurai e altri manipolatori di denaro-mercanzia. Una usurpazione non si allevia; si abroga senza esitare. Il denaro emesso dal governo non è che certificato di lavoro compiuto. Lo fa la Cina dal 1978.
Non c’è limite al fattibile senza usura, alla quale siamo così usi da non poter neanche immaginare un mondo senza di essa. Spero che questo saggio serva per lo meno a stimolare l’immaginazione del pubblico di Accademia.
27 marzo 2020







[1] Oggi, paradossalmente, Vaux-le-Vicomte è fonte di entrate non indifferenti per l’erario francese.
[2] La sua storia non viene al caso, però quel contingente rimase invitto, e in pieno assetto di combattimento.
[3] Mercante tedesco che fece fortuna nell’Argentina di fine secolo XIX. Autore di Ordine Economico Naturale.
[4] Le date 1890-1930 corrispondono alla sparizione a opera del vento di 400 milioni di acri di prateria nord-americana, dopo anni di agricultura di rapina.
[5] Per la cronaca, furono Bonaldo Springher, Giuseppe Paratore, Giuseppe Volpi e Alberto Beneduce
[6] In India, infatti, questo tipo di lavoro viene affidato ai dalit, la casta più bassa dell’ordine sociale indù.
[7] Sodoma e Caorsa, dice Dante, con riferimento alla cittadina francese di Cahors, allora nido di usurai.
[8] Vix Pervenit ha tutte le qualifiche per campeggiare in un manuale qualsiasi di Dottrina Sociale della Chiesa. Perchè non lo faccia non mi è dato sapere.
[9] Cf. IIa IIae q. 78, De Usura.
[10] E di Engels suo finanziatore (con le paghe sottratte ai lavoratori del suo opificio tessile di Manchester).
[11] Capoccia delle teste confuse.
[12] Is there a moral basis for Capitalism? American Enterprise Institute 1980, p. 52. Enfasi nell’originale.
[13] Li descrive Hilaire Belloc (1870-1953) in How the Reformation Happened.
[14] Utilissime le 33 pagine del suo Green Book, scaricabile.