mercoledì 2 aprile 2014

CASO MORO: BUFALE, MEZZE BUFALE E VERITA’


La moto Honda dei Servizi, il Col. Guglielmi,
la bufala di via Montalcini.

Di Maurizio Barozzi
           
La nostra ultratrentennale ricerca storica sul mistero della morte di Mussolini ci ha insegnato alcune cose che è opportuno consigliare  a  chi si dedica alle ricerche storiche o a chi, navigando nelle notizie di stampa, cerca di capirci qualcosa.
La prima cosa è quella di controllare sempre alla fonte le documentazioni che vengono fornite dai servizi e scoop giornalistici, interviste comprese. Non è infrequente il caso che certe notizie sono distorte, certe interviste sono manipolate, certi dati che sembrano scontati non sono invece veritieri.
Nelle grandi questioni che interessano anche il pubblico, infatti, agiscono sempre delle componenti che sono interessate alla manipolazione, al falso, al perseguimento di altri scopi che non la verità.
In genere i due elementi più ricorrenti che alterano il quadro delle rivelazioni storiche possono essere gli interessi di carriera di chi fa gli scoop o quelli economici delle case editrici, oppure interessi di natura politica o di Intelligence (la disinformazione come arma). Non è raro il caso che spesso questi interessi vanno a coincidere.
In alcuni casi poi, che sono di natura “scottante” per il sistema di potere nel suo insieme, può anche accadere che vengono appositamente veicolate informazioni o clamorose rivelazioni, che poi, venendo smentite, dimostrate false, inquinano la ricerca della verità e negli anni rendono tutto fumoso e imperscrutabile: proprio quello che certi poteri si prefiggono con questa specie di “facite ammuina”.
Questo in linea di massima, senza togliere autorevolezza e dignità, a possibili informazioni e servizi che invece sono veritieri e genuini.
Comunque sia, nel dubbio: sempre meglio diffidare.
La moto Honda in via Fani
Tutta questa premessa per introdurre la recente rivelazione sul caso Moro e l’agguato di via Fani, con la quale si dice che la moto Honda, vista sul posto da alcuni testimoni e assurta a verità processuale dopo dibattimenti in tribunale, avrebbe avuto a bordo due agenti dei Servizi segreti incaricati di proteggere la fuga dei brigatisti.
Oltretutto si affermerebbe anche che i due agenti dei Servizi erano alle dipendenze del colonnello Camillo Guglielmi del Sismi, effettivamente presente quel giorno e a quell’ora nei pressi di via Fani.
La rivelazione sarebbe contenuta in una lettera arrivata, dapprima alla stampa e infine, tempo dopo e in modo informale, nelle mani di Enrico Rossi, un ispettore di polizia. Questa lettera era scritta da uno dei due presunti uomini dei Servizi sulla moto, coì almeno si qualificava, il quale essendo affetto da un cancro e sapendo di morire, ad oltre 30 anni di distanza, intendeva liberarsi la coscienza. 
L’ispettore Rossi, messosi in pensione, sembra anche a causa di certi boicottaggi subiti nell’espletamento  di queste indagini, sarebbe riuscito a risalire alla identità di uno di questi “ex agenti”, tale Antonio Fissore residente a Torino che poi è deceduto. L’ex moglie di questo presunto “agente”, ancora vivente e rintracciata, smentiva però che il marito sia mai stato nei Servizi segreti, essendo un fotografo e regista TV. La signora nega anche che  a marzo 1978, al tempo del rapimento, il marito potesse trovarsi a Roma.
Resta il fatto che nel corso di una perquisizione, il Rossi rinveniva in cantina una pistola cecoslovacca avvolta proprio nel famoso numero del giornale La Repubblica del 16 marzo 1978 che annunciava il rapimento. Risultava anche che il Fissore aveva una pistola Berretta, tutte armi a suo tempo denunciate.
Veniva rinvenuta anche una busta con un foglio dell'ex parlamentare DC Franco Mazzola, nel '78 sottosegretario alla Difesa, ritenuto uno dei depositari dei segreti del caso Moro.  Una coincidenza? Vedremo, per dare un giudizio necessitano per prima cosa conferme a tutte queste notizie di stampa e ovviamente ulteriori dettagli.
Questa rivelazione è stata diffusa dall’Ansa, dal giornalista Paolo Cucchiarelli, e a quanto sappiamo sembra che il Rossi intenda fornire tutti i particolari solo al magistrato.
Sarà quindi ascoltato  e solo allora potremo sapere come effettivamente stanno le cose e che grado di attendibilità dare alla vicenda.
En passant, dobbiamo sottolineare che alcuni ambienti, più che altro giornalistici e di sinistra, ai quali forse scotta una verità del genere, circa l’ingerenza e la direzione dei Servizi in quel rapimento, reagivano gridando alla bufala.  
Se sia una bufala o meno, allo stato attuale non è possibile dare una risposta concreta, ma circa le tardive argomentazioni, oggi addotte, che i due in moto in via Fani al momento del massacro e del rapimento, fossero un compagno dell’area della sinistra, che lavorava in un garage paterno da quelle parti, e quindi passato di lì per caso in moto con la sua ragazza, non reggono.
Ci si fa anche sapere che questi due compagni, avrebbero riconosciuto Morucci e il Casimirri, due brigatisti, e avendo capito cosa stava per accadere, se ne andarono facendo persino un cenno di saluto. Loro comunque, con le BR, non c’entravano nulla.
Dunque, dopo che i brigatisti stessi hanno negato che ci fosse una loro moto Honda, dopo aver dato poi per possibile che una moto del genere, ma sconosciuta, sia passata da quelle parti, oggi si fa anche una mezza ammissione, ma riferendola ad un episodio del tutto marginale. Ma anche questa versione non convince.
Intanto, nessuna testimonianza ha indicato come passeggero posteriore della moto, una donna, secondo poi la moto venne segnalata soprattutto ad agguato concluso e quindi era ancora lì durante i tre minuti di fuoco, non se ne era di certo andata, oppure, il che non cambia, era arrivata a strage compiuta cooperando nella fuga delle macchine.
Questa storia dell’ispettore Rossi, comunque, potrebbe benissimo essere una delle tante bufale, ma la presenza di una moto Honda, a lungo negata dai brigatisti e poi accettata con la supposizione che forse erano due compagni passati da quelle parti per caso, è comunque  una verità processuale. Questo non vuol dire che sia veritiera al cento per cento, ma di certo è una attestazione molto più attendibile di tante altre fatte a voce.
Quella moto, infatti, quel 16 marzo 1978, alle 9 circa in via Fani,  la notarono alcuni testimoni al momento dell’agguato, anzi uno la vide ferma nei pressi un attimo prima, ed un altro testimone, Giovanni Intravado, un agente della stradale fuori servizio che passava da quelle parti, la vide parcheggiata sul lato destro di via Fani e poi ne venne sfiorato, essendogli passata vicino, quando le macchine dei brigatisti con il rapito a bordo se ne stavano andando via.
Ma una moto venne anche segnalata via radio alle volanti, pochi minuti dopo l’agguato, indicandola come una moto in fuga con le macchine dei brigatisti.
La deposizione però più concreta e pertinente è quella dell’ing. Alessandro Marini, che arrivato all’incrocio tra via Fani e via Stresa, proprio al momento dell’agguato assistette a tutta la scena. Quando le macchine se la filarono con l’ostaggio, spuntò la moto dietro di loro. Il Marini nel corso di tre deposizioni, una subito dopo i fatti, alle 15,15 di quel 16 marzo, un'altra ad aprile e una a giugno, specificò che a bordo vi erano due uomini: il guidatore con una specie di passamontagna e quello dietro armato con una specie di mitraglietta, la cui siluette del viso assomigliava a quella di Edoardo De Filippo.
Proprio quest’ultimo, per intimidire il Marini e non farlo muovere con il motorino, ebbe a sparagli dei colpi, di cui uno forse attinse il parabrezza del motorino e il Marini, per non essere colpito, lo fece cadere a terra determinandone la rottura.
Il Marini disse anche che all’uomo sulla moto, cadde in terra un caricatore e diede indicazioni per repertarlo. Ancor più, questa testimonianza, il Marini la ripetè poi in tribunale, dove venne creduto tanto che i brigatisti furono condannati anche per tentato omicidio di un comune cittadino. 
Orbene, già dalla sera della prima deposizione, il Marini venne fatto oggetto di telefonate minacciose, tanto che gli venne accordata una sorveglianza sotto casa, ma  mesi dopo preferì andarsene a lavorare in Svizzera.
Strana vicenda questa delle minacce telefoniche, visto che non si capisce: né come le BR avessero potuto avere subito notizia della sua deposizione, della sua utenza telefonica e soprattutto non si capisce perché avrebbero dovuto intimidire  uno dei tanti testi presenti quel giorno a via Fani che furono ascoltati.
Lascia poi perplessi il fatto che dei brigatisti abbiano sparato contro un comune e inerme cittadino. Qualsiasi cosa si possa dire di questi “comunisti combattenti”, della loro ferocia, ecc., non è credibile che sparassero addosso a dei civili, rischiando di ammazzarli, solo per intimidirli.
Anche per questo, ambienti di sinistra, forse cercano di negare che venne veramente sparato contro il Marini. Come noto le perizie, agli atti dei processi, sono spesso incomplete, per il caos  o la mancanza dei reperti, oppure sono state spesso anche riviste e modificate.
Ma del resto che gli abbiano sparato, oppure il Marini se lo sia solo immaginato in quei momenti di tensione e paura, è del tutto secondario rispetto alla effettiva presenza sul posto di quella moto Honda. E in merito alla presenza della moto una ipotesi sembra alquanto verosimile, quella che questa moto non poteva essere totalmente sconosciuta ai brigatisti, altrimenti dovremmo pensare che i due guidatori avevano voglia di suicidarsi, presentandosi nel pieno dell’azione operativa dei brigatisti i quali, sicuramente, gli avrebbero sparato addosso.
In tutta questa vicenda della lettera di “pentimento” con la rivelazione, bufala o meno che sia, un'altra cosa è certa, anche per stessa ammissione degli interessati.
Li a poca distanza dal luogo di quell’agguato era presente, un colonello del Sismi, tale Camillo Guglielmi (vedremo più avanti come si cercò poi di mitigare questa presenza asserendo che il Guglielmi quel 16 marzo 1978, non era ancora entrato nel Sismi).
Costui, chiamato in causa ben tredici anni dopo i fatti, ammise di essere passato da quelle parti per recarsi a casa di un amico, nella adiacente via Stresa n. 117,  che lo aveva invitato a pranzo. Presenza accertata quindi, ma motivazione molto  dubbia, se non assurda, visto che l’amico, anzi il collega colonnello Armando D’Ambrosio, confermava la presenza, ma non ricordava l’invito a pranzo ed oltretutto, appare singolare, se non assurdo, il presentarsi in casa, invitati per pranzo, verso le 9,30 di mattina!
Singolare poi anche il fatto che questo Guglielmi, non certo uno sprovveduto, non abbia avuto sentore della tragica sparatoria di pochi minuti prima a  poco più di un centinaio di metri (per la verità l’amico del Guglielmi riferì anche che questi si trattenne solo qualche minuto, perché disse che voleva andare a vedere cosa era successo lì vicino, di cui aveva percepito qualcosa),
Ma chi era il colonnello Camillo Guglielmi, che la mattina del 16 marzo 1978 si trovò, in ogni caso, prossimo all’incrocio tra via Fani e via Stresa, proprio mentre le Brigate Rosse rapivano  o avevano appena rapito, Aldo Moro?
Notizie su la carriera di Guglielmi, soprannominato “Papà”, emergono dal resoconto di un’audizione in Commissione stragi dell’ex ministro della Difesa, Cesare Previti: nel ’78 l’ufficiale era in forza alla Legione Carabinieri di Parma dalla quale venne posto in congedo il 15 aprile 1978, dunque durante il sequestro Moro.
Dal 1 luglio 1978 Guglielmi, a detta di Previti, prestò servizio presso il Sismi come  consulente “esperto”, fino alla sua assunzione nel Servizio segreto militare, avvenuta il 22 gennaio 1979. Subì trasferimenti, ma collaborò con il controspionaggio militare fino al 30 novembre 1981. E’ deceduto nel gennaio 1992 all’età di 68 anni, non molto tempo dopo che venne fatto il suo nome quale presenza in via Fani, rivelazione che, si dice, con tutto il chiasso che se ne fece gli procurò del crepacuore.
Interessante il fatto che l’ufficio sicurezza, di cui Guglielmi era uno dei direttori di Sezione, fu costituito dal generale Giuseppe Santovito, a capo del Sismi dal gennaio ’78, e affidato a Pietro Musumeci e a Giuseppe Belmonte, questi ultimi, entrambi iscritti alla Loggia P2 e condannati per i depistaggi sulla strage di Bologna del 1980.
La versione, minimizzante di questa storia e a difesa della buona fede del Guglielmi, si basa sulle date ufficiali per le quali quell’Ufficio venne istituito dopo il caso Moro, ma è intuibile e  le inchieste lo confermano,  che era già attivo nei 55 giorni del sequestro. Del resto le date “ufficiali”  riguardanti i ruolini degli agenti in servizio segreto, lasciano spesso il tempo che trovano.
Altre informazioni attestano poi che a Roma, presso la direzione di sicurezza, erano in  servizio anche agenti di Gladio sotto la supervisione della VII Divisione del Sismi, in cui anche il Guglielmi vi aveva fatto il supervisore.
Se quanto poi affermato dall’on. Sergio Flamigni, membro delle Commissioni d’inchiesta sul caso Moro e sulla P2, cioè che il Guglielmi era «uno dei migliori addestratori di Gladio, esperto di tecniche di imboscata, che lui stesso insegnava nella base sarda di Capo Marrargiu dove si esercitavano anche gli uomini di Stay Behind», tutta la faccenda assumerebbe aspetti  inquietanti perché, in tal caso, questo genere di specializzazioni non si conseguono dall’oggi al domani e quindi si porrebbero dubbi e domande, divenendo  anche relativo, sapere in forza a quale apparato o  servizio era il Guglielmi il 16 marzo 1978.
Questo, grosso modo, il riassunto su queste notizie e rivelazioni, così come appaiono allo stato attuale.
Ma è anche interessante conoscere come venne fuori il nome del Guglielmi e la sua collocazione nei pressi di via Fani. 
La “soffiata” venne da un certo Pierluigi Ravasio, bergamasco, ex carabiniere paracadutista congedatosi nel 1982, passato alla professione di guardia giurata, e residente in Cremona.  Nel 1978 il Ravasio era entrato nel  Sismi, e fu assegnato all'ufficio sicurezza interna nella VII sezione dell'ufficio R di Roma, dove Musumeci e Belmonte erano i capi dell'ufficio e i suoi diretti superiori erano il colonnello Guglielmi ed il colonnello Cenicola.
Orbene nel Natale 1990, in un ristorante di Cremona, l'ex agente del Sismi, confermò al deputato di Democrazia Proletaria Luigi Cipriani che alcune confidenze, riguardanti anche la presenza del Guglielmi nei pressi di Via Fani, che già aveva fatto ad altra persona.
Scrive la giornalista Rita Di Giovacchino in “Il libro nero della Prima Repubblica”, che il Guglielmi confidò poi al Ravasio di essere arrivato in via Fani a strage consumata e ne restò sconvolto.
Ravasio, che mostrò al Cipriani e ad un giornalista di Panorama, varie documentazioni attestanti le sue passate qualifiche,  disse che quella mattina il Guglielmi era arrivato in via Fani dopo aver ricevuto una telefonata di Musumeci: «Vai subito lì, un informatore mi ha detto che succederà qualcosa di grosso, forse rapiscono Moro». Lo sfogo del Ravasio derivava da delusioni avute in servizio, sia dalla destra politica che dai servizi segreti.
L’autorevolezza dell’on. Luigi Cipriani, la sua serietà, provocarono tutta una serie di interrogazioni e accertamenti, dai quali poi, come abbiamo visto, ci fu anche la conferma, sia pure con altra motivazione, del Guglielmi  quella mattina in via Fani.
In ogni caso che il Guglielmi fosse andato in via Fani a carattere preventivo e osservativo, come da confidenze fatte dallo stesso colonnello al Ravasio, o ci sia andato per supervisionare il rapimento, come asserito dal presunto centauro della moto in via Fani, resta il fatto che questo colonnello, quel giorno a quell’ora, era in quei paraggi, così come c’era la moto Honda che i brigatisti negano decisamente sia dei loro.
Possono benissimo essere due fatti sconnessi tra loro, ma restano sempre due fatti.
Quello che qui ci preme sottolineare è il fatto che queste rivelazioni, quella dell’ispettore Rossi, ancora da valutare e accertare e quella del Ravasio poi confermata, vengono in qualche modo da persone interne agli apparati di sicurezza.
A queste se ne potrebbe poi aggiungere un'altra, questa però a quanto sembra rivelatasi una vera e propria bufala: quella della famosa confidenza fatta all’ex magistrato Ferdinando Imposimato, a quanto oggi si dice, dall’ex brigadiere della Guardia di finanza in pensione Giovanni Ladu, 57 anni, cagliaritano residente a Novara, che con il magistrato si sarebbe definito un ufficiale di Gladio nomato  Oscar Puddu.  
Secondo questo Puddu/Ladu, che aveva contattato Imposimato, la Gladio sorvegliava da vicino e continuamente il covo delle Br con Moro prigioniero, in via Montalcini, tanto da poterlo liberare facilmente, ma all’ultimo momento venne l’ordine di smantellare tutto e andarsene. Questo presunto “gladiatore” aveva già contattato per email  il giudice Imposimato nel 2008 dopo averne letto il libro “Doveva morire” nel quale si adombravano pesanti sospetti su Cossiga ed Andreotti quali responsabili della morte di Moro. Anni dopo poi era tornato alla carica, fornendo altri e più dettagliati particolari.
Ma il tutto a quanto sembra sarebbe una bufala.
A questo punto tiriamo le conclusioni, affermando comunque che personalmente non ci fidiamo mai delle informazioni che vengono dall’interno del Sistema.
Certo, possono esserci benissimo dei casi di coscienza e crisi di pentimento dopo anni, ci sono certamente persone che adempiono il loro dovere istituzionale con coscienza, scrupolo e serietà e quindi, quando hanno percezione di delicati intrallazzi hanno anche il coraggio di denunciarli. Ma in genere siamo diffidenti, queste “rivelazioni” sia che fossero veritiere, come nel caso del Ravasio o fossero false, come nel caso delle informazioni date al giudice Imposimato, sono sempre da prendere con le molle, perché spesso, hanno qualche scopo nascosto.
Ad esempio, facciamo una nostra ipotesi:  la rivelazione di Ravasio, risultata fondata, avvenne poco tempo prima che esplodesse lo scandalo di mani pulite, uno scandalo che coinvolse il mondo politico e i suoi riferimenti nelle Intelligence. Chi ci dice che facendo sorgere il mezzo scandalo della presenza del Guglielmi in via Fani, in realtà si voleva indebolire qualche settore dei Servizi  che doveva essere poi spazzare via? Non ce lo dice nessuno, ma a noi, vecchi sospettosi, il dubbio resta.
E la rivelazione, risultata invece falsa, fatta a Imposimato, sulla prigionia di Moro, a cosa poteva servire?
Altra nostra ipotesi: non potrebbe essere intenzione di chi sa chì, di confondere le idee circa il fatto che Moro si ha interesse ad attestare, sia pure indirettamente, che restò sempre nella prigionie di via Montalcini, quando invece appare poco probabile?
Anche qui non lo sappiamo, ma di certo questa bufala non è uscita fuori a caso, a meno che non siamo in presenza di veri e propri mitomani.
E così abbiamo adesso una rivelazione dell’ultim’ora, quella dell’Ansa e dell’ispettore Rossi, che deve essere ancora vagliata e valutata. Vedremo come finirà, ma se dovesse essere una bufala, resta da chiedersi, perché, a chi giovava, quale ruolo questa bufala deve  svolgere?
E se invece dovesse rivelarsi vera e quindi far esplodere un vero e proprio scandalo, circa le BR aiutate dai Servizi, è tutto così limpido come ci è stato raccontato, dando all’ispettore Rossi, il giusto merito della sua dedizione e serietà, oppure anche qui, dall’interno del Sistema e da dietro le quinte, “qualcuno”,  nell’ombra, vuole anche raggiungere qualche altro scopo?

Ergo il consiglio che diamo a tutti è sempre quello di attenersi solo ai fatti, anzi di cercare persino di appurare la verità dei fatti stessi e di diffidare sempre soprattutto di quello che esce dalle stanze del Sistema.