Allego qui il suo articolo per il Sito: Archivio Guerra Politica e vi aggiungo, a seguire, l’articolo di V. Vinciguerra, citato dalla Limiti.
BRAVISSIMA STEFANIA LIMITI, GIA' VALENTE AUTRICE DELL'IMPORTANTISSIMO LIBRO "DOPPIO LIVELLO" (Ed. Charelettere 2013).
FINALMENTE QUALCUNO COMINCIA A TOCCARE LE VERITA’ DI COMODO, QUELLE DI PRESUNTI SERVIZI SEPARATI, MASSONERIE SEPARATE E PSEUDO TERRORISTI NERI.
E’ demenziale o di comodo ritenere che importanti ufficiali, generali, alti vertici dei nostri Servizi militari e civili abbiano inquinato, depistato, nascosto prove, protetto e addirittura fatto fuggire all’estero persone indagate per gravi reati di strage, solo per nascondere qualche mancanza, per giochi politici o addirittura per simpatie ideali con gli inquisiti.
Se i nostri servizi hanno dovuto giocare d’azzardo, hanno dovuto prendere questi gravi provvedimenti (e più di una volta!) è stato solo per non far aprire a cascata le “scatole cinesi” che avrebbero portato le responsabilità dello stragismo nemi settori dello Stato e nel sistema Atlantico che lo sovrasta.
Occorre ricominciare tutto d’accapo, fregandosene dei precedenti procedimenti giudiziari, di una magistratura che non ha voluto e non ha potuto trovare i rjesponsabili dello stragismo.
LA VERITA’ DEVE VENIRE FUORI, A TUTTI I COSTI - CI SONO CENTINIA DI MORTI, MIGLIAIA DI MUTILATI DA BOMBE ASSASSINE SENZA CONTARE CHE COLORO CHE HANNO PARTICIPATO ALLO STRAGISMO, A QUALSIASI TITOLO, HANNO COTRIBUITO ALLA PERDITA TOTALE DELLA NOSTRA SOVRANITA’ NAZIONNALE, ALL’OCCUPAZIONE MILITARE, TRAMITE BASI, DEL NOSTRO TERRITORIO TRASFORMATO IN UNA ITALYLAND, ESTENSIONE TERRITORIALE ATLANTICA.
Ed occorre anche reagire ad un tentativo attualmente in atto in tutto un certo ambiente, che cerca di far passare Vincenzo Vinciguerra come un matto, un paranoico. Dopo averlo ignorato, esorcizzato per tanti anni, ora si cerca di invalidarlo con queste considerazioni patologiche.
Si da però il caso che Vinciguera può aver commesso errori di valutazione, può aver esagerato nelle sue accuse a determinate persone, non considerando che in politica ci si muove, si prendono contatti, ci si sporca, ma non sempre questo viene fatto in mala fede, ma sostanzialmente Vinciguerra ha pienamente ragione e comunque nessuno, di coloro che ora ne tracciano un quadro psicopatico, ribatte alle sue accuse, risponde alle sue lucidissime ricostruzioni del periodo stragista. D’altronde di che meravigliarsi, sono gli stessi che si beano e si trastullano con biografie edulcorate, fantasiose, che stravolgono avvenimenti precedenti ben conosciuti.
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V. Vinciguerra: 1969 Andare avanti
Partendo da piazza Fontana
di Stefania Limiti
Se fossi un magistrato della Procura di Milano, e mi capitasse di leggere
la lucida, direi inquietante, riflessione di Vincenzo Vinciguerra sulla strage di
Piazza Fontana (Vedi apresso) e le recenti (presunte) indagini, penso che farei un salto
dalla sedia.
C’è un brevissimo passaggio del suo saggio che dice così: “non tutti
sono morti” e si riferisce a persone che hanno la responsabilità di quel
tragico pomeriggio del 12 dicembre. Non è una frase minacciosa o il vanto
di uno che ne sa molto.
Vinciguerra ha scelto molto tempo fa la sua collocazione nelle vicende
giudiziarie e a quella si è sempre attenuto, con estrema ostinazione. Non ha
mai avuto bisogno di lanciare messaggi obliqui, non è mai stato questo il suo
stile. E’ stato ed è sempre rimasto un soldato politico – e in questa veste
parla di Pietro Valpreda. Se ha fatto nomi è per la denuncia politica dei
‘parastali’, i suoi ex camerati che brigavano con il potere. Ci ha abituati
alle sue valutazioni tutt’altro che formali ma questa volta, dopo aver letto le
motivazione della recente sentenza di archiviazione dell’ultima non-indagine,
come giustamente ci avverte perché non è stato fatto nulla di ciò che
presuppone una indagine (sentire testimoni, cercare conferme alle ipotesi che
si presentano e quant’altro), sembra proprio che abbia avuto un sussulto di
rabbia. Lo conosco attraverso le nostre lettere, sempre cortesi, affettuose nei
miei riguardi – spero di non violare la sua riservatezza svelando questo
particolare. Non mi pare un uomo impulsivo. Del resto, si possono scrivere
poche pagine per istinto di rabbia ma non il lungo e meditato saggio che ci
propone per la ricorrenza di questo anniversario della strage. Nel quale si coglie
il fastidio per i tanti pezzi di verità disseminati e mai raccolti nei
tribunali, sebbene si pretenda che la ricerca della verità sia un impegno
inderogabile delle istituzioni.
La matassa giudiziaria è complicata. Vinciguerra, Paolo Cucchiarelli, con
il suo libro-inchiesta, e Guido Salvini, con la sua aperta denuncia
dell’operato della Procura di Milano, ci dicono che si potrebbe sbrogliare e
raccontano molto a proposito. Se quella giudiziaria è una verità esclusivamente
formale, tuttavia dobbiamo interrogarci se tutto non sia stato fatto per
raggiungerla: sappiamo dei depistaggi, dell’inquinamento dei processi, ma in
questo caso sembra che tutto sia conseguenza della perdita della memoria
oppure, peggio, della difesa chiusa e non perdonabile dell’operato di una
casta.
Vedremo cosa accadrà, se ci sarà un seguito a quelle parole – “non tutti
sono morti“.
Intanto, oggi sappiamo comunque molto sulle bombe di Piazza Fontana. Le
responsabilità del gruppo ordinovista veneto, quelle della rete di agenti atlantici
che operavano nelle basi Nato e che controllavano, manipolavano e indirizzavano
i neofascisti, la vera natura di Ordine nuovo – non quella di un movimento
politico ma di un servizio segreto clandestino alle dipendenze di strutture
atlantiche – la strategia dell’infiltrazione nei gruppi della sinistra, un
capitolo doloroso per la sinistra stessa – Giuliano Spazzali, alla
presentazione del libro di Cucchiarelli disse, “quel giorno perdemmo
l’ingenuità, non l’innocenza”.
E sappiamo molto anche di tutto quello che venne dopo. E’ ora di cominciare
a chiederci anche perché qualcuno ha voluto ‘scomporre tutto il quadro’,
disarticolare la possibilità di capire. I magistrati di Brescia, nella loro
memoria al processo di primo grado (16 febbraio 2011) per la strage di Piazza
della Loggia, scrivono parole molto drammatiche, sulle quali si è riflettuto
poco: “i risultati [della meticolosa inchiesta bresciana, ndr], in
termini di ricostruzione del fatto, appaiono potenzialmente schizofrenici.
Infatti, in base alle regole oggi vigenti, potrebbe giungersi a ricostruire un
fatto differente (sebbene naturalisticamente identico) per ogni imputato, a
seconda degli elementi utilizzabili nei suoi confronti e per alcuni potrebbe
giungersi, in astratto, a negare la stessa sussistenza del fatto“. Cioè:
tutto è stato reso illeggibile, sdoppiato, senza una apparente logicità.
Impossibile appagare il bisogno della verità – anche come minimo risarcimento
alle vittime.
Ma questo non vale forse anche per vicende recenti? Se facciamo un balzo e
arriviamo al 1992, non si può dire lo stesso nel caso della prima, manipolata,
ricostruzione della strage di Via D’Amelio? E’ venuto poi un pentito, redento e
devoto, a raccontarci tutto. Spatuzza oggi dice: “se non avessi parlato io?
Non avreste mai e poi mai saputo la verità“. Bisogna tirare i fili,
perché in Italia ancora si pensa che la strategia della tensione sia cosa
lontana e passata. Invece non si è mai interrotta. Lo storico Aldo Giannuli ci
ha comunicato che lascia il campo della ricerca che ha praticato per molti anni
per dedicarsi a studiare la storia del potere in Italia “ben al di là –
dice – delle vicende della Strategia della tensione“: ma non è proprio
questo, forse, il terreno di studio più importante per capire “l’attuale
decadenza del Paese“, intento che egli si propone? Cioè portare all’oggi il
patrimonio di analisi di un passato che non passa, anche se la scena sembra
diversa e le bombe sono sostituite dalle Borse.
Le categorie dello stragismo neofascista o dello stragismo mafioso non
bastano a spiegare. Vinciguerra nel suo saggio scrive: “ognuno è libero di
pensare che quattro scalzacani dell’estrema destra, magari con l’aiuto di
qualche ufficiale ‘infedele’ o poliziotto ‘colluso’, potessero assumersi con
successo un compito così gravoso, si chiamino pure mago Zurlì (Franco Freda) o
Caccola (Stefano Delle Chiaie)“.
Si può dire lo stesso di Totò Riina: ognuno è libero di pensare che sia lui
il cattivo. Con quella faccia lì, come ha ordinato di ammazzare il piccolo Di
Matteo ha pure ordinato le stragi. Però così non si spiega quasi niente degli
eventi che hanno immobilizzato l’Italia, snervato ancora di più, ai primi anni
’90, la sua democrazia: chi si voleva proteggere buttando nell’arena il piccolo
delinquente Vincenzo Scarantino? Perché Falcone non fu ammazzato a Roma, visto
che tutto era già pronto? Chi convinse Riina a trasformare un’azione mafiosa in
un’imboscata militare (non alla portata dei suoi picciotti)? Perché
l’ordinivista-mafioso Rampulla il giorno della strage di Capace ha un impegno
familiare? Perché il suo mentore, Saro Pio Cattafi, uomo-chiave dell’impero
affaristico di Cosa Nostra, tiene in casa i falsi volantini di rivendicazione
brigatista dell’assassinio del procuratore di Torino Bruno Caccia (tecnica
ordinovista, non furbizia mafiosa) ? Perché non si è mai indagato sulle
responsabilità del gruppo ordinovista La Fenice nella strage del Rapido 904
attribuita al mafioso Pippo Calò?
Dopo Piazza Fontana alcuni poteri, nazionali e internazionali, con le
stesse tecniche, hanno assicurato la destabilizzazione del nostro paese e sono
riusciti a camuffarsi. Per questo ha ancora ragione Vinciguerra quando chiude
dicendo, “noi andiamo avanti”. Perché i protagonisti di quella vicenda e di
quelle venute dopo non sono stati solo quelli che appaiono. E se anche oggi
fosse tardi per dargli un nome e un cognome, tuttavia non è tardi per spiegare
la natura e gli obiettivi della guerra non convenzionale dispiegata in Italia,
perché siamo stati fagocitati da una lunga scia di eventi muti che hanno
portato lutti e minato il nostro sistema democratico.
Stefania Limiti
1969: andare avanti
http://www.archivioguerrapolitica.org/?p=5265
Di Vincenzo Vinciguerra - Opera, 12 novembre 2013
Non siamo sorpresi né, tantomeno, afflitti
dalla decisione del giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo di archiviare, il
30 settembre 2013, le indagini sulla strage di piazza Fontana accogliendo la
richiesta avanzata dai pubblici ministeri milanesi Armando Spataro, Maurizio
Romanelli e Grazia Pradella.
Riteniamo, viceversa, che con questo atto giudiziario si possa porre fine
all’illusione di quanti hanno sempre ritenuto che dalla magistratura italiana
potesse giungere una verità, anche parziale, sulla guerra civile italiana.
Dalla lettura dell’ordinanza di Fabrizio D’Arcangelo si ricava, difatti,
che la procura della Repubblica di Milano non ha svolto nuove indagini
sull’eccidio del 12 dicembre 1969, ma si è limitata a raccogliere, per dovere
di ufficio, le segnalazioni che ad essa pervenivano da parte di altri
magistrati bresciani, giornalisti, avvocati e ufficiali dei carabinieri) per
concludere infine che nessuna di esse fosse meritevole di approfondimento.
Questa non inchiesta della procura della Repubblica di Milano non poteva,
di conseguenza, che concludersi con un nulla di fatto.
Ne prendiamo atto.
A differenza del giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo, noi riteniamo che
le indagini sulla guerra civile italiana non debbano fermarsi mai, che esse si
possano “protrarre all’infinito”, anche se in parte riguardano “persone
decedute o già giudicate per la strage” del 12 dicembre 1969, a Milano.
Non tutti sono morti.
I vivi non potranno mai essere condotti in catene in Tribunale perché lo
vietano la loro età e il tempo trascorso dei fatti, ma potrebbero contribuire
al ristabilimento della verità, se opportunamente indagati ed interrogati.
La morte non costituisce un ostacolo sulla via della verità, sia sul piano
giudiziario che su quello storico.
In quanto alle persone “già giudicate”, ricordiamo che per Franco Freda e
Giovanni Ventura, la magistratura ha riconosciuto tardivamente la loro
responsabilità penale nella strage di piazza Fontana e tanto si può ripetere
per altri, come loro, giudicati estranei con sentenze che non rientrano di
certo nel novero delle migliori mai emesse dalla magistratura italiana.
Per ricordare la frase minacciosa di Giulio Andreotti, accanto agli
imputati ci sono anche gli “imputandi” vivi o morti che siano, mai comparsi in
un’aula di Tribunale e mai interrogati dai magistrati della procura della
Repubblica di Milano.
Non vogliamo, comunque, polemizzare con questi magistrati milanesi perché
abbiamo sempre sostenuto che la responsabilità dei depistaggi e delle menzogne,
anche affermate in tante sentenze della magistratura, risale al potere politico
di cui quello giudiziario é subalterno.
Potere politico che per aver scatenato una guerra civile, ha tutto
l’interesse a negare questa tragica colpa come ha sempre fatto, continua a fare
e continuerà a fare perché riconoscerla significherebbe minare alle fondamenta
la legittimità di questa classe dirigente che si vedrebbe costretta a
rinunciare al suo ruolo dominante.
Come si fa un’indagine?
Per prima cosa si cerca il movente, perché la sua individuazione consente
di circoscrivere il campo di ricerca degli ideatori, degli organizzatori e
degli esecutori materiali.
La magistratura italiana non ha mai cercato il movente delle stragi, a
partire proprio da quella di piazza Fontana del 12 dicembre 1969.
Solo il giudice istruttore Guido Salvini, contro il quale si sono scagliati
i magistrati della procura della Repubblica di Milano e Felice Casson, ha
inquadrato l’evento nel contesto della guerra “fredda”, ovvero nello scontro
fra apparati segreti dell’Ovest e dell’Est, i primi impegnati in Italia a
sbarrare la strada al Partito comunista italiano.
Gli sono, però, mancati gli elementi per definire il movente interno ed
internazionale, in modo più preciso, tale cioè da consentire una più facile
individuazione dei responsabili di alto e basso livello.
Il quadro internazionale dell’anno 1969 lo conosciamo: flotta sovietica nel
Mediterraneo, Medio Oriente in fiamme, inizio della guerriglia palestinese in
Europa, Libia e Tunisia in rivolta contro le ex potenze coloniali, Marocco
traballante, Algeria in mano ad un presidente – Houari Boumedienne – che i
servizi segreti occidentali ritenevano un mero agente sovietico.
La situazione interna italiana vedeva l’implacabile crescita elettorale del
Pci, la “Quinta colonna sovietica” in Italia, con i primi accenni di timida
apertura nei suoi confronti da parte di Aldo Moro, disordini sociali e
sindacali, instabilità politica provocata dallo scontro fra coloro che
affermavano il fallimento della formula del centro-sinistra e pretendevano il
ritorno al centrismo o anche al centro-destra.
Un caos, al quale bisognava mettere fine riportando l’ordine in quella
penisola che é la portaerei americana nel Mediterraneo.
Chi poteva assumersi il compito non facile di riportare l’ordine in Italia
per trasformarla in un baluardo anticomunista in grado di garantire gli
interessi americani, atlantici ed israeliani nel Mediterraneo?
Ognuno é libero di pensare che quattro scalzacani dell’estrema destra,
magari con l’aiuto di qualche ufficiale “infedele” o poliziotto “colluso”,
potessero assumersi con successo un compito cosi gravoso.
Non siamo democratici ma, a differenza dei democratici, rispettiamo le
opinioni di tutti anche quelle che, ictu oculi, appaiono frutto della fantasia
degli addetti agli uffici di disinformazione dei servizi segreti militari e
civili, fermo restando che non ci sentiamo proprio di condividerle.
Quella, tanto cara alla procura della Repubblica di Milano, che vedeva in
“mago Zurlì”, come Marcello Soffiati chiamava Franco Freda, il capo di una
“cellula nera” che aveva ideato ed organizzato la strage di piazza Fontana in
concorso con i soli Giovanni Ventura e Guido Giannettini, non l’abbiamo mai
accettata. Così come ha sempre suscitato in noi amare risate quella che vede
nel “Caccola” a Roma il deux ex machina di un inesistente “neofascismo” romano
violento e “golpista”.
No, in verità, non potevano essere “mago Zurlì” e il “Caccola” a riportare
l’ordine in Italia perché nella scala gerarchica del potere occupavano gli
ultimi posti.
Se é vero che il disordine può essere scatenato dal basso é altrettanto
vero che l’ordine può essere ristabilito solo dall’alto, da coloro che
detengono il potere e gli strumenti esecutivi dello stesso: forze armate e di
polizia, servizi segreti, magistratura.
In un sistema bipolare, in cui i patti stipulati a Jalta erano ancora in
vigore, come dimostrato dalla passività del mondo cosiddetto libero di fronte
all’invasione sovietica della Cecoslovacchia (21 agosto 1968), un intervento
repressivo contro il Partito comunista in Italia si poteva ipotizzare solo nel
caso che il disordine interno fosse di intensità tale da giustificare agli
occhi della comunità internazionale e dell’opinione pubblica italiana il varo,
magari temporaneo, di leggi eccezionali, ovvero la proclamazione dello “stato
di pericolo pubblico”.
L’azione del governo non doveva apparire come un intervento diretto e
mirato contro il Partito comunista che, aveva da tempo dismesso la faccia
feroce, le vesti del lupo per indossare quelle dell’agnello.
Doveva, viceversa, stroncare il disordine provocato da una miriade di
gruppi e gruppuscoli collocati alla sinistra del Pci e quanti altri erano
contrassegnati da un estremismo “anarcoide”.
I provvedimenti eccezionali derivanti dalla proclamazione dello “stato di
emergenza” avrebbero, poi, automaticamente interessato il Partito comunista, il
suo apparato clandestino, i suoi rapporti segreti con l’Unione sovietica e le
sue fonti di finanziamento occulto.
Per raggiungere l’obiettivo, però, il disordine piazzaiolo dei gruppi
dell’ultra sinistra, gli attentati dimostrativi a firma anarchica non potevano,
ad avviso di molti, bastare per giustificare un “colpo di Stato” istituzionale.
Serviva altro, necessitavano i morti, il sangue sull’asfalto, i colpi
mortali ed indiscriminati che sarebbero piombati come mazzate su una
popolazione sempre più attonita e smarrita.
Non è difficile, per quanti detengono tutto il potere, destabilizzare
l’ordine pubblico perché possono servirsi degli apparati segreti e clandestini
di cui dispongono, creati nel corso degli anni all’insaputa del Parlamento e
dell’opinione pubblica per fronteggiare l’ipotetica minaccia militare sovietica
e quella, più reale e concreta, politica rappresentata dalla costante ascesa
elettorale del Partito comunista italiano.
Non detiene, il potere, solo gli strumenti ma anche gli uomini che
consapevolmente si prestano ad agire nei suoi interessi sotto copertura, ovvero
da ufficiali oppositori del regime (ma non dello Stato) nelle vesti di
“neofascisti”, impegnati a contrastare l’avvento della “Repubblica conciliare”,
il sorgere di un regime “clerico-marxista” ecc. ecc.
I capi di questo fantomatico neofascismo sono noti: Giorgio Almirante,
segretario nazionale del Msi dal mese di giugno del 1969; Pino Romualdi, autentico
dominus del partito; Pino Rauti, capo di Ordine nuovo e Junio Valerio Borghese,
militante del Msi ma dal 13 settembre 1968 responsabile del “Fronte nazionale”.
Sono questi uomini le “cinghie di trasmissione” fra il potere, i suoi
apparati segreti e clandestini e la massa di reazionari e conservatori che si
credono “neofascisti” solo perché fanno il saluto romano alle manifestazioni e
vanno in pellegrinaggio a Predappio, sulla tomba di Benito Mussolini.
Uno, in particolare, perché gode negli ambienti militari nazionali ed
internazionali ai altissima considerazione per il suo passato militare, per
aver diretto la Decima flottiglia mas, per aver giustamente meritato il
riconoscimento della Medaglia d’oro al V.M. che brilla nel suo petto: Junio
Valerio Borghese.
Le indagini sugli attentati del 12 dicembre 1969 hanno sfiorato
marginalmente, per la volontà ricattatoria di Franco Freda, il solo Pino Rauti,
mentre nessun’altra figura di spicco del mondo dell’estrema destra è mai
entrato nel mirino dei magistrati di Treviso, Roma, Milano, Catanzaro che pure
per anni hanno indagato alla ricerca della verità.
Per definire la figura di Pino Rauti è sufficiente, qui, ricordare che nei
processi svoltisi per la stragi del 12 dicembre 1969, a Milano, del 7 aprile
1973 sul treno Torino-Roma (fallita), del 17 maggio 1973, a Milano, del 28
maggio 1974,a Brescia, sul banco degli imputati ci sono finiti tutti uomini che
avevano lui come capo e guida.
Certo, la responsabilità penale è personale. Nessuno, tranne Marco Pozzan
per conto di Franco Freda, ha chiamato in correità Pino Rauti e per la
magistratura italiana il capo può non sapere quello che fanno i suoi
subalterni.
Per la storia, i capi non possono non sapere quello che fanno coloro che
gli obbediscono, tant’è che Pino Rauti non ha mai interrotto i suoi rapporti
con coloro che, in teoria, avrebbero agito a sua insaputa.
Nei primi giorni di gennaio del 1970, fu proprio Pino Rauti ad imporre
Carlo Maria Maggi, insieme ad altri dirigenti di Ordine nuovo come componente
del comitato centrale del Msi.
Non era trascorso un mese dalla strage di piazza Fontana.
Ricordiamolo, e passiamo oltre.
Se è esistita in Italia una formazione politica che si proponeva un solo
fine, quello di riportare l’ordine nel Paese, questa è stata il Fronte
nazionale guidato da Junio Valerio Borghese.
Ufficialmente costituito, a Roma, il 13 settembre 1968, il Fronte nazionale
è composto da una doppia struttura, quella “A” ufficiale e politica, e quella
“B” clandestina e paramilitare.
Se c’è stata formazione politica che, senza una ragione apparente, si è
auto-dissolta nel 1965, per ricostituirsi nei primi mesi del 1970, in via
ufficiale, questa è Avanguardia nazionale giovanile diretta da Stefano Delle
Chiaie, detto il “Caccola”.
Cosa fanno i militanti dell’auto-disciolta organizzazione del “Caccola?”.
Per la divisione Affari riservati del ministero degli Interni la loro
attività è il segreto di Pulcinella.
In una nota informativa del 18 dicembre 1968, difatti, si riepiloga
sommariamente l’attività del gruppo ricordando che i suoi esponenti “sarebbero
stati in contatto con ufficiali dell’Arma dei carabinieri ed avrebbero presi
accordi che in caso di necessita l’A.n.g. avrebbe dovuto costituire la
cosiddetta protezione civile. In questo periodo negli ambienti interessati si
parlava con insistenza del Generale De Lorenzo”.
Poi, prosegue l’ignoto estensore, “verso la fine del 1964 l’A.n.g. fu
sciolta, per riformarsi dopo brevissimo tempo in maniera totalmente diversa:
alcuni elementi di sicura fede, appartenenti alla vecchia A.n.g. furono
avvicinati cautamente e singolarmente e fu loro proposto, nelle forme che il
caso richiedeva, se volevano entrare a far parte di una organizzazione segreta,
composta da persone disposte a qualsiasi sacrificio per il trionfo del loro
ideale e decise a tutto pur di contrastare il passo alla politica in atto”.
Un’organizzazione clandestina, dunque, “costituita in modo che non tutti i
componenti potessero conoscersi tra di loro: furono pertanto formati gruppi di
due, tre o quattro persone al massimo”, venendo a configurarsi come una
struttura pluricellulare per azioni che, ragionevolmente, non potevano essere
quelle relative alla distribuzione di volantini.
Difatti, nel prosieguo della sua memoria l’anonimo redattore ricorda che
già prima “molto elementi, mentre facevano parte dell’A.n.g. erano stati
istruiti sull’uso delle armi e degli esplosivi da un ex ufficiale francese
della legione straniera, in uno scantinato sito in via Amari Michele a Roma”,
mentre dopo lo scioglimento ufficiale e la ricostituzione come organizzazione
clandestina “seguirono nell’estate del 1965, corsi pratici in Antrodoco
(Rieti)”, tenuti da un “ex ufficiale tedesco di circa 38-40 anni”.
Nella sua memoria, l’informatissimo redattore omette però di indicare a chi
facesse capo questa struttura clandestina perché, come i fatti dimostreranno
Delle Chiaie non ha mai avuto una strategia propria ma solo quella di chi gli
era gerarchicamente superiore.
Per sapere per conto di chi operassero il Delle Chiaie ed i suoi militanti
nel 1969, non serve andare lontano nel tempo, è sufficiente spostarsi di sei
mesi dal fallimento dell’operazione del 12-14 dicembre 1969 per scoprire che il
1° giugno 1970, a Roma, a casa di Mario Rosa, Stefano Delle Chiaie è nominato
responsabile della struttura “B” del Fronte nazionale.
Una promozione derivante dai meriti da lui acquisiti dal agli occhi del
principe Junio Valerio Borghese, per quanto fatto nel periodo precedente.
Con buona pace degli storici italiani, parte dei quali impegnati a
frazionare il mondo dell’estrema destra e, in particolare, Avanguardia
nazionale da Ordine nuovo, in quel periodo l’unione fra i dirigenti ed i gruppi
era totale.
La strategia dell’infiltrazione a sinistra accomunava sia gli ordinovisti
che gli avanguardisti, necessaria perché era sulla sinistra che doveva ricadere
la responsabilità dei disordini e degli attentati.
La fase esecutiva della strategia della destabilizzazione era affidata ai
militanti dell’estrema destra che erano subalterni a quanti rappresentavano le
“cinghie di trasmissione” fra loro e i vertici politici e militari.
Se nell’autunno del 1969, a rientrare nel Movimento sociale italiano “per
aprire l’ombrello”, secondo la definizione di Pino Rauti, è il solo Ordine
nuovo si deve al fatto che Avanguardia nazionale ufficialmente non esiste più
dal 1965, mentre il Fronte nazionale, diretto da Junio Valerio Borghese è un
movimento apartitico che, per sua natura, non può ovviamente confluire in un
partito politico qual’era il Movimento sociale italiano.
Ma è sufficiente vedere, per comprendere il comune coordinamento, che alla
manifestazione indetta da Giorgio Almirante per la data del 14 dicembre 1969, a
Roma, dovevano esserci proprio tutti perché quella avrebbe rappresentato il
momento culminante dell’intera operazione: quando ai morti di Milano si
sarebbero sommati i morti di Roma, il governo di Mariano Rumor non avrebbe
potuto fare altro che proclamare lo stato di emergenza.
Nel 1968-69, di conseguenza, ad agire sul terreno ci sono i militanti di
Ordine nuovo, agli ordini di Pino Rauti, e quelli del Fronte nazionale guidato
da Junio Valerio Borghese nel quale sono confluiti parte degli elementi di
Avanguardia nazionale impegnati ad operare all’interno della struttura
clandestina dell’organizzazione.
Non si deve cercare, come si è fatto per quarantaquattro anni, la strategia
“eversiva” di “Caccola” e “mago Zurlì”, ma si deve accettare che i gruppi
dell’estrema destra hanno svolto un ruolo organizzativo ed esecutivo
nell’ambito della strategia finalizzata a ristabilire l’ordine pubblico e,
soprattutto, a rinvigorire quelle politico.
Strategia non partorita dalla mente dei capi (Almirante, Rauti, Romualdi,
Borghese) ma da uomini collocati ai vertici del potere politico e militare,
suggerita da quegli alleati americani ed atlantici che dal ristabilimento in
Italia di un regime forte, di luna democrazia autoritaria e decisamente
anticomunista avevano tutto da guadagnarci.
Il “golpe” del 7-8 dicembre 1970, autorizzato dagli americani e sostenuto
da politici di primo piano italiani come Giulio Andreotti, è solo la soluzione
di ripiego dopo il fallimento del “colpo di Stato” istituzionale del 12-14
dicembre 1969.
Perché nel 1969 si voleva e si cercava in tutti i medi la soluzione di
forza, il “golpe” come a tanti piace chiamarlo.
Il primo ad affermarlo, pubblicamente, era stato nel mese di luglio del
1969 Gian Giacomo Feltrinelli, che aveva diffuso un opuscolo di 14 pagina dal
titolo “Estate 1969”, con un sottotitolo eloquente: “La minaccia incombente di
una svolta radicale autoritaria a destra, di un colpo di Stato all’italiana”.
Non venne creduto.
Quasi nove anni più tardi, però, il 14 gennaio 1978, l’ex capo della
polizia, Angelo Vicari, nel corso della sua deposizione nell’aula della Corte di
assise di Roma dov’è in corso di svolgimento il processo per il “golpe
Borghese”, dichiara:
“La Questura conduceva indagini sul Fronte nazionale per una serie di
tentativi di colpi di Stato messi in atto prima e dopo la famosa notte del
‘Tora Tora’. Di questi episodi, ripete, se ne erano verificati più d’uno. Il
più grave, quello che destò maggiore allarme, avvenne nel luglio del 1969”.
Non solo nel torrido mese di luglio del 1969 qualcuno aveva tentato di
realizzare il “golpe”, perché il tentativo sarà reiterato nel mese di dicembre
dello stesso anno.
Particolare significativo, ma sempre trascurato sul piano storico e
giudiziario, l’allarme viene lanciato questa volta da persone collocate,
ideologicamente, sul piano opposto a quello di Gian Giacomo Feltrinelli.
I dirigenti della Federazione nazionale combattenti della Repubblica
sociale italiana fanno distribuire, nel mese di novembre del 1969, un volantino
con il quale invitano i reduci a “non farsi strumentalizzare per un colpe di
Stato reazionario”.
La conferma, questa volta, viene in tempi recenti dal giornalista Giovanni
Fasanella il quale rinviene negli archivi dei servizi segreti britannici di
documenti nei quali si parla, esplicitamente, delle intenzioni del governo
guidato da Mariano Rumor e, contestualmente, di quelle di Junio Valerio
Borghese di giungere alla proclamazione delle “stato di emergenza” indicando
perfino la data in cui questa sarebbe avvenuta: 13-14 dicembre 1969.
La strage di piazza Fontana, a Milano, e quella fallita a Roma, avvengono
il 12 dicembre 1969. La manifestazione nazionale indetta da Giorgio Almirante
si dovrà svolgere il 14 dicembre 1969.
Non serve altro per spiegare le motivazioni della data stabilita dal
governo e da Junio Valerio Borghese per la proclamazione dello stato di
emergenza.
Sarebbe stato necessario – ed a nostro avviso doveroso – da parte della
procura della Repubblica di Milano acquisire i documenti britannici consultati
e citati da Giovanni Fasanella per dare all’inchiesta una svolta definitiva.
Solo che l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana l’hanno condotta
persone di buona volontà estranee all’ambiente giudiziario, non i pubblici
ministeri di Milano.
Il movente è ora chiaramente definito: rafforzare l’ordine politico
esistente destabilizzando l’ordine pubblico, in modo da giustificare dinanzi
alla comunità internazionale e alla popolazione italiana la proclamazione dello
“stato di emergenza” con la conseguente sospensione delle garanzie
costituzionali.
Possiamo configurare, senza alcuna difficoltà, i livelli ideativo,
organizzativo e operativo:
Al primo, ai collocano gli uomini del potere, chiamati a “stabilizzare” il
Paese, a riportare la sicurezza nelle sue piazze e nella sue strade, ad
assumere il ruolo di “salvatori della Patria”.
Al secondo, gli Almirante, i Borghese, i Rauti in grado di mobilitare
centinaia di uomini per impegnarli nella “destabilizzazione” dell’ordine
pubblico, affiancati in veste di controllori e di protettori dagli uomini dei
servizi segreti militari e civili.
Al terzo ed ultimo, i “Caccola”, i “mago Zurli” e quanti altri agiscono sul
terreno come conviene ai gregari, ai subalterni chiamati ai eseguire ordini, a
compiere il “lavoro sporco”.
Abbiamo il movente, il fine ultimo, la configurazione della struttura
gerarchicamente ordinata su tre livelli, non è poi impossibile ricostruire
quanto hanno fatto, anche sul piano giudiziario, se mai ci fosse stata la
volontà di farlo.
Chiariamo subito, inoltre, la confusione creata ad arte da alcuni, in buona
fede da altri, relativa alla separazione organizzativa ed operativa esistente,
secondo loro, fra Ordine nuovo, da un lato, ed Avanguardia nazionale
dall’altro, derivante, sempre secondo questa fantasiosa ipotesi, dalla
dipendenza dei due gruppi rispettivamente dal servizio segreto militare, il
primo, dalla divisione Affari riservati, la seconda.
Non lo dice solo Giovanni Ventura, il 17 marzo 1973, al giudice istruttore
Gerardo D’Ambrosio che esisteva un accordo fra Ordine nuovo e Avanguardia
nazionale, ovvero il Fronte nazionale, lo dicono i fatti e i comportamenti
concreti degli appartenenti a questi gruppi, e quelli tenuti dai servizi
segreti militari e civili nei loro confronti.
Le abbiamo scritte in modo documentato senza ottenere smentite.
Lo ribadiamo: è accertato, sul piano storico e giudiziario, che gli uomini
della divisione Affari riservati, diretti da Elvio Catenacci, hanno subito
depistato le indagini e “coperto” gli avanguardisti a Roma e gli ordinovisti a
Padova, affiancati dal servizio segreto militare.
La famosa nota con la quale, il 16 dicembre 1969, il Sid indica in Stefano
Delle Chiaie, Mario Merlino, Yves Guerin Serac e Robert Leroy i responsabili
degli attentati di Roma e di Milano, suona come un avvertimento ai “cugini” del
ministero degli Interni per evitare che possano, in un futuro più o meno
prossimo, scaricare sulle spalle del servizio segreto militare parte delle
responsabilità, per coprire le proprie.
Precauzione saggia ma inutile, quella del Sid se trovasse conferma che a
fare il nome di Guido Giaanettini, come persona implicata nelle attività di
Franco Freda e Giovanni Ventura, sia stato proprio il prefetto Federico Umberto
D’Amato.
La procura della Repubblica di Milano non si è mai discostata dalle
indicazioni del servizio segreto civile, così ha dapprima circoscritto le
indagini alla sola “cellula nera” padovana e all’agente “Zeta” del Sid Guido
Giannettini, rifiutandosi addirittura di prendere in considerazione, negli anni
Novanta, i risultati dell’inchiesta del giudice istruttore Guido Salvini che
affiancava ai tre – Franco Freda, Giovanni Ventura, Guido Giannettini – gli
ordinovisti veneziani Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, salvo poi
arrendersi dinanzi all’evidenza dei fatti e delle testimonianze.
Mai, inoltre, la procura della Repubblica di Milano ha allargato
l’orizzonte investigativo a Roma.
La conferma ci viene dall’elenco di ventidue attentati che il giudice
istruttore Fabrizio D’Arcangelo ritiene con certezza riferibili all’attività
posta in essere, nel 1969, dal gruppo ordinovista veneto.
L’elenco, che non segue un ordine cronologico, inizia con quello compiuto
nello studio del rettore dell’Università di Padova il 13 aprile 1969.
Seguono:
- i due attentati compiuti a Milano, il 25 aprile 1969, alla Fiera
Campionaria e all’ufficio cambi della Banca nazionale del Lavoro alla Stazione
centrale;
- quello del 21 maggio l969, compiuto a Roma, contro gli uffici della
procura della Repubblica, fallito per la mancata esplosione dell’ordigno;
- quello del 24 luglio 1969, compiuto a Milano, contro l’ufficio istruzione
del Tribunale, fallito per la mancata esplosione dell’ordigno;
- quelli (16) compiuti contro i treni l’8-9 agosto 1969;
- quello del 19 agosto 1969, compiuto a Roma, contro la sede della Corte di
cassazione, fallito per la mancata esplosione dell’ordigno;
- quello del 28 ottobre l969, compiuto a Torino, contro la sede del palazzo
di Giustizia, fallito per la mancata esplosione dell’ordigno;
- quelli del 12 dicembre l969, a Roma, e a Milano.
È una logica precisa quella che esige di datare l’inizio dell’operazione di
“destabilizzazione” dell’ordine pubblico dal 13 aprile 1969, da Padova, in modo
da far passare sul piano storico la “verità” giudiziaria secondo la quale la
“mente” dell’azione complessiva è da individuarsi nei soliti Franco Freda e
Giovanni Ventura, sostenuti dal servizio segreto militare tramite Guido
Giannettini.
Non accettiamo di uniformarci a questa logica deviante, perché il fatto che
la magistratura non sia riuscita ad individuare i complici romani della banda
di Stato veneta, non vuol dire che questi non siano mai esistiti.
Per la storia, non per la nostra personale opinione, l’opera di
destabilizzazione inizia dalla Capitale dove il piano è stato concepito e dove
risiedono i responsabili del primo e secondo livello, quello ideativo e quello
organizzativo.
Il primo attentato, difatti, è compiuto a Roma, il 28 febbraio 1969, contro
un ingresso secondario del Senato, in via della Dogana vecchia, in coincidenza
non fortuita con la conclusione della visita del presidente americano Richard
Nixon in Italia, e del suo colloquio riservatissimo, a quattr’occhi, con il
presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat.
Il secondo attentato colpisce la sede del ministero della Pubblica
istruzione, in viale Trastevere, il 27 marzo 1969, con un ordigno che ha
caratteristiche simili a quello impiegato contro la sede del Senato un mese
prima.
Il terzo attentato prende di mira il palazzo di Giustizia, il 31 marzo
1969, e viene rivendicato con volantini “anarchici” a firma di “Marius Jaoob”.
Da questo attentato, come vedremo nel prosieguo, scaturisce una inchiesta
che metterà a rischio l’intera operazione rivelando la matrice di destra delle
bombe “anarchiche”.
Resi edotti dal pericolo, gli uomini del Fronte nazionale e di Ordine nuovo
eviteranno d’ora in avanti di far esplodere i loro ordigni dinanzi alle sedi
giudiziarie, limitandosi a compiere azioni meramente dimostrative come,
difatti, provano gli attentati da loro successivamente compiuti contro la
procura della Repubblica di Roma, il 21 maggio 1969; l’ufficio istruzione del
Tribunale di Milano, il 24 luglio 1969; la Corte di cassazione, a Roma, il 19
agosto 1969; il palazzo di Giustizia di Torino il 28 ottobre 1969.
Quattro attentati puntualmente “falliti” per la “mancata esplosione” degli ordigni
collocati, segno non d’imperizia ma di volontà degli attentatori ben attenti a
non provocare nuove e pericolose inchieste a loro carico.
Cos’è accaduto, difatti, a Roma, dopo l’attentato contro il palazzo di
Giustizia del 31 marzo 1969?
Benché l’attentato sia a firma anarchica, persone inserite negli ambienti
giudiziari ed investigativi ostentano anche pubblicamente di non crederci.
Il 17 aprile 1969, la rivista Panorama, nell’articolo intitolato “Lo dicono
con le bombe”, riferendosi proprio agli attentati avvenuti a Roma il 28
febbraio, il 27 ed il 31 marzo, riporta il giudizio espresso da Giuseppe
Velotti:
“Certo il linguaggio (dei volantini di rivendicazione – Nda) è quello degli
anarchici, ma nulla ci impedisce di pensare che dietro di esso si nascondano
degli agenti provocatori, o degli ultras di destra impegnati a dimostrare
l’incapacità e l’inettitudine del potere costituito contro l’ondata di
sovversione e agitare di riflesso, la necessità di uno Stato forte. È solo
un’ipotesi, ma non bisogna assolutamente trascurarla”.
Non è l’unico, Giuseppe Velotti, ad attribuire alla destra attentati
firmati da sinistra, perché la polizia proprio il 31 marzo 1969 aveva
perquisita la sede dell’organizzazione universitaria Nuova Caravella, fondata e
diretta dagli uomini del Fronte nazionale Guido Paglia, Adriano Tilgher e
Cesare Perri.
Del resto, il 31 gennaio 1969, proprio il prefetto di Roma aveva segnalato
al ministero degli Interni che i gruppi di destra stavano infiltrando propri
elementi nel Movimento studentesco “per condurre azioni di sfaldamento
dall’interno”, e compiendo azioni violente “volte a creare ripercussioni
negative nell’opinione pubblica e a portare discredito sul Movimento”.
Non solo nel Movimento studentesco perché, per fare un esempio, il 3 marzo
1969, un appunto redatto per il Sid da “fonte certa” afferma che Enzo Maria
Dantini avrebbe stipulato un “patto” con due esponenti di gruppi filocinesi e
trokzisti in funzione anti-Pci.
Lo stesso Enzo Maria Dantini che verrà indiziato di reato il 18 aprile
1969.
Quel giorno la polizia perquisisce l’abitazione di Stefano Delle Chiaie, a
Roma, e arresta, a Rocca di Papa (Roma), Marcello Brunetti, trovato in possesso
di 18 chili di polvere di mina, 4 metri di miccia a lenta combustione, 85
detonatori.
L’operazione si svolge nell’ambito delle indagini svelte sull’attentato
“anarchico” del 31 marzo contro il palazzo di Giustizia. Insieme a Enzo Maria
Dantini, cugino di Marcello Brunetti, sarà indiziato di reato anche Franco
Papitto, altro elemento di destra.
Il fatto che la polizia svolga a destra indagini riferite ad attentati di
“sinistra”, allarma e sconcerta gli ambienti interessati che esprimono il loro
disappunto ed il loro malumore con un avvertimento al ministro degli Interni,
Franco Restivo, contro la cui abitazione privata é compiuto un attentato
dinamitardo il 19 aprile 1969.
Ma l’ufficio politico della Questura di Roma non demorde e, il 23 aprile
1969, sempre riferendosi all’attentato del 31 marzo al palazzo di Giustizia, in
un suo rapporto scrive:
“Gli autori dell’attentato, in uno scritto rimaste sul luogo dell’esplosivo
a firma di una fantomatica organizzazione anarchica, adoperando un frasario che
rivela la loro posizione ideologica tutt’altro che anarchica, rivendicano la
responsabilità anche dell’attentato al ministero della Pubblica
istruzione…Infine la composizione dell’esplosivo adoperato nei due attentati e
negli altri precedenti é simile, almeno per quanto é stato dichiarato dal
personale della locale direzione di artiglieria, a quella del materiale
sequestrato a Brunetti…Si ritiene pertanto che il Brunetti, il Dantini e il
Papitto siano corresponsabili dei predetti attentati”.
Il patrimonio conoscitivo dell’ufficio politico della Questura di Roma
svanirà misteriosamente, senza più riapparire, nemmeno dopo gli attentati
“anarchici” del 12 dicembre 1969, a Roma e a Milano.
Anche gli attentati del 27 e 31 marzo 1969 saranno, infine, attribuiti ai
solo anarchici Pietro Angelo Della Savia, Paolo Faccioli e Paolo Braschi,
mentre scompariranno dell’inchiesta, anche per l’intervento della procura della
Repubblica di Milano, quelli di Enzo Maria Dantini e Franco Papitto.
Nessun mistero, perché qualche mese dopo, nel mese di luglio, il direttore
della divisione Affari riservati, Elvio Catenacci, stronca la carriera del
commissario di Ps, Pasquale Juliano, che incaricato a Padova di condurre le
indagini sull’attentato del 13 aprile 1969 nello studio del rettore
dell’Università, invece di perseguire anarchici aveva concentrato sulla base di
informazioni certe la sua attenzione investigativa su Massimiliano Fachini,
Franco Freda e colleghi.
Il copione è identico a Roma come a Padova.
I subalterni, al di fuori del gioco, hanno gli elementi per individuare a
destra i mandanti di attentati a firma di sinistra, ma un intervento dall’alto
del ministero degli Interni ristabilisce le regole della partita ed impone che
gli atti di violenza siano attribuiti, in modo esclusivo, all’”estremismo
anarcoide”.
Riepilogando: gli attentati compiuti nel corso dell’operazione di
destabilizzazione sono almeno 26, a partire dalla data del 28 febbraio 1969,
quando esplode il primo ordigno contro un ingresso secondario del Senato.
Di questi attentati, ben nove sono compiuti nella Capitale, compresi i tre
del 12 dicembre 1969.
Inoltre, è certa la presenza di un rappresentante del gruppo romano del
“Fronte nazionale”, a Padova, il 18 aprile 1969 nella riunione che precede gli
attentati di Milano del 25 aprile successivo contro la Fiera campionaria e
l’ufficio cambi della Banca nazionale del lavoro alla Stazione centrale.
È Giovanni Ventura a dichiarare, in sede giudiziaria, che l’ordigno deposto
presso l’ufficio istruzione del Tribunale di Milano, il 24 luglio 1969, gli
venne consegnato da un emissario giunto da Roma.
Salgono, così, a dodici gli attentati nei quali la presenza del gruppo
romano di Junio Valerio Borghese, in modo diretto od indiretto, è certa.
Il coordinamento fra il gruppo di Ordine nuovo guidato da Pino Rauti ed il
Fronte nazionale di Junio Valerio Borghese è accertato.
Già il 25 novembre 1968, una nota del Sid segnala che Pino Rauti,
“segretario generale di O.N.” ha stretto un “preciso accordo…per un’alternativa
al sistema” con Junio Valerio Borghese, presidente del Fronte nazionale.
Non si segnala, nella nota, la presenza del “Caccola” e di “mago Zurli”,
perché gli accordi li fanno i capi, non i gregari.
Sono quarant’anni, a dir poco, che i magistrati della procura della
Repubblica di Milano sanno che l’operazione del 1969 è stata coordinata fra
Roma, il Veneto e Milano.
Ma, mentre il braccio ordinovista del nord-est è entrato nel mirino delle
indagini prima per merito del giudice istruttore di Treviso, Giancarlo Stiz,
poi per quello del giudice istruttore di Milano Guido Salvini che, unico e
solo, ha aperto uno spiraglio anche sul capoluogo lombardo indiziando Giancarlo
Rognoni, quello romano è rimasto del tutto immune benché non si possa dire che
siano sconosciuti parte dei suoi componenti.
La spiegazione si trova nel fatto che le indagini a Roma sono state concentrate
solo su due persone incontestabilmente di destra: Mario Merlino e Stefano Delle
Chiaie, per poi essere circoscritte ai soli appartenenti e frequentatori del
circolo 22 marzo per la presenza nello stesso di Pietro Valpreda, il “martire
dell’anarchia” che noi giudichiamo un collega di Merlino e Delle Chiaie.
Tralasciando, per ora, questa nostra opinione, vediamo che nessun altro
componente del mondo romano del Fronte nazionale e di Ordine nuovo è mai stato
indagato per i fatti del 12 dicembre 1969 e gli attentati compiuti a partire
dal 28 febbraio 1969.
Eppure qualche indizio c’è stato. Ad esempio una chiamata di correità
diretta nei confronti di Mario Merlino.
Il 12 aprile 1978, la rivista L’Espresso, nell’articolo intitolato “Le
bombe a Roma le mise Merlino”, riporta le dichiarazioni di Alfredo Sestili che,
in merito agli attentati del 12 dicembre 1969, compiuti nella Capitale, afferma
di aver partecipato alla loro esecuzione insieme a Mario Merlino.
Alfredo Sestili ha fatto parte della struttura clandestina di Avanguardia
nazionale poi confluita nel Fronte nazionale, ed in questa veste lo troviamo il
31 agosto 1968, al congresso anarchico di Carrara, insieme a Pietro Valpreda,
Mario Merlino ed altri “camerati” camuffati da anarchici.
Mario Merlino non ha un alibi per il pomeriggio del 12 dicembre 1969. Ne
deve inventare uno palesemente falso, come è noto ai funzionari dell’ufficio
politico della Questura di Roma, ma Sestili non è stato creduto.
Ad accusare i dirigenti di Ordine nuovo fu, invece, l’avvocato Vittorio
Ambrosini con due lettere inviate, rispettivamente, al ministro degli Interni,
Franco Restivo, e alla segreteria nazionale del Pci nel mese di gennaio del
1970.
Le due lettere non sono mai state ufficialmente ritrovate, anche perché il
loro autore, Vittorio Ambrosini, il 20 ottobre 1971, ha avuto la felice idea di
“cadere” dalla finestra dell’ospedale romano nel quale si trovava ricoverato
dal 1° ottobre.
Capitolo chiuso.
È un luogo comune che gli attentati commessi a Roma il 12 dicembre 1969
siano stati meramente dimostrativi. Tesi portata avanti da quanti si affannano
ad affermare (senza dimostrare) che gli attentati di quel tragico giorno sono
stati compiuti a Milano dai “cattivi” di Ordine nuovo collegati al Sid, e a
Roma dai “buoni” di Avanguardia nazionale, dipendenti dalla divisione Affari
riservati.
Senza bisogno di fare l’intero elenco dei feriti, rileviamo che a causa
dell’attentato compiuto alle ore 16,55, nel sottopassaggio esistente
all’interno della Banca nazionale del lavoro in via S. Basilio, Bartolo Busatta
riporta lesioni guaribili in oltre 6 mesi, di cui porterà i segni per tutta la
vita; Ferdinando Dioletta, a sua volta, guarirà in poco più di tre mesi e,
anche lui, conserverà i postumi per tutta la vita; Maria Antonietta Esposito e
Duilio Franzin, a loro volta, resteranno in ospedale per 40 giorni.
Se i morti non ci sono stati, questo non è dipeso dalla volontà degli
attentatori.
Tanto si ricorda per dire che quel pomeriggio, a Milano e a Roma, si è
cercata la strage, consapevolmente e deliberatamente, perché comune, senza
fittizie suddivisioni fra “buoni” e “cattivi”, era l’obiettivo di quel giorno:
uccidere.
Un maggiore interesse nei confronti di quanti hanno agito nella Capitale
sarebbe stato, lo sarebbe ancora e lo sarà all’infinito, doveroso.
Qui non si tratta di portare alla sbarra persone che sono state già
giudicate e assolte, altre che potrebbero esserlo post-mortem, altre ancora che
sono state sfiorate dalle indagini ed altre, infine, che mai sono state
interrogate sui fatti per verificarne il coinvolgimento e decidere il loro
rinvio a giudizio, ma più semplicemente per accertare il loro grado di
conoscenza e definire il loro ruolo.
Un’inchiesta si fa interrogando testimoni, cercando indizi, ponendosi degli
interrogativi e tentando di dare loro una risposta, non sulla base di
fantasiose illazioni ma su quella dei fatti concreti.
La non inchiesta dei pubblici ministeri di Milano ha, viceversa,
evidenziato il loro assoluto disinteresse nei confronti di una verità che non
dovrà mai, nei loro propositi, essere trovata.
Difatti, hanno omesso di interrogare l’agente di Ps Salvatore Ippoliti,
infiltrato nel circolo anarchico Bakunin di Roma e, poi, in veste di
controllore nel 22 marzo.
Ippoliti è ancora in vita. E, a nostro avviso, ha molto da dire e sarebbe
forse disposto a farlo se qualcuno glielo chiedesse a distanza di
quarantaquattro anni.
Difatti, potrebbe raccontare quanto l’ufficio politico di Roma ha
accuratamente occultato con l’evidente scopo di proteggere i Merlino e i
Valpreda, affermando in quel mese di dicembre del 1969 che i rapporti
informativi da lui redatti si erano interrotti il 20 novembre 1969.
In altre parole, “Andrea” è certamente rimasto accanto ai componenti del
circolo 22 marzo fino al 12 dicembre l969, ma dalla data del 20 novembre
avrebbe omesso di riferire ai suoi superiori gerarchici quanto vedeva e
sentiva.
Gli ineffabili magistrati romani hanno accettato, senza battere ciglio,
questa incredibile “verità” dell’ufficio politico della Questura ma, a tanti
anni di distanza, l’ex agente di Ps potrebbe dirci quanto è stato tenuto
nascosto perché è evidente che lui il suo lavoro di “infiltrato” ha continuato
a farlo anche dopo il 20 novembre 1969, segnalando a chi di dovere quanto aveva
modo di osservare e di ascoltare.
Non è casuale che i dirigenti dell’ufficio politico di Roma abbiano
sostenuto che “Andrea”, a partire dal 20 novembre 1969, non ha più segnalato
niente perché è il periodo immediatamente precedente agli attentati del 12
dicembre 1969 e, a nostro avviso, l’agente di Ps infiltrato ha visto e sentito
cose che non potevano essere portate a conoscenza dell’opinione pubblica e
della pur compiacente magistratura romana.
Forse, “Andrea” vorrà mantenere anche oggi l’omertà, vorrà rifiutarsi di
raccontare la verità sul circolo 22 marzo, i Merlino e i Valpreda, ma per
accertarlo sarebbe necessario interrogarlo.
Ed è esattamente quanto non hanno fatto – e mai faranno – i magistrati di
Milano.
È stato ascoltato dai pubblici ministeri milanesi Serafino Di Luia?
Dalla lettura dell’ordinanza del giudice Fabrizio D’Arcangelo non si
evince.
Strano, perché il personaggio è, insieme a Pietro Valpreda, il solo
componente del gruppo romano del Fronte nazionale che si alterna fra la
Capitale e Milano, dove risiede per lunghi periodi.
Lo troviamo spesso, impegnato nell’opera di “infiltrazione” a sinistra
accanto ad Enzo Maria Dantini come nella costituzione, il 1° maggio 1969,
dell’Organizzazione lotta di popolo (Olp), per conto della quale opera anche a
Milano.
Se non è stato interrogato come testimone informato sui fatti è
un’omissione grave, perché Serafino Di Luia potrebbe spiegare per quali ragioni
fuggì dall’Italia, insieme al fratello Bruno, dopo gli attentati del 12
dicembre 1969 per rifugiarsi in Germania; perché chiese garanzie al ministero
degli Interni sul fatto che non ci fosse un mandato di cattura a carico suo e
del fratello prima di fare rientro nella penisola; e cosa, infine, raccontò al
funzionario della divisione Affari riservati in merito agli attentati a treni
dell’8-9 agosto 1969 e del 12 dicembre 1969 nel corso del colloquio da lui
stesso sollecitato, avvenuto al Brennero il 10 aprile 1970.
Aveva preannunciato ai funzionari della polizia di Bolzano che aveva
“rivelazioni interessanti” da fare su quegli attentati e, ne siamo certi, non
millantava credito.
È nei giorni successivi agli attentati ai treni, sia pure per vie
confidenziali e per ipotesi investigative, che la matrice romana dell’azione è
segnalata ai servizi di sicurezza e, perfino, sulla stampa.
Il 30 agosto 1969, il Centro di controspionaggio di Bologna invia al Sid un
appunto nel quale riporta quanto riferito dal confidente Francesco Donini,
secondo il quale “gli autori degli attentati dinamitardi sui treni farebbero
capo all’organizzazione studentesca di estrema destra Nuova Caravella, che
avrebbe sede a Roma e organizzerebbe corsi per sabotatori e dinamitardi diretto
da certo Stefano Delle Chiaie”.
Se al nome di quest’ultimo aggiungiamo quelli di Guido Paglia, Cesare Perri
e Adriano Tilgher, responsabili di Nuova Caravella, scopriremo che indagini a
Roma per quegli attentati non sono mai state fatte.
Alcuni giorni prima, il 21 agosto 1969, la rivista Panorama nell’articolo
intitolato “Cinquantamila lire di bombe per la notte del terrore”, scrive che
gli ordigni impiegati per gli attentati ai treni “sono uguali come
fabbricazione” e prosegue:
“Il vice capo della squadra politica della polizia di Milano ha detto che
sono molto simili come costruzione e come tecnica di scoppio a quella che venne
trovata il 25 luglio 1968 al palazzo di Giustizia di Milano e a un’altra messa
il 21 maggio di quest’anno su uno scaffale di un corridoio nel palazzo di
Giustizia di Roma”.
Ricordiamo, quindi, che secondo quanto affermato da Giovanni Ventura la bomba
collocata nel palazzo di Giustizia di Milano, il 24 luglio, era stata
consegnata, insieme ad altre, a lui e a Franco Freda da un “tipo” legato a
Stefano Delle Chiaie che “con le bombe in valigia era arrivato fresco fresco da
Roma”, il giorno precedente, 23 luglio.
Normale appare, di conseguenza, che simile sia la bomba rinvenuta il 21
maggio all’interno del palazzo di Giustizia di Roma.
Per la storia è, poi, doveroso sottolineare che dal 14 agosto 1969, Livio
Juculano, indica al magistrato padovano, Anna Maria Di Oreste, la
corresponsabilità negli attentati e nel possesso di armi e di esplosivi di
Franco Freda e di un “libraio di Treviso”, cioè Giovanni Ventura, mentre, il 20
agosto, in un rapporto sugli attentati ai treni, la Questura di Trieste cita il
nome di Manlio Portolan, reggente del locale gruppo di Ordine nuovo.
Come a dire che nel mese di agosto del 1969, gli apparati di sicurezza
dello Stato avevano tutti gli elementi per bloccare l’operazione che si
concluderà con la strage di piazza Fontana, se questa fosse stata concepita ed
attuata contro lo Stato.
Non l’hanno fatto perché, viceversa, era un’operazione dello Stato.
Nella ricostruzione degli attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969,
direttamente connessi agli attentati del 12 dicembre 1969, non ci sono, quindi,
solo i già giudicati Franco Freda e Giovanni Ventura, gli ingiudicabili, ad
avviso della magistratura milanese, Gianni Casalini e Ivano Toniolo ma altre
persone gravitanti soprattutto nell’ambiente del Fronte nazionale e della sua struttura
clandestina formata in gran parte da militanti di Avanguardia nazionale.
Non è vero che non ci sia possibilità di indagare sugli attentati ai treni
dell’8-9 agosto 1969 perché i reati sarebbero caduti in prescrizione, visto che
questi rientrano in un unico “disegno criminoso” nell’ambito del quale è stata
commessa la strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a Milano.
E il reato di strage non cade mai in prescrizione, almeno per il codice
penale. Magari decade nella coscienza di chi dovrebbe indagare e preferisce non
farlo.
Un altro personaggio romano di cui non abbiamo trovato traccia
nell’ordinanza del giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo, è Maurizio Giorgi.
La ragione per la quale sarebbe stato importante citarlo come persona
informata sui fatti risiede, per prima cosa, nel singolare accanimento con il
quale il gruppo padovano, in particolare Giovanni Ventura e Marco Pozzan, a
partire dal mese di febbraio del 1976 pretendono che il Sid disveli la sua
identità come accompagnatore del capitano Antonio Labruna a Barcellona
(Spagna), il 30 novembre 1972, per incontrare Stefano Delle Chiaie.
Il 17 luglio 1976, Giovanni Ventura si spinge fino al punto di denunciare
il Sid e il ministero degli Esteri per il segreto che ancora mantengono sul suo
nome.
Il servizio segreto militare, però, non cede nemmeno dinanzi alla richiesta
della Corte di assise di Catanzaro che, il 26 maggio 1977, chiede ufficialmente
di conoscere la sua identità, ottenendo ancora, il 24 giugno successivo, dal
direttore del Sid, ammiraglio Mario Casardi, una risposta negativa.
Poi, qualcosa accade, perché il 19 luglio 1977, il capitano Antonio
Labruna, nel corso della sua deposizione dinanzi alla Corte di assise di
Catanzaro, ne svela l’identità.
Ad ulteriore conferma delle fanfaronate del “Caccola” sulla battaglia da
lui condotta contro lo Stato antifascista, Maurizio Giorgi viene puntualmente
preavvertito dal Sid che il segreto sul suo nome non può più essere mantenuto
e, alla fine del mese di giugno del 1977, scappa in Cile.
Gli interrogativi suscitati dal comportamento di Maurizio Giorgi e dei suoi
colleghi dell’ormai disciolto Fronte nazionale non hanno mai trovato risposta
perché nessuno ha dimostrato di avere an interesse in merito.
Eppure, la logica ricattatoria della banda padovana non sfugge, anzi essa
si palesa come la minaccia implicita di una chiamata di correità per gli
attentati del 12 dicembre 1969, di cui sono chiamati a rispondere dinanzi alla
Corte di assise di Catanzaro i soli Franco Freda, Giovanni Ventura, Marco Pozzan
e Guido Giannettini.
L’obiettivo degli imputati padovani, difatti, non il solo Maurizio Giorgi
ma tutto il gruppo romano, come dimostra l’esplicita accusa lanciata da
Giovanni Ventura dalle pagine della rivista L’Espresso, il 12 settembre 1976.
Nell’occasione, Ventura si vanta di aver informato Guido Giannettini che
“un gruppo romano collegato a Freda e gravitante attorno ad Avanguardia
nazionale, di ocui facevano parte Delle Chiaie e Guido Paglia intendeva
organizzare attentati in luoghi chiusi”.
Ed é sempre lui ad affermare, esplicitamente, il rapporto operativo fra il
“Caccola” e “mago Zurli”, scrivendo il 18 dicembre 1976 a Marco Pozzan:
“Fosti tu a dichiarare il rapporto tra Freda e Delle Chiaie, che a me era
stato dato a Padova quando tu vi incontrasti Rauti”.
Non é un caso che Giovanni Ventura, nella sua dichiarazione al L’Espresso
parli di “un gruppo romano collegato a Freda e gravitante attorno ad
Avanguardia nazionale”, perché sa bene che il “gruppo” agisce nell’ambito e
nell’interesse del Fronte nazionale e non si identifica con la inesistente
Avanguardia nazionale.
Tornando a Maurizio Giorgi, bollato dal capitano Antonio Labruna in più
occasioni come fonte del Nucleo operativo diretto del Sid e, contestualmente,
della divisione Affari riservati, senza ottenere smentite e querele, é
allarmante che si sottragga all’interrogatorio dinanzi alla Corte di assise di
Catanzaro.
Non è indiziato di reato, non è citato come testimone in merito agli
attentati del 12 dicembre 1969, ma solo come accompagnatore del capitano
Antonio Labruna a Barcellona il 30 novembre 1972 e, in questa veste, come
persona a conoscenza del contenuto dei colloqui che si sono svolti fra
l’ufficiale del Sid e il “rivoluzionario” Delle Chiaie.
Ma allora perché scappa?
L’ipotesi più attendibile è che non tema le domande dei giudici della Corte
di assise di Catanzaro ma quelle che Giovanni Ventura, Franco Freda e Marco
Pozzan potranno fargli porre dai loro rispettivi avvocati.
Il tema del colloquio fra Labruna e Delle Chiaie, secondo la versione di
quest’ultimo, verteva sull’aiuto da dare agli imputati e, fosse solo questo, il
Giorgi avrebbe trovato difficoltà a spiegare perché il servizio segreto
militare si rivolgesse a un “rivoluzionario fascista” come Delle Chiaie per
ottenere la sua collaborazione per sottrarre Freda, Ventura e Pozzan al
processo per la strage di piazza Fontana.
Domande imbarazzanti che potevano velare collusioni e complicità fra i
“rivoluzionari” e gli apparati dello Stato ma anche la loro implicazione
diretta negli attentati del 12 dicembre 1969, perché il capitano Antonio
Labruna va a parlare con uno che i fatti li conosce e che ha dei doveri nei
confronti degli imputati che, poi, saranno disattesi.
Domande alle quale Maurizio Giorgi sa di non poter rispondere per cui ha
paura di entrare nell’aula della Corte di assise di Catanzaro in veste di
testimone e di uscirne in quella di indiziato di reato e futuro imputando.
Quindi, com’è nella tradizione degli “spiriti liberi” di evoliana memoria,
fugge il più lontano possibile, in Cile, dove lo attende Delle Chiaie.
Un personaggio siffatto non merita attenzione ed interesse da parti di
quanti si prodigano (almeno nelle intenzioni) a cercare la verità?
La risposta è nei fatti.
Guido Paglia è il fantasma ancora in vita, con grande disappunto della
procura della Repubblica di Milano, della struttura palese del Fronte
nazionale, quella per intenderci che costituisce l’organizzazione universitaria
Nuova Caravella.
Non è, però, estraneo all’attività della parte sommersa e clandestina che
lavora all’interno del Fronte nazionale.
Figlio di un ammiraglio (circostanza da lui negata per anni e poi ammessa
senza fare il nome del padre dinanzi al giudice veneziano Carlo Mastelloni) che
potrebbe identificarsi in Dario Paglia, citato nel rapporto del Sid del 20
giugno 1974 come compartecipe al “golpe” Borghese del 7-8 dicembre 1970, Guido
Paglia lo troviamo, nelle dichiarazioni di Alfredo Sestili, come colui che
consegna i soldi ai finti anarchici (Pietro Valpreda, Mario Merlino e soci) che
devono recarsi al congresso internazionale della Federazione anarchica italiana
il 30 agosto 1968.
Lo ritroviamo fra i fondatori di Nuova Caravella, gruppo indicato, per via
confidenziale, come coinvolto negli attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969.
Lo incontriamo ancora il 12 dicembre 1969, perché è proprio lui che Stefano
Delle Chiaie chiama in causa per sostenere il suo inesistente alibi per quel
tragico pomeriggio.
Mario Merlino offre per alibi un appuntamento, alle ore 17.00, con Stefano
Delle Chiaie nella sua abitazione di via Tuscolana; quest’ultimo invoca, a sua
volta, la testimonianza di Guido Paglia per le ore 17.00 del 12 dicembre 1969,
in piazza San Silvestro, dove lo avrebbe incontrato in compagnia di Gianfranco
Finaldi, uno dei protagonisti dell’Istituto “A. Pollio”.
È un’opera di mutuo soccorso sulla quale nessuno ha mai investigato a
sufficienza.
Una grave omissione, perché il 10 gennaio 1970 viene ritrovato a Roma il
portafoglio che Guido Paglia aveva smarrito qualche giorno prima.
Al suo interno, palese e gravissima, c’è la prova che il figlio
dell’ammiraglio non si occupava solo di comunicati stampa all’interno del
gruppo ma che era uno dei referenti di Mario Merlino, quando costui era
impegnato a fare “l’anarchico”.
All’interno del portafoglio, difatti, si trova un elenco di nominativi e
numeri telefonici del circolo anarchico Bakunin di via Baccina n. 35 e,
contestualmente, un secondo elenco di saponette esplosive, rotoli di miccia,
detonatori e capsule elettrice con, al fianco di ogni voce, indicata la
quantità di materiale presente.
Il 30 giugno 1973, Mario Merlino riconosce come sua la grafia degli elenchi
ritrovati nel portafoglio di Guido Paglia che, però, non sale sul banco degli
imputati insieme a Pietro Valpreda e allo stesso Merlino, anzi inizia un
luminosa carriera giornalistica sotto l’egida del servizio segreto militare,
secondo l’accusa rivoltagli dal capitano Antonio Labruna che lui non ci risulta
abbia mai querelato.
Mario Merlino era stato “fermato” la sera del 12 dicembre 1969, quindi gli
elenchi a Guido Paglia li aveva consegnati in data antecedente.
Merlino non frequentava il circolo Bakunin perché non se lo poteva
consentire né gli sarebbe stato permesso. Al suo pesto ci andava Pietro
Valpreda, fino a quando il titolare del circolo, Veraldo Rossi, lo ha buttato
fuori accusandolo di essere un confidente di polizia.
Benché preso “con le mani nel sacco”, cioè con le prove di una attività
spionistica ai danni degli anarchici romani, svolta con Mario Merlino, e con
quelle di un’attività di “bombarolo” che, con pignoleria, conserva l’elenco del
materiale che dovrà essere utilizzato per “destabilizzare” il Passe, Guido
Paglia non subisce alcun danno né viene sottoposto a fastidiosi e stringenti
interrogatori.
In un appunto del Sid, ritrovato fra le carte di Mino Pecorelli, si rivela
che l’11 novembre 1972, alle ore 15.30, Guido Paglia è stato avvicinato da
uomini del Sid che cercavano il contatto con Stefano Delle Chiaie allo scopo di
“disciplinare la politica attiva” di Avanguardia nazionale. Paglia indica in
Maurizio Giorgi la persona che mantiene i collegamenti con Stefano Delle
Chiaie, rifugiato in Spagna.
Anche su questo punto fondamentale per comprendere le ragioni reali
dell’incontro fra il capitano Antonio Labruna e Stefano Delle Chiaie a
Barcellona il 30 novembre 1972, non ci risulta che Guido Paglia sia mai stato
interrogato.
Non riteniamo, ragionevolmente, che Giovanni Ventura lo abbia voluto
calunniare citandolo, nell’intervista pubblicata il 12 settembre 1976, come la
persona che insieme al Delle Chiaie programmava attentati “in luoghi chiusi”.
Ci chiediamo, semplicemente, per quali recondite ragioni Guido Paglia la
cui figura è presente, con un ruolo di primo piano, nelle vicende del 1969 e in
quelle successive, non abbia mai attirato l’attenzione dei magistrati italiani.
Non necessariamente Guido Paglia sarebbe divenuto un imputato, né possiamo
prevedere che possa trasformarsi in imputando, ma la sua testimonianza non
reticente aiuterebbe a ricomporre il mosaico di quei fatti che rimangono
parzialmente oscuri nei loro dettagli, anche – e soprattutto – per il muro di
omertà che persone come lui sono riusciti negli anni ad erigere.
Tanti sono morti fra protagonisti, comprimari e comparse di quei tragici
avvenimenti, ma qualcuno di loro può ancora “parlare” per dirci quali sono
state le motivazioni reali per le quali è stato ucciso.
È il caso di Carmine Palladino.
Lo “spontaneismo” a destra è parto della fantasia giornalistica,
sollecitata dalla “veline” dei servizi segreti militari e civili, è però reale,
incontestabilmente vero, che a partire dal 1981, all’interno degli istituti di
pena dov’erano rinchiusi molti militanti di destra si è levata una rivolta
contro coloro che avevano fatto parte di Avanguardia nazionale e, in parte, di
Ordine nuovo.
A farne le spese saranno all’interno del carcere romano di Rebibbia
saranno, ad esempio, gli avanguardisti Giulio Crescenzi e Silvano Falabella,
mentre Adriano Tilgher sarà tenuto per ragioni di sicurezza al reparto “G.11” e
non al “G.9” dove venivano concentrati i detenuti di destra.
A Novara, nel cortile dell’aria, il 28 maggio 1982, toccherà a Franco Freda
al quale taglieranno la faccia, per tacciarlo da infame nel linguaggio della
malavita che era ormai l’unico che gli sbandati di destra conoscevano.
Il 9 agosto 1982, sempre a Novara, viene ucciso Carmine Palladino,
esponente di Avanguardia nazionale a Roma.
Ad ucciderlo, con altri, è stato Pierluigi Concutelli il quale ha
giustificato il gesto omicidiario in modo confuso, ponendo però l’accanto sullo
stragismo, accusa che non poteva essere rivolta alla persona di Carmine
Palladino ma all’organizzazione di cui faceva parte.
Avanguardia nazionale è stata chiamata in causa, direttamente, solo
nell’eccidio del 12 dicembre 1969, a Milano, non in quelli successivi, quindi
Carmine Palladino paga con la vita quello che è stato l’inizio e l’esempio di
un metodo ritenuto da tutti (compreso Pierluigi Concutelli) confacente al
raggiungimento degli scopi che si proponevano i vertici delle organizzazioni
coinvolte per favorire l’avvento di uno “Stato forte”.
Non sono prove valide sul piano processuale, certo. Ma i pestaggi di
Rebibbia, lo sfregio nel viso di Freda, l’omicidio di Palladino sono i sintomi
della delusione e della rabbia impotente dell’ultima generazione di militanti
di destra che, solo in carcere, si accorgono di essere stati usati per favorire
i disegni dello Stato e del regime, non per combatterlo.
Se mai smentita collettiva é venuta alla farneticazioni del Delle Chiaie e
dei suoi colleghi di aver combattuto una “guerra rivoluzionaria” contro lo
Stato antifascista, questa la troviamo all’interno degli istituti di pena,
nella rivolta dei “peones” che privi di senso politico e morale non riescono ad
esprimerla che con il linguaggio muto della malavita.
Qualcuno poteva parlare anche da vivo.
È il caso di Nico Azzi, il quale è stato interrogato e, perfino, arrestato
dal sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Grazia Pradella, il 3
luglio 1997, perché dopo aver rivelato che Franco Freda gli aveva parlato dei
rapporti di Ordine nuovo con i servizi segreti non aveva voluto fare i nomi.
Nico Azzi è stato condannato per la mancata strage sul treno Torino-Roma,
insieme a Francesco De Min, Mauro Marzorati e Giancarlo Rognoni, dalla Corte di
assise di appello di Genova a 15 anni e 6 mesi di reclusione.
Nel 1997, Giancarlo Rognoni entra nel novero degli imputati per la strage
di piazza Fontana avendo alle spalle una condanna, passata in giudicato, per
strage sia pure fallita.
Sul suo conto era ormai accertato il legame, non sporadico né saltuario,
con il comando della divisione carabinieri Pastrengo con sede a Milano; quello
con Carlo Maria Maggi e con Pino Rauti, oltre che con Franco Maria Servello,
esponente di punta del Movimento sociale italiano.
Le motivazioni della mancata strage del 7 aprile 1973 sono indicate con
estrema chiarezza dalla Corte di assise di Genova che, il 25 giugno 1974, a
Giancarlo Rognoni aveva ritenuto equo infliggere la pena di 23 anni di
reclusione:
“Ed è certo invero – scrivevano i giudici della Corte di assise – che
l’evento cui erano diretti nella specie gli atti compiuti dagli imputati si
inseriva perfettamente nella strategia della tensione, in quanto il suo
verificarsi (o anche il semplice pericolo di esso) avrebbe avuto gravissime
conseguenze sul piano della vita politica e sociale, forse incontrollabili e
imprevedibili. Del fatto non poteva derivare, oltre all’indignazione e alla
commozione per la gravità dell’accaduto, un notevole turbamento della coscienza
dei cittadini e la constatazione dell’insicurezza della vita di relazione, che
avrebbe potuto portare a sua volta le esasperazioni pericolosamente eversive
dalla visione istituzionale ad un progressivo inasprimento delle forme e dei
metodi della vita politica…
L’intento degli imputati era proprio quello di colpire, con la loro
condotta, la vita democratica nella sua più intima essenza e di intaccare
quindi indirettamente alla base la sicurezza delle istituzioni…”.
Nessun magistrato inquirente si era posto il problema di comprendere per
conto di chi i quattro avessero programmato un massacro da attribuire ai
militanti di Lotta continua.
Riconoscere che l’attentato stragista rientrava nell’ambito della
“strategia della tensione” e che, se fosse riuscito, “avrebbe avuto conseguenze
gravissime sul piano della vita politica e sociale, forse incontrollabili e
imprevedibili”, non avrebbe potuto essere disgiunto dalla ricerca degli
ideatori e degli organizzatori di un eccidio di italiani inermi ed innocenti i
cui effetti non avrebbero potuto essere sfruttati dai quattro manovali che lo
avevano tentato.
Negli anni in cui si svolge il processo (1973-1977) molte informazioni non
si conoscevano o erano note solo parzialmente e, pertanto, possiamo facilmente convenire
che era difficile per i magistrati inquirenti e giudicanti inserire al loro
posto i tasselli del mosaico.
Nel periodo successivo, però, la verità su quanto si stava preparando – e
si stava facendo – in quella primavera del 1973, è emersa.
Un riorganizzato Fronte nazionale, ai cui vertici era ora assiso il
consigliere provinciale del Msi di Genova, Giancarlo De Marchi, insieme agli
uomini riuniti sotto la sigla della Rosa dei venti, collegati al Centro di
resistenza democratica di Edgardo Sogno e con il Movimento di azione
rivoluzionaria di Carlo Fumagalli, coadiuvati da ufficiali dei carabinieri,
delle Forze armate e da funzionari di polizia stava reiterando il tentativo di
“golpe” istituzionale fallito il 13-14 dicembre 1969.
Con questa verità, anche processualmente accertata, negli anni Novanta la
ricostruzione degli eventi era possibile, anzi sarebbe stata doverosa se si
fosse cercata la verità sulla strage di piazza Fontana invece di concordare con
lo speculatore giudiziario Felice Casson il modo di bloccarla o, comunque, di
svuotarla di contenuto per circoscriverla nell’ambito del solito disegno
eversivo di marca “fascista”, portato avanti dalla sola “cellula nera”
padovana.
I pubblici ministeri di Milano avrebbero dovuto notare che l’operazione
dell’aprile 1973 reiterava alla lettera il piano predisposto nel mese di
dicembre del 1969.
All’epoca, difatti, la strage di Milano e quella mancata di Roma del 12
dicembre 1969 hanno preceduto la manifestazione nazionale indetta dal Movimento
sociale italiano a Roma per due giorni dopo, 14 dicembre, nel corso della quale
sarebbe esplosa la collera contro i “rossi”, responsabili del massacro di
Milano.
È offensivo per l’intelligenza degli italiani, non soltanto degli storici,
ritenere una mera coincidenza che negli stessi ambienti impegnati ancora a
creare le condizioni per la “proclamazione delle stato di emergenza”, siano
stato programmate per la seconda volta, a distanza di meno di quattro anni, un
eccidio ed una manifestazione nazionale del Msi, questa volta a Milano: il 7
aprile 1973 la strage, il 12 aprile successivo la manifestazione.
Le differenze fra i due eventi, quello del dicembre 1969 e dell’aprile
1973, non risiedono nella programmazione del piano bensì nella sua esecuzione.
L’eccidio programmato per il 7 aprile fallisce per colpa dell’esecutore
materiale, Nico Azzi; la manifestazione nazionale del Msi, a Milano, degenera
come programmato in incidenti nel corso dei quali altri due manovali missini,
Maurizio Murelli e Vittorio Loi, lanciano le bombe a mano contro un cordone di
polizia provocando la morte dell’agente di Ps Antonio Marino.
Ma, nei tragici fatti dell’aprile del 1973 è provata la relazione fra i due
eventi, strage mancata e manifestazione nazionale del Msi; e lo è proprio sul
piano processuale senza essere frutto di ipotesi o di “fantasiose illazioni”
tanto care al giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo ed ai suoi colleghi della
procura della Repubblica di Milano.
Il 26 aprile 1973, Nico Azzi, l’esecutore materiale dell’attentato stragista
sul treno “Torino-Roma” del 7 aprile, confessa ai magistrati di essere stato
uno dei fornitori delle bombe a mano usate negli incidenti di Milano del 12
aprile 1973.
Siamo dinanzi a quello che giuridicamente si definisce un “unico disegno
criminoso”, che vede la programmazione anticipata dia della strage che degli
incidenti ad opera di persone che poi prenderanno parte sia alla prima che ai
secondi.
Questa connessione fra gli organizzatori e gli esecutori materiali della
mancata strage sul treno e quelli della manifestazione nazionale del Movimento
sociale italiano non è mai stata valorizzata sul piano processuale e storico.
Eppure, il rapporto fra Giancarlo Rognoni e Franco Maria Servello è
presente negli atti giudiziari, anche se ovviamente non costituisce, in
mancanza di riscontri che nessun magistrato ha mai cercato, la prova di un
accordo fra i due per conto di quelle forze che entrambi rappresentavano.
Non ha valore probatorio né indiziario, per essere un appunto redatto da
fonte confidenziale anonima, quanto segnalato al ministero degli Interni il 24
giugno 1978 sul conto del senatore missino Giorgio Pisanò.
Nell’appunto si scrive che Franco Maria Servello sarebbe “vittima notoria”
del Pisanò, avendo “dato quasi fondo alle sue finanze personali” alle scopo di
“uscire senza danno dai processi ‘Marino’ e treno Genova-Milano.”
Non ha valore processuale nemmeno la presenza ai funerali di Nico Azzi,
stragista mancato e delatore parziale dei suoi colleghi, di Ignazio La Russa,
all’epoca braccio destro di Franco Maria Servello.
È un dettaglio meritevole di attenzione e di riflessione anche perché, il
La Russa quando si presenta a rendere omaggio alla salma di Nico Azzi ha da
tempo affermato il suo nuovo credo antifascista. Ragione questa che rende
ancora meno comprensibile la sua presenza ai funerali di Nico Azzi.
Qualsiasi elemento indiziario, perfino probatorio, valutato a sé stante,
isolato dal suo contesto, non è utile sul piano processuale e storico ma se gli
indizi si sommano e si inseriscono nel loro giusto ambito, è possibile compiere
altri e, forse, decisivi accertamenti per giungere alla verità.
Ci sono testimonianze mai smentite che collegano gli attentati del 12
dicembre 1969 alla manifestazione nazionale indetta dal Movimento sociale
italiano di Giorgio Almirante a Roma, il 14 dicembre 1969.
Non sono mai state valorizzate neanche quando dagli archivi dei servizi
segreti britannici è emersa la certezza che il governo di Mariano Rumor e Junio
Valerio Borghese avevano predisposto la proclamazione dello “stato di
emergenza” per la data del 13-14 dicembre 1969.
Ci sono le prove, fornite addirittura dalla confessione di Nico Azzi, che
la mancata strage del 7 aprile 1973 era stata programmata insieme agli
incidenti di Milano del 12 aprile resi possibili dalla manifestazione nazionale
indetta da Franco Maria Servello.
Neanche quando Giancarlo Rognoni è stato imputato di concorso nella strage
di piazza Fontana, la procura della Repubblica di Milano ha inteso rivisitare
gli atti processuali della fallita strage del 7 aprile 1973 di cui proprio lui
era stato l’organizzatore.
Hanno, questi magistrati, le prove certe, processualmente accertate dai
loro colleghi di Brescia, che nella primavera del 1973 era in corso un
tentativo di “golpe” istituzionale, esattamente come nel mese di dicembre del
1969.
Hanno le prove certe, per essere stati obbligati ad accusarli in pubblici
dibattimenti, che i personaggi implicati nelle vicende della primavera del 1973
sono gli stessi che hanno agito nel mese di dicembre del 1969.
Conoscono con certezza i loro rapporti personali, politici ed
organizzativi, ma non hanno voluto, oggi come sempre, trarne le debite
conclusioni.
Come nel mese di dicembre del 1969, anche nell’aprile del 1973 il piano
prevedeva tre fasi: la strage (fortunatamente in questo caso fallita), la
degenerazione preordinata della manifestazione nazionale del Msi a Milano, lo
sfruttamento politico-istituzionale dei morti e della violenza degli “opposti
estremismi”.
Se la programmazione di questo piano può essere fatta risalire agli uomini
del secondo livello, le “cinghie di trasmissione”, la sua esecuzione va
ascritta a quelli del terzo livello, i cosiddetti “manovali”, lo sfruttamento
politico-istituzionale dei fatti è prerogativa dei soli detentori del potere.
La stessa sera del 12 dicembre 1969, fu il presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat, nel corso di una riunione dei vertici politici, militari e di
sicurezza, a chiedere la immediata proclamazione dello “stato di pericolo
pubblico”.
Chi avrebbe dovuto proclamare lo “stato di emergenza” nel mese di aprile
del 1973? A norma di legge sarebbe stato il presidente del Consiglio che, non
per mera coincidenza rispondeva al nome di Giulio Andreotti, il referente dei
“golpisti” del 7-8 dicembre 1970 del “Fronte nazionale”.
Non si può sostenere ragionevolmente, neanche trasformando i manovali in
capi, che lo sfruttamento politico-istituzionale della violenza generata dagli
“opposti estremismi” fosse prerogativa del “Caccola” e di “mago Zurlì” nel mese
di dicembre del 1969; e di Giancarlo Rognoni, Nico Azzi, Francesco De Min,
Mauro Marzorati nella primavera del 1973.
Da qui discende la necessità per i magistrati italiani di dismettere la
toga per indossare l’uniforme dei corazzieri ed erigere un muro a difesa del
potere politico che, a torto, ritengono invalicabile.
Non è un’impresa difficile: basta negare l’esistenza di un unico movente
per sostituirlo con altri riconducibili alla volontà di questo o di quel
gruppuscolo di “eversori neri”, a Padova, a Milano, a Venezia, a Roma.
La Procura della Repubblica di Milano la cui sensibilità politica è
dimostrata dal seggio senatoriale dato dall’ex Partito comunista a Gerardo
D’Ambrosio e, contestualmente, al suo collega Felice Casson, ha sempre negato
l’esistenza di una “pista internazionale” per gli eventi del 12 dicembre 1969,
bollandola come un “depistaggio” senza peraltro riuscire mai a confutarlo, ma
nega anche l’esistenza di una “pista nazionale”.
Per questa ragione l’estrema destra romana è stata sempre accuratamente
esclusa dalle indagini sulla strage di piazza Fontana, e il centro ideativo ed
organizzativo è stato spostato a forza a Padova (sede della “cellula nera”
tanta cara a D’Ambrosio) e, poi, a seguito delle nuove indagini degli anni
Novanta, a Venezia.
Il solo esponente dell’estrema destra romana entrato nel processo per la
strage di piazza Fontana, con la sola accusa di “falsa testimonianza”, è stato
Stefano Delle Chiaie.
Il “Caccola” cotanto onore lo ha avuto solo perché chiamato in causa a
sostegno del suo inesistente alibi dall’ “anarchico” Mario Merlino, altrimenti
non sarebbe mai stato sfiorato dalle indagini esattamente come tutti i suoi
colleghi Guido Paglia, Maurizio Giorgi, Serafino Di Luia, Adriano Tilgher ecc.
ecc.
Eppure, la presenza del gruppo romano è processualmente accertata, in forma
diretta od indiretta, in ben 12 dei 26 attentati compiuti a partire dal 28
febbraio 1969.
E, nella Capitale, non ci sono solo gli attentati e i feriti del 12
dicembre 1969, ma anche i morti.
Armando Calzolari, reduce della Repubblica sociale italiana, scompare il 25
dicembre 1969.
Indicato come dirigente del Fronte nazionale dal quotidiano Il Tempo, il 2
gennaio 1970, subito smentito dallo stesso Junio Valerio Borghese, Armando
Calzolari viene ritrovato ucciso, insieme al suo cane, annegati insieme in un
pozzo semi-asciutto, il 28 gennaio 1970.
La madre di Calzolari accuserà del delitto Luciano Gruber e i fratelli
Bruno e Serafino Di Luia.
Il 19 febbraio 1976, il sostituto procuratore della Repubblica di Roma,
Enrico Di Nicola, chiede che si archivi il procedimento penale sulla sua morte
con la dichiarazione di “non doversi procedere perché ignoti sono i
responsabili dell’omicidio volontario premeditato”.
La richiesta é accolta, il 21 aprile 1976, dal giudice istruttore Eraldo
Capri che, nella sua ordinanza, scrive che Armando Calzolari é stato “attirato
in una trappola ed ucciso da elementi del movimento nel quale militava”.
Un’indagine giudiziaria c’é stata, quindi, che ha collegato un omicidio
all’attività del Fronte nazionale a Roma, a due settimane dal massacro di
piazza Fontana a Milano e quello mancato alla Banca nazionale del lavoro nella
stessa Capitale.
Un’indagine nella quale, sia pure senza riscontri, sono stati fatti dalla
madre dell’ucciso i nomi dei fratelli Bruno e Serafino Di Luia, gli stessi
scappati in Germania e in possesso di “rivelazioni interessanti” sugli
attentati ai treni dell’8-9 agosto 1969 e del 12 dicembre 1969, fornite però al
solo vicequestore della divisione Affari riservati del ministero degli Interni
Silvano Russomanno.
Non si può affermare che l’omicidio di Armando Calzolari sia collegato
all’eccidio del 12 dicembre 1969, che pure a Roma come a Milano ha sconvolto
più di qualche coscienza, ma tantomeno lo si può escludere a priori e con certezza.
Si può solo constatare che in entrambi i fatti, strage di piazza Fontana e
omicidio di Armando Calzolari, compaiono i nomi di due elementi della struttura
clandestina del Fronte nazionale, sul conto dei quali nessuno ha mai inteso
svolgere indagini.
Arrestato per espiare una condanna definitiva di pochi mesi, l’8 aprile
1978, all’interno di una cella di isolamento del carcere romano di Rebibbia
moriva, impiccato, Riccardo Minetti.
Afflitto da una grave forma di schizofrenia, Riccardo Minetti era stato
usato per confermare la presenza di Mario Merlino a casa di Stefano Delle
Chiaie nel pomeriggio del 12 dicembre 1969.
Alibi falso e testimonianza indotta come ben sapevano i dirigenti
dell’ufficio politico della Questura di Roma i cui agenti avevano sorvegliato a
vista l’abitazione di Stefano Delle Chiaie per l’intera giornata del 12
dicembre 1969 senza vedere Mario Merlino recarvisi.
Falsità confermata dall’intercettazione di una telefonata, il 2 febbraio
1970, fra le sorelle di Riccardo Minetti, Maria Grazia e Patrizia che
commentano negativamente il coinvolgimento del ragazzo nella vicenda di piazza
Fontana.
Riccardo Minetti è schizofrenico, quindi non è affidabile. Confermerà
sempre la sua falsa testimonianza, ritratterà?
La morte per impiccagione in una cella di Rebibbia, sulla quale la
magistratura ha ipotizzato l’omicidio a carico di ignoti, ha risolto il
dilemma.
Se nel caso dell’omicidio di Armando Calzolari il collegamento con i
tragici fatti del 12 dicembre 1969 rimane, allo stato, solo ipotetico, nel caso
del “suicidio” di Riccardo Minetti, testimone nel processo di piazza Fontana a
sostegno del falso alibi di Mario Merlino, la connessione è esplicita e
diretta.
Nell’operazione che inizia il 28 febbraio 1969, a Roma, non ci sono solo i
morti all’interno della Banca dell’Agricoltura di Milano del 12 dicembre 1969,
ma su questi episodi nessuno ha mai svolto indagini approfondite. Un omicidio a
carico di ignoti, una caduta accidentale dalla finestra di un ospedale, un
suicidio sospetto, non hanno destato alcun interesse giudiziario ma solo, a
volte, giornalistico.
La magistratura, per quanto riguarda Roma, si è fermata ai componenti del
circolo 22 marzo, abbagliata dalla presenza in esso dell’ “anarchico” Pietro
Valpreda, in un primo tempo per provarne la colpevolezza, successivamente per
affermarne l’innocenza.
Non è mai stata presa in considerazione l’ipotesi che Pietro Valpreda, a
Milano, quel pomeriggio del 12 dicembre potesse aver svolto incarichi diversi
da quello di portare personalmente l’ordigno all’interno della Banca
dell’Agricoltura.
Ancora oggi si pretende di affermare la sua estraneità all’operazione
stragista del 12 dicembre 1969 solo perché appare certo che non è stato lui
l’esecutore materiale della strage, come inizialmente si era ritenuto che
fosse.
Si sono trascurate altre ipotesi e, soprattutto, non si è tenuto conto del
legame che univa il “fascista” Mario Merlino all’ “anarchico” Pietro Valpreda,
sempre ribadito nel corso degli anni fino a poco tempo prima della morte di
quest’ultimo.
Ancora oggi si pretende di affermare che Mario Merlino abbia ingannato il
“povero” Valpreda per attribuire la paternità della strage agli anarchici.
Si dimentica, però, che il presunto “fascista” ed il presunto “anarchico”,
nei loro interrogatori hanno mantenuto all’unisono una comune linea di accusa
contro gli anarchici.
Insieme accusano Ivo Della Savia di detenzione di esplosivi, e Pietro
Valpreda offre alla polizia addirittura la soluzione del caso: il 9 gennaio
1970, difatti, indica in tale “Gino”, facilmente individuabile, il suo sosia
che avrebbe portato la bomba all’interno della Banca dell’Agricoltura di
Milano.
Tale “Gino”, il sosia, è un anarchico: Tommaso Gino Liverani, così che
l’accusa di Pietro Valpreda coincide con il convincimento della Questura e
della divisione Affari riservati che la strage del 12 dicembre 1969 è di
matrice anarchica.
Un innocente si difende offrendo un alibi. Un anarchico non accusa gli
anarchici di detenzione di esplosivi e della strage di piazza Fontana come,
invece, ha fatto Pietro Valpreda.
Quanti oggi si affannano a commemorare l’ “anarchico” Pietro Valpreda si
dimenticano che al posto di una figura leggendaria hanno un barista, umilmente
dedito a servire aperitivi ai clienti.
Perché, conclusa con la sola condanna per “associazione per delinquere” la
sua vicenda giudiziaria, Pietro Valpreda ha smesso di “lottare” per l’anarchia
e si è messo a fare il barista.
Se gli anarchici italiani, dopo averlo cacciato dal circolo de Il Ponte
della Ghisolfa di Milano e dal circolo Bakunin di Roma, come confidente di
polizia, dopo aver ufficialmente affermato di non averlo mai conosciuto come
anarchico, lo hanno rivalutato, hanno il mito che meritano.
Per la storia, la pretesa accusatoria di Pietro Valpreda che a compiere la
strage di piazza Fontana era stato un anarchico che gli somigliava come una
goccia d’acqua è stata smentita dai fatti.
E dai fatti verrà ufficialmente smentita anche la sua pretesa di essere
stato un anarchico.
Per la magistratura milanese la figura di Pietro Valpreda non si tocca. È
un tema proibito.
Ma non è il solo.
Perché, come sappiamo, intoccabili sono anche altre figure come quella di
Junio Valerio Borghese.
La leggenda del “principe nero” ha fatto il suo tempo.
Junio Valerio Borghese è stato un uomo di potere, collegato ai vertici
militari e politici, nazionali ed internazionali, favorito dall’amicizia di uno
degli uomini più influenti e potenti della Central intelligence agency, James
Jesus Angleton.
Il suo nome non è stato mai accostato ai fatti del 12 dicembre 1969, ma non
sorprende se si considera che il “golpe” da lui organizzato il 7-8 dicembre
1970 è stato, alla fine, dichiarato inesistente dalla magistratura italiana.
Junio Valerio Borghese rimane fuori dalle vicende del 1969, perché estraneo
ne deve rimanere ad ogni costo il Fronte nazionale da lui presieduto, unico
modo per non indagare sul retro-terra politico ed organizzativo che stava alla
spalle di Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Pietro Valpreda, Franco Freda,
Giovanni Ventura, Carlo Digilio per limitarci ai “manovali”.
In questo caso, lo trascorrere del tempo gioca a sfavore della verità
perché, oggi, non è più possibile presentare Junio Valerio Borghese come il
tenebroso “principe nero” che cercava la rivincita sulla democrazia e si proponeva
di porsi alla guida di una Nazione ridivenuta fascista.
Ormai sono emersi troppi documenti che testimoniano come Junio Valerio
Borghese fosse contiguo al potere, ufficiale e segreto, e rappresentasse quella
“cinghia di trasmissione” perfetta fra i detentori del potere e la massa
attivistica dell’estrema destra, collocandosi quindi al secondo livello della
struttura gerarchica che abbiamo delineato.
Escludiamo, quindi, che qualche magistrato italiano voglia indagare sugli
uomini del “secondo livello”, da Junio Valerio Borghese a Pino Rauti a Giorgio
Almirante e Pino Romualdi, perché a questi la taccia di “eversori neri” non la
potrà mai dare.
Dalle figure e dall’operato di questi personaggi, viceversa, si potrebbe
risalire agli uomini del primo livello, quelli che per la sventura del nostro
popolo hanno scritto la storia italiana dal 1945 in poi.
Un rischio che la magistratura italiana non vorrà mai correre.
Inoltre, i quarantaquattro anni passati dalla strage di piazza Fontana
hanno dato un’altra certezza, quella che nessuno degli indagati, processati,
assolti con formule varie, riconosciuti colpevoli, è mai stato un oppositore
politico dello Stato e del regime.
Possiamo dire che erano contigui al potere gli uomini del secondo livello,
le “cinghie di trasmissione”, e subalterni al potere quelli del “terzo
livello”, i manovali.
Stefano Delle Chiaie si affanna a dichiararsi l’uomo più calunniato
d’Italia, senza però spiegare per quali oscure ragioni tutti debbano calunniare
proprio lui.
Tralasciamo, per ragioni di spazio, l’elenco nutritissimo di quanti hanno
affermato che il capo di Avanguardia nazionale era alle dipendenze della
divisione Affari riservati del ministero degli Interni, per limitarci alle
testimonianze più significative.
Il 9 gennaio 1975, sulla rivista Candido è il senatore del Msi Giorgio
Pisanò a scrivere:
“Resta dove sei e stai zitto. Perché se torni dovrai raccontare tante cose:
certi traffici d’armi, per esempio, con relativa scomparsa dei fondi che ti
erano stati affidati, o i tuoi intrallazzi con Mario Merlino. Oppure, i tuoi
rapporti con l’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno”.
Per tante ragioni, compresi i suoi rapporti con il servizio segreto
militare e l’Arma dei carabinieri, Pisanò era un uomo ben informato. Non risulta
che abbia mai smentito e ritrattato le accuse qui riportate contro il “Caccola”
le cui proteste solo verbali sono state ignorate.
Il capitano Antonio Labruna, il più stretto collaboratore del generale
Gianadelio Maletti al reparto “D” del Sid e responsabile del Nucleo operativo
diretto (Nod), interlocutore di Delle Chiaie a Barcellona (Spagna) il 30
novembre 1972, il 9 ottobre 1992 dichiara al giudice istruttore di Milano Guido
Salvini:
“Ritornando alla posizione di Delle Chiaie ripeto ciò che ho detto più
volte, cioè affermo formalmente che era un agente dell’ufficio affari
riservati. Non sono il solo a dirlo. Lo afferma anche il Paglia nella sua
relazione, il Giannettini in un sua relazione, l’Orlandini nelle registrazioni
che ho consegnato al giudice istruttore di Milano. Lo diceva anche il Nicoli,
probabilmente anche nelle registrazioni”.
Non risulta che Stefano Delle Chiaie lo abbia mai querelato.
Cinque anni più tardi, il 15 ed il 28 maggio 1997, l’ispettore generale di
Ps, Guglielmo Carlucci, lo indica come “fonte” della divisione Affari riservati
al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni.
Carlucci, già componente del servizio segreto civile, specifica di avere
assistito personalmente ai colloqui svoltisi fra Umberto Federico D’Amato e Stefano
Delle Chiaie al Viminale, specificando che i rapporti fra i due erano già in
corso nel 1966, quando lui entrò in servizio nella divisione Affari riservati,
che è poi l’anno – ricordiamolo – dell’affissione dei “manifesti cinesi” che
segnarono l’avvio dell’azione di “infiltrazione a sinistra” dei militanti di
destra.
Tre testimonianze. La prima di una figura storica della destra italiana, la
seconda di un ufficiale del servizio segreto militare che ne richiama altre
significative, la terza di un funzionario del servizio segreto civile, fondata
su un’esperienza diretta e personale non su affermazioni raccolte da terze
persone.
Anche sull’amico e collega di Stefano Della Chiaie, Mario Merlino, le ombre
e i sospetti non mancano.
Il maresciallo di Ps, Giuseppe Mango, il 22 aprile 1997, dichiara al
giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni:
“Nell’ufficio Affari riservati era noto che Merlino era o era stato fonte
dell’Ufficio politico di Roma. Tanto ho appreso da D’Amato e altri nel periodo
successive all’attentato (di piazza Fontana, Nda) e nel corso del processo la
circostanza non é mai emersa”.
Il maresciallo Giuseppe Mango, considerato la “memoria storica” della
divisione Affari riservati, preferirà in un secondo interrogatorio ritrattare
di fatto l’accusa ma è lecito ritenere che possa averlo fatto dopo aver subito
pressioni in merito.
In ogni caso, é giusto prendere atto sia dell’accusa che della
ritrattazione, tanto più che a carico di Merlino c’é una seconda dichiarazione
accusatoria, questa volta resa dal questore Alessandro Milioni, l’11 novembre
1997, ancora al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni.
Anche Milioni afferma di aver appreso dai suoi colleghi della divisione
Affari riservati che Mario Merlino era stato inserito fra gli anarchici dal
commissario di Ps Umberto Improta, con il consenso del capo dell’ufficio
politico Bonaventura Provenza, “per esperire attentati attribuibili agli
anarchici e alla sinistra”, ma di non poter dire se costui era gestito dalla
divisione Affari riservati o da “altre strutture dello Stato”.
Anche questa seconda dichiarazione non ha trovato, per quanto dato di
sapere, conferma da parte di altri appartenenti al servizio segreto civile o
all’ufficio politico della Questura di Roma.
Non si comprende, però, quale sia l’interesse del maresciallo di Ps
Giuseppe Mango e del questore Alessandro Milioni ad accusare Mario Merlino di
essere stato al servizio dell’ufficio politico della Questura di Roma non solo
come “fonte” ma, addirittura, come “infiltrato” fra gli anarchici.
Il comportamento mantenuto dagli uomini della Questura di Roma e quello
“collaborativo” di Mario Merlino (e Pietro Valpreda con lui) non ci autorizzano
ad escludere la veridicità delle dichiarazioni di Mango e Milioni, perché atti
di fede nei confronti degli “infiltrati” non se ne possono fare.
Ci limitiamo a prendere atto che queste accuse non hanno trovato conferma.
Sul conto di Maurizio Giorgi, ci limitiamo a riportare una dichiarazione
resa dal capitano Antonio Labruna a Tina Anselmi, presidente della Commissione
parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, il 13 ottobre 1982:
“Io e i miei uomini eravamo penetrati in Avanguardia nazionale. Sapevamo
che erano protetti dal ministero. Poi Maletti ci ordinò di uscire. Collaborai
con Maurizio Giorgi (Avanguardia nazionale) e andammo in Spagna per incontrare
Delle Chiaie. Nel 1972 Giorgi divenne collaboratore del Nod. Sospetto che
Giorgi collaborasse con gli Affari riservati degli Interni”.
Affermazioni che si commentano da sole, perché delineano il ritratto di un
movimento (Avanguardia nazionale) posto sotto la protezione del ministero degli
Interni, e di un suo militante che è, contestualmente, informatore del Nucleo
operativo diretto del Sid e, forse, della divisione Affari riservati.
Sui fratelli Serafino e Bruno Di Luia è sufficiente ricordare che non si
cerca – e non si ottiene – un incontro al Brennero con un alto funzionario del
servizio segreto civile (Silvano Russomanno) se non c’è stata una pregressa
dimestichezza con gli organi di polizia e i suoi funzionari.
Fermo restando il fatto che le loro preoccupazioni e le “rivelazioni
interessanti” sugli attentati ai treni e su quelli del 12 dicembre 1969 le
hanno riservate ad un uomo della divisione Affari riservati del ministero degli
Interni, tacendole a tutti gli altri.
Sul conto di Franco Freda e Giovanni Ventura non ci soffermiamo perché
riposa negli atti processuali la loro collaborazione consapevole con il
servizio segreto militare tramite Guido Giannettini, così come la protezione
offertagli dall’ufficio politico della Questura di Padova e dalla divisione
Affari riservati prima e dopo la strage di piazza Fontana.
I due militanti di destra sono stati riconosciuti, tardivamente, colpevoli
di concorso nel massacro del 12 dicembre 1969 a Milano, ma c’è una terza
persona che come rileva il giudice istruttore di Milano, Fabrizio D’Arcangelo,
è stata condannata per concorso nello stesso eccidio con sentenza n. 15/2061
del 30 giugno 2001, emessa dalla Corte di assise di Milano, contro la quale
l’interessato non ha fatto ricorso “ed è quindi divenuta definitiva, sicché si
può dire – conclude D’Arcangelo – che la sua responsabilità è stata accertata”:
Carlo Digilio.
Chi era Carlo Digilio? Un “nazista” di Ordine nuovo? Un fascista che odiava
la democrazia? No. Era quello che si è cosi descritto al giudice istruttore di
Milano, Guido Salvini, il 6 aprile l994:
“Svolsi attività di informazione facendo riferimento al comando Ftsae di
Verona a partire dal 1967 e fino al 1978. La struttura informativa all’interno
di questo comando era una struttura informativa della Cia interessata
ovviamente ad avere il maggiore numero di dati sulla situazione italiana e a
effettuare una sorta di controllo sull’area del Triveneto che era una di quelle
di maggiore interesse”.
In questo modo è una verità giudiziaria definitiva che in questo caso
corrisponde alla verità storica, che la sola persona condannata da una Corte di
assise per concorso nella strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 era un
informatore della Central intelligence agency.
Aggiungiamo che è verità giudiziaria e storica anche quella che vede in
Franco Freda e Giovanni Ventura, anch’essi correi nella strage, due informatori
del servizio segreto militare italiano e, così, comprendiamo perché la procura
della Repubblica di Milano non ha mai avuto interesse ad andare al di là di un
verità parzialissima, circoscritta alla responsabilità della “cellula nera”
padovana che avrebbe agito per odio ideologico contro lo Stato democratico ed
antifascista.
La chiusura della “non inchiesta” o meglio dell’inchiesta condotta dagli
altri, della procura della Repubblica di Milano decretata dal giudice
istruttore Fabrizio D’Arcangelo, ha deluso le aspettative di quanti hanno
comunque creduto nella magistratura e nei magistrati.
Fortunato Zinni in una dichiarazione afferma:
“Lo Stato non ha saputo, potuto, voluto, fare giustizia in casi di estrema
gravità come quelli delle stragi. Stragi, appunto, di Stato. Oggi la
pubblicazione delle motivazioni che accolgono la richiesta della Procura di
Milano conferma e certifica il fallimento della giustizia”.
Noi abbiamo sempre sostenuto che lo Stato non ha mai avuto la volontà di
fare giustizia perché, in questo caso, dovrebbe decretare la condanna della
classe dirigente politica tutta, senza eccezioni, ed il proprio
auto-dissolvimento.
Le stragi, come scrive Fortunato Zinni, sono di Stato, di conseguenza è
inutile attendersi che la magistratura dello Stato faccia luce su di esse.
L’ordinanza del giudice istruttore Fabrizio D’Arcangelo non rappresenta il
“fallimento della giustizia”, bensì è un atto di coerenza con il rifiuto più
che quarantennale di accertare la verità e con l’obiettivo, su evidente benché
implicita volontà politica, di chiudere una volta per sempre il capitolo che
riguarda la guerra civile italiana degli anni Settanta.
Più passano gli anni, più emergono documenti, più sbiadiscono le tele che
raffigurano gli “eversori” sempre meno “neri” e sempre più “bianchi” come il
colore della Democrazia cristiana, oggi in via di resurrezione.
Non crediamo che sia stata iniziativa personale del capo del Dipartimento
per l’amministrazione penitenziaria la decisione di bloccare per sempre i miei
incontri con persone interessate alla ricerca storica ed all’affermazione della
verità.
Non lo crediamo perché la motivazione del rifiuto, opposto il 10 agosto
2010, al rappresentante di una casa editrice che aveva pubblicato un
libro-intervista al generale Gianadelio Maletti sulla strage di piazza Fontana,
recita testualmente che essa “verterebbe su temi interferenti su procedure
giudiziarie”.
All’epoca le “procedure giudiziarie” in corso erano quelle sulla strage di
Brescia del 28 maggio 1974 e quella sulla strage di piazza Fontana a Milano.
Non crediamo che la procura della Repubblica di Brescia avesse interesse a
bloccare una mia intervista (e tutti gli incontri successivi) sulla strage di
piazza Fontana.
Rimane la constatazione che lo Stato, nelle sue articolazioni giudiziaria e
penitenziaria, si preoccupa perfino di impedire a chi scrive di esprimere i
suoi convincimenti sulla “guerra a bassa intensità” maturati nel corso della
sua attività politica e, in seguito, sulle ricerche storiche condotte in oltre
trentennio di precaria ed osteggiata vita carceraria.
È un dettaglio, certo, che illumina i metodi e le finalità di uno Stato che
dall’emergere della verità ha tutto da temere.
Non coinvolgiamo in un generalizzato giudizio di condanna gli elettori, gli
iscritti, i militanti ed i dirigenti periferici del Partito democratico, ma è
doveroso sottolineare che i dirigenti nazionali di questo partito hanno portato
in Senato due dei magistrati che si sono opposti all’inchiesta condotta dal
giudice istruttore Guido Salvini: Gerardo D’Ambrosio e Felice Casson.
Da parte di una forza politica che non ha mai lesinato telegrammi,
interviste, comunicati stampa per dire che si batterà sempre a favore della
verità, è stato un segnale inequivocabile di chi pretende esattamente il
contrario: chiudere il capitolo senza alcuna verità, o meglio, con la verità di
comodo, quella ufficiale che afferma come in Italia abbia agito contro lo Stato
e la democrazia il “terrorismo nero” di marca fascista.
Non spendiamo parole per il centro-destra che in Senato ci ha portato anche
Cristano De Eccher, solo per fare un nome.
Credere che la magistratura possa e voglia agire a prescindere dalla
politica e, addirittura, contro la politica è un’illusione che non deve più
essere alimentata.
Chi ancora volesse crederci, si guardi l’immagine del senatore Felice
Casson, che si era spinto fino ad indiziare di reato il giudice istruttore
Guido Salvini colpevole di indagare sul conto degli ordinovisti, per vedere
quella di una magistratura politicizzata che ha sola ambizione di difendere gli
interessi della casta nella quale, poi, puntualmente finisce per confluire.
La verità sulla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 sulla quale
ci sono ormai tutti gli elementi per affermare sul piano storico, preso atto
dell’impossibilità di farlo su quello giudiziario, sarà sempre negata dallo
Stato e dal regime perché, in caso contrario, avrebbe un effetto domino sugli
avvenimenti successivi, mettendo in luce la responsabilità dei vertici
politici, militari e di sicurezza insieme a quella dei loro alleati
internazionali.
La strage della Banca dell’Agricoltura di Milano ha aperto il capitolo di
una sanguinosa stagione, scritto dal potere politico e dai suoi terroristi.
Si illude però questo potere, se pensa di poterci scrivere la parola “fine”
con la definitiva proclamazione della sua verità di comodo.
Una “pietra tombale” cade ora sulla pretesa della magistratura italiana di
cercare la verità, non su quest’ultima.
Noi, andiamo avanti.
Vincenzo Vinciguerra