lunedì 2 febbraio 2015

ISDS, l’insopportabile leggerezza degli acronimi







ISDS è l’acronimo di Investment-State Dispute Settlement,  uno strumento di diritto pubblico internazionale per risolvere le vertenze che possono sorgere fra uno stato e i suoi investitori stranieri.
Il primo accordo del genere risale al 1959, e fu stipulato fra Germania e Pakistan. Inizialmente concepito per proteggere gli investitori stranieri da discriminazioni o espropri arbitrari, si è trasformato in un’arma che le multinazionali usano in modo sempre più invasivo per citare in giudizio gli Stati ogni volta che giudichino un provvedimento di legge lesivo dei loro diritti  (o interessi, se vi pare più appropriato).
La causa viene giudicata da tribunali sovranazionali dotati di potere sanzionatorio contro gli stati, davanti a un collegio giudicante composto da avvocati d’affari che in una causa successiva (o in quella precedente) possono assumere (o hanno assunto) il ruolo di avvocato della “parte lesa”.
Nell’estensiva e fantasiosa interpretazione che le multinazionali danno ai concetti di “espropriazione” o “discriminazione”, ogni misura di legge successiva all’insediamento dell’investitore estero è suscettibile di richiesta di risarcimento, se cambiasse in senso per lui peggiorativo il quadro delle norme entro cui opera. Parliamo di qualunque cosa: salute pubblica (vedi Phillips Morris contro l’Australia e contro l’Uruguay), ambiente (Vattenfall contro Germania, Ethyl Corporation contro Canada), politica economica (Occidental contro Ecuador) e così via. Un aumento dei minimi salariali, ad esempio, potrebbe dar luogo a un contenzioso,  perché il maggior costo del lavoro comporterebbe una diminuzione degli utili attesi dall’investitore.
Le multinazionali mantengono a libro paga costosissimi studi professionali altamente specializzati, i cui membri possono essere chiamati a giudicare cause patrocinate da colleghi.  Lori Wallach, del Public Citizen – un’associazione per la difesa dei consumatori contro lo strapotere delle multinazionali, spiega che la natura segreta degli arbitraggi e l’assenza di vincolo a considerare i precedenti giuridici lascia uno spazio enorme a ciò che definisce “sentenze creative”. Non stupisce che le citazioni in giudizio tendano a essere sempre più numerose. Il grafico che segue è eloquente:


Ma al di là del numero delle cause, l’ISDS produce interessanti effetti di  deterrenza.
È significativo il caso Ethil Corportation vs Canada. La multinazionale chimica americana Ethyl Corporation produce un additivo per carburanti che alcuni studi dimostrerebbero pericoloso per la salute. Il Parlamento canadese approvò una legge per bandirne l’uso, ma la Ethyl argomentò che tale legge era l’equivalente di una “espropriazione” e citò in giudizio il Canada, chiedendo 251 milioni di dollari come risarcimento. Le eccezioni  presentate del governo canadese furono respinte e la corte arbitrale confermò la legittimità dell’azione legale. A questo punto, il Canada preferì revocare la legge e pagò alla Ethyl, a titolo di rimborso spese legali, 13 milioni di dollari.
Con buona pace per la salute dei cittadini canadesi.
Ci sono Stati, come il Brasile, che da sempre rifiutano la firma di trattati che contengano la clausola ISDS. Altri, come Australia, India, Sud Africa o Indonesia, si stanno orientando a impugnarli, o a non confermarli una volta in scadenza. Gli Stati Uniti ne sono invece convinti fautori, e spingono perché il TTIP, l’accordo di partenariato fra le due sponde atlantiche per gli investimenti e il commercio,  la includa.
Per quanto riguarda l’Europa, assistiamo a strane dissociazioni cognitive, che forse hanno lo scopo di generare confusione dove non è più possibile continuare a nascondere.
In un’audizione del 15/10 al Parlamento europeo, l’uscente Commissario per il commercio, Karel de Gucht, aveva dichiarato che, preso atto dei timori di riduzione dello spazio politico dei governi con l’adozione dell’ISDS, i negoziati – per questo aspetto specifico – erano stati sospesi in attesa dei risultati di una “consultazione pubblica” da cui trarre le debite indicazioni.  Di questa consultazione non sono riuscito a trovare traccia.
Può essere che alludesse a questa consultazione, che però è rivolta alle sole imprese e non ai cittadini, con un questionario dove la clausola ISDS non è neppure menzionata.
Oppure a una precedente consultazione, non più disponibile in rete, lanciata da marzo a luglio scorsi: che però riguardava più le modalità di introduzione delle clausole ISDS che l’opportunità di introdurle. (La consultazione aveva comunque ricevuto qualcosa come 150.000 contributi, tanto da paralizzare il sistema informatico della Commissione e far dichiarare a De Gucht che si trattava di “un attacco coordinato”).
A luglio, il nuovo presidente della Commissione, Jean Claude Junker, prendendo atto delle resistenze che si manifestavano nei confronti dell’ISDS, dichiarava che la clausola sarebbe stata esclusa dal negoziato; ma il nuovo Commissario, la svedese  Cecilia Malmström, ha liquidato l’evocazione del rischio di strapotere delle multinazionali dicendo che era pretestuosa.
A metà ottobre, poi, ha ricevuto una lettera firmata da 14 ministri di altrettante nazioni europee, dove viene ribadita la necessità di includere nel trattato la clausola ISDS.  La lettera è stata resa pubblica dal Financial Times, e pare che a ispirarla sia il Governo inglese – al solito appiattito sulle posizioni di Washington (cfr Il simplicissimus):
Uno degli argomenti che più ha suscitato critiche è la protezione degli investimenti [degli investitori stranieri]. La Commissione sta attualmente analizzando i risultati di una consultazione pubblica sull’argomento [?] e aspettiamo con impazienza di conoscerne gli esiti. La consultazione era un passo essenziale per assicurare il corretto equilibrio per assicurare ai governi la piena libertà legislativa, ma non in modo da discriminare ingiustamente le aziende straniere. È importante che il risultato della della consultazione faccia il suo corso, considerando accuratamente le opinioni espresse dai soggetti interessati [stakeholders] prima di prendere una decisione finale. Il mandato del Consiglio stabilisce chiaramente che nei negoziati per il TTIP sia incluso un meccanismo di protezione per gli investitori stranieri;  dobbiamo lavorare insieme per farlo al meglio“.
La Francia, tradizionalmente gelosa della propria autonomia, era con laGermania fra le nazioni più reticenti. Ma difficilmente il debole Hollande potrebbe essere un serio ostacolo se venisse meno l’opposizione della Germania.
Quest’ultima, per bocca della cancelliera, aveva dichiarato che mai i tedeschi avrebbero mangiato polli al cloro, e dopo l’esperienza Vattenfal le riserve non erano più limitate all’aspetto culinario.
Recentemente e inopinatamente però il Ministro dell’economia e leader socialdemocratico Sigmar Gabriel ha dichiarato: “Se il resto dell’Europa vuole questo accordo, allora anche la Germania lo accetterà”.  Con ciò trascurando due dettagli: primo, non è mai la Germania a fare quel che vuole il resto dell’Europa, ma è il resto dell’Europa a fare ciò che vuole la Germania; secondo, il resto dell’Europa, inteso come resto del Consiglio europeo, non  è affatto l’Europa dei cittadini. La maggior parte di essi, infatti, non ha alcuna contezza dell’argomento, ma quelli che ne sono consapevoli sono anche contrari, come dimostrano le centinaia di manifestazioni in ogni parte (regolarmente ignorate dai media) e il finora più di un milione di firme di adesione  alla petizione continentale STOP TTIP.
L’Italia – tanto per cambiare – è orientata ad allinearsi con gli USA. Il Presidente del consiglio Renzi ha dichiarato che quella del TTIP una scelta “strategica e culturale”. Il Viceministro Carlo Calenda, responsabile italiano per il TTIP, insiste per una rapida conclusione dell’accordo, clausole ISDS comprese.
Queste coraggiose e meditate prese di posizione si inseriscono nella più bella tradizione della nostra classe politica, che vede nei vincoli esterni un’ottimo alibi per limitarsi a gestire il Paese anziché prendersi la briga – e la responsabilità – di governarlo.