PARTITOCRAZIA,
SINDACATOE CORPORAZIONE
di
Silvano Borruso
Breve Storia del Partito Politico
Il partito politico moderno, cioè
quell'organizzazione che è passata da una sedicente 'rappresentanza' a una
evidente dittatura, è con noi da tre secoli. E dato che, secondo Gonzague de
Reynold,
l'oblìo della storia... sarebbe per
la società quello che è la perdita della memoria per l'individuo[1]
facciamo un breve excursus nella storia di questa istituzione, per
capirne di più.
Trasportiamoci nella
Londra del 1694. L'invasore principe consorte della regina Maria, l'olandese
Guglielmo III d'Orange, ottiene l'assenso reale per la fondazione della Banca “d'Inghilterra”
e per l'istituzione del Debito Pubblico.
"Questo statuto", scrive
A.M.Ramsey, "consegnò a un comitato anonimo la prerogativa reale di batter
moneta; intronizzò l'oro come base di ricchezza; e permise agli usurai
internazionali di garantire i loro prestiti con le tasse del paese invece che
con le promesse incerte di un capo di stato o di un potentato anch'esso
incerto...
L'unione politica ed economica con
l'Inghilterra fu imposta da lì a poco alla Scozia per mezzo di diffusa
corruzione, e in barba alle proteste formali di ogni contea e municipio... l'artiglio
dell'usuraio stringeva ora tutta la Gran Bretagna.
Ma c'era un pericolo: i membri del nuovo
Parlamento Unito avrebbero prima o poi sfidato il nuovo 'sistema' nello spirito
dei loro antenati.
Per difendersi dal pericolo fu
avviato il sistema partitocratico (neretto mio) per frustrare la
reazione nazionale e permettere agli usurai il divide et impera. Il loro
potere finanziario, da recente acquisito, avrebbe loro permesso di far salire
alla ribalta i loro uomini e le loro politiche, sostenuti dai loro giornali,
opuscoli e conti in banca... L'oro doveva diventare la base dei prestiti, per
un ammontare di dieci volte la quantità depositata. Al 3%, 100 sterline in oro
procuravano così al loro padrone 30 sterline all'anno, senza dover fare altro sforzo
che quello di riempire dei registri. Ma chi le 100 sterline le aveva sotto
forma di terra, doveva lavorare ogni ora di luce perchè gli rendessero al
massimo un 4%. Il processo doveva inesorabilmente rendere milionario l'usuraio,
e rovinare il terratenente inglese e scozzese.[2]
Questo fu l'inizio.Un
secolo dopo i partiti politici si istituivano nel Continente a partire dalla
Rivoluzione in Francia. Gli ostacoli da abbattere colà, oltre ai tre Stati,
erano le Corporazioni (in Inghilterra queste erano già state distrutte a
cominciare da Enrico VIII nel secolo XVI). Il decreto Allarde del 1789 ne
decretò la sparizione, e la Loi Chapelier (1791) abolì addirittura il
diritto di associazione, stabilendo il “principio” che non vi dovessero essere
organi intermedi tra il cittadino e lo Stato. Eccezion fatta, s'intende, per i
partiti politici, che pochi anni dopo avrebbero fatto il loro ingresso anche in
Italia.
La scusa era sempre la
stessa: 'rappresentare' quella porzione di popolo che fosse d'accordo con la loro
politica. Ma la realtà era ben diversa, e se ne accorse Antonio Rosmini, che
nel 1839 scrisse:
“Ciò che impedisce la giustizia
e la moralità sono i partiti politici. Ecco il verme che corrode
la società, il male che confonde le previsioni de' filosofi, e rende vane le
più belle teorie. Conciossiachè i partiti sono formati da uomini che non
si prefiggono nel loro operare né quello che è giusto, né quello che è
moralmente onesto e virtuoso.
Il partito ha per iscopo il proprio
vantaggio, non la giustizia, l'equità, la vita morale. Partito dunque ed
equità, giustizia e virtù, sono cose opposte"[3]
Ma ci vuole altro che gli
ammonimenti di un filosofo per convincere persone anche intelligenti. Una delle
quali fu Hilaire Belloc (1870-1953), che nel 1906 aveva ancora tanta fiducia
nel Party System da presentarsi come candidato per la
circoscrizione elettorale di Salford, Manchester, per il partito liberale.
Venne eletto, ma non durò.
Belloc vide con i suoi occhi cosa c'era dietro il Party System, e nel
1910 non si ripresentò. Nel 1911, insieme a Cecil Chesterton (fratello del
grande G.K. e caduto in guerra nel 1918) pubblicò The Party System che
rimane, per quanto io sappia, un insuperato atto di accusa contro la partitocrazia.
La tesi è che il partito
politico, lungi dal rappresentare gli elettori, rappresenta interessi occulti,
i quali non hanno scrupoli nel sostenere finanziariamente tanto il partito al
potere quanto quello all'opposizione con il sostegno di uomini inetti, corrotti
e quindi sotto minaccia permanente di ricatto, costretti quindi ad abbassarsi a
livelli intellettuali infimi.
"Bisogna notare" -scrive
Belloc- "che l'effetto del sistema partitocratico sugli uomini politici
anche più abili, è di deprimere il loro livello intellettuale. È tutt'affatto
incredibile che uomini come Mr Asquith e Mr Lloyd George, Mr Balfour e Mr
F.E.Smith possano in qualunque circostanza proferire le imbecillità che
costantemente adornano i loro discorsi pubblici. Non parlerebbero così a una
cena, o nei loro club. Ma lo standard intellettuale in politica è così basso
che uomini di capacità mentale media devono piegarsi in due per raggiungerne il
livello"[4].
La tesi di Belloc ebbe una
triste conferma nel 1914, all'inizio della Grande Guerra. Gli eventi sportivi
come le Olimpiadi e i campionati di calcio vennero sospesi, ma non le gare
ippiche. Mentre la mitraglia falciava giornalmente vittime su tutti i fronti in
numero spesso uguagliante quello dell'ecatombe di Hiroshima, i fantini di Lord
Rosebery continuavano a spronare le loro monte sulle piste di Ascot. Ed è che il
buon Lord aveva minacciato di sospendere i finanziamenti di ambedue i
partiti se gli uomini di governo avessero osato privarlo, lui e i suoi degni
compari, dello sport dei re, Grande Guerra o non Grande Guerra.
Nell’autobiografia del
1928 Mussolini scriveva:
“Tutte le idee dei cosiddetti
partiti storici sembravano vestiti larghi oltremisura, sformati, fuori moda e
inutili. Erano divenuti sgargianti e insufficienti, incapaci di adattarsi ai
colpi di scena politici, alla storia e alla vita moderna"[5]
Il termine 'partito' è il
participio passato di partire, dividere. È evidente quindi che la
necessaria pluralità partitica non possa, né di fatto abbia mai
rappresentato la totalità di un popolo, né promossone l’unità politica.Si è
visto invece come i partiti italiani siano riusciti ad usurpare il potere dello
Stato, così da imporre che
“Tutto avvenga nei partiti, tutto
si decida attraverso i partiti, nulla esista fuori dai partiti, nulla contro i
partiti. Così ogni altro gruppo, ogni altra forza sociale, economica,
culturale, ogni categoria, non ha un proprio canale per arrivare
istituzionalmente e costituzionalmente allo Stato, per inserirsi nella gestione dello Stato, per tutelare e organizzare
nello Stato i propri interessi.”[6]
Il testo di La Grua appena citato
riecheggia quello di Marcel Clément.[7] Nel lontano 1958 costui pubblicava La Corporation Professionnelle, dove
perorava la causa della corporazione professionale, cioè
l’inserimento delle forze vive del lavoro nazionale in politica. Tanto lui
quanto A.M. La Grua, però, propongono le corporazioni come facenti parte dello Stato, in chiave sopratutto
anticomunista. Proponevano un cambio dall’alto, cioè da una volontà politica
mai osservata di fatto.
Quello che però è successo, a cominciare dal 1945 per
arrivare al punto algido con la crisi finanziaria del 2008, è stato che tutti i
partiti politici, europei e non, si sono venduti anima e corpo ai diktat della
finanza, tradendo pertanto i loro adepti illusi di trovare protezione in
qualche “onorevole” considerato come poderoso di turno.
È arrivato il tempo di studiare, capire, e mettere in
atto l’istituto della corporazione professionale, unico a poter fare da
rappresentante vero del popolo che lavora, e pertanto temuto da coloro che riescono
a vivere a spese di quel popolo, e bene per giunta.
Addentriamoci quindi nella sua storia e struttura così da
ravvivarla e rinforzarla, rendendo vera l’espressione “popolo sovrano”
millantata dalla Costituzione ma calpestata di fatto da chi ha ingannato il
popolo durante gli ultimi 200 e più anni.
Per fare ciò bisogna cominciare con il liberarsi di una
serie di pregiudizi malauguratamente estesi tra i più. Scriveva Clément a
proposito della Loi Chapelier:
“Rimase un dogma politico nei paesi
occidentali per un intero secolo, e i suoi effetti funesti si sono prolungati
fino ai nostri giorni sotto la forma di anatema intellettuale scagliato sul
nome di corporazione"[8].
Gli storiografi incastonati
condannano la corporazione millenaria[9] ripetendo accuse trite e
ritrite come per esempio che praticasse monopoli scandalosi, che fosse egoista
e sfruttatrice, nemica del progresso, ecc. Il che è parzialmente vero, ma non
tanto da far buttare via il bebè con l'acqua
sporca.
Questa avversione di
antica data viene esacerbata, dal 1945 ad oggi, dalla considerazione viscerale secondo
cui furono i 'dittatori' della prima metà del secolo XX a mettere in pratica lo
stato corporativo.
Per non cadere nella
trappola di una argomentazione ad hominem, analizziamo non chi
fece questo o quello, ma come lo fece, che successo ebbe, e perchè
l'esperimento fallì.
Diciamo subito che il
Magistero pontificio non nega le accuse di codesti storiografi alla
corporazione. Pio XI disse:
“Che questo ordine (corporativo)
sia perito da lungo tempo, non fu dovuto alla sua incapacità di sviluppo e
adattamento a bisogni e circostanze cambianti, ma al fatto che gli uomini si
fossero induriti nell'amor proprio, e avessero rifiutato di estendere
quell'ordine, com'era loro dovere, di pari passo con l'incremento della
popolazione; oppure, ingannati dall'attrazione di una falsa libertà e da altri
errori, divenissero intolleranti di qualsiasi autorità e tentassero di
liberarsi da qualsiasi forma di controllo"[10]
Prima di vedere le ragioni del
fallimento degli esperimenti corporativi degli anni 1920-1930, facciamo un excursus nella storia della corporazione,
parallelo a quello fatto poc’anzi per il partito politico.
Breve Storia della Corporazione
L’origine della corporazione, tanto in Cina quanto in
Europa, fu l’istinto gregario, principalmente difensivo, di gruppi che
intuiscono come l’unione faccia la forza, mettendosi quindi in grado di
difendersi da pressioni, soprusi e violenze varie. Solo in Europa, però, le
corporazioni ebbero funzione politica, efficacemente controllando dal basso il potere regio. Le tasse,
per esempio, andavano patteggiate,
non imposte dall’alto arbitrariamente come avviene oggi. Le pagavano le
corporazioni (in Spagna i fueros)
proteggendo così individui e famiglie da esazioni ingiuste. Dal punto di vista fiscale
la società medievale era molto più democratica di quella odierna proprio nel
senso etimologico, già ventilato, del termine.
Nell’impero romano non vi erano corporazioni, ma la
difesa della persona era garantita: si pensi ai 470 militi mobilizzati da un
tribuno per difendere Paolo dalla congiura di 40 giudei nel breve tragitto
Gerusalemme-Cesarea.[11]
Ma con lo sfaldarsi dell’impero, la vita di chi voleva vivere lavorando
diventava sempre più difficile.
Nel settore agricolo non c’era problema: l’agricoltore
pagava l’annona, cioè quattro settimane di produzione, come controparte delle
spese di amministrazione e difesa accollatesi dal signore feudale, e
l’assistenza sociale la pagava la rendita di monasteri, abbazie, ecc.
Non si stava proprio male: un agricoltore del XV secolo,
in Inghilterra, lavorava per altre 14 settimane per vitto, vestiario e alloggio;
altre dieci per gli extra come birra, prosciutto ecc. Le restanti 18 le
impiegava o costruendo cattedrali o producendo oggetti d’artigianato (che oggi
fanno bella mostra di sé solo nei musei) o facendosi i fatti suoi.
Le corporazioni furono un fenomeno cittadino: era colà che bisognava unirsi per difendersi dalla
possibile violenza fisica dei nobili circonvicini, dalle esazioni arbitrarie
dei signori feudali che controllavano le campagne, e da bande di malviventi che
scorrazzavano incontrollate. Gli operatori economici si conoscevano già nelle
confraternite, e da queste svilupparono le corporazioni.
Le funzioni da espletare erano:
·
Doveri civici
di difesa e manutenzione delle strutture cittadine;
·
Regolamentazione
dei prezzi secondo criteri di giustizia;
·
Proibizione
di fare pubblicità e concorrenza riducendo i prezzi;
·
Proibizione
di incetta di materie prime;
·
Obbligo di
mantenere il segreto professionale;
·
Restrizione
di appartenenza, così assicurando il pieno impiego;
·
Garanzia di
qualità per i prodotti dei membri della
corporazione;
·
Regolamentazione
delle ore e condizioni di lavoro;
·
Assicurazione
contro la malattia, i viaggi e la vedovanza.
Le corporazioni non sorsero senza opposizione: già nel
nono secolo il loro sviluppo veniva seguito con disapprovazione, proprio perchè
l’autorità centrale vi vedeva un possibile contropotere. Pochi sanno che
Carlomagno emise una serie di decreti diretti a sopprimerle se non annientarle.
Ma il movimento sopravvisse, estendendosi dovunque. Vi fu
anche rivalità tra i due tipi di corporazioni: i produttori spesso
consideravano i mercanti come profittatori, e non sempre a torto. Un gruppo che
si sentisse parte lesa in una certa questione, formava la sua corporazione per
la bisogna.
Il sistema corporativo fu di una straordinaria vitalità e
sopravvivenza. Durò quasi mille anni.
Questa sopravvivenza può capirsi solo conoscendo i princìpi di base.
Il desiderio iniziale di pace e di giustizia, come quello
di difesa e sicurezza, veniva dalla convinzione profonda che fosse possibile
definire ed applicare la virtù della giustizia alla vita economica e sociale.
Ciò perché nel Medioevo si era convinti della superiorità dei valori etici su
quelli economici e commerciali. La nozione che la comunità fosse un insieme organico
era generalmente accettata così come era accettato il principio secondo cui ognuno
dovesse occupare il posto nella scala sociale dipendente dal tipo di contributo
al bene comune.
Il principio di uguaglianza intraclasse e ineguaglianza
interclasse assicurò pace, stabilità e giustizia per ben cinque secoli (X-XIV),
non contando quindi lo sviluppo iniziale e la decadenza finale.
Due condizioni si imponevano perchè la cosa funzionasse:
a) che tutti gli operatori economici con interessi in comune dovessero far
parte di una corporazione, e b) che l’autorità competente ne riconoscesse la
legittimità.
Ma la perfezione, ahimé, non è di questo mondo. Il sistema
corporativo riservava sí giustizia, pace e libertà, ma solo ai suoi aderenti, escludendo
da codeste desiderabili mire i precari, esclusi o per eccesso di manodopera, o
per lo spirito di indipendenza di chi a malavoglia si sottomette a
regolamentazioni di ogni tipo.[12]
Erano, tutto sommato, monopoli e monopsonie[13];
non poche volte interessi corporativi entravano in rotta di collisione con
quelli dei consumatori.
Dalla Corporazione al Sindacato
L’aforisma giuridico abusus
non tollit usum decora i libri di testo delle facoltà di giurisprudenza, ma
la sua applicazione pratica raramente decora i libri di storia. Le corporazioni
erano da riformare ed erano certamente riformabili, ma Allarde e Chapelier le
eliminarono come già visto.
I sovrani che sobillati dal potere finanziario accondiscesero
a liberarsene, non si rendevano conto, o se ne resero conto troppo tardi, che le
corporazioni espletavano una doppia funzione: controllo del potere regio, ma
allo stesso tempo base di supporto popolare della monarchia, entrambi dal basso.
Sparite queste funzioni, era questione di tempo perchè le
monarchie, sotto l’attacco implacabile della Rivoluzione, venissero diroccate
l’una dopo l’altra, rimanendo solo quelle che accedettero ad asservirsi alla
medesima, e ciò fino ai nostri giorni.
Per tutto il secolo XIX i lavoratori produttori di
ricchezza combatterono, a volte fino allo spargimento di sangue, per ricuperare
il diritto di associazione. Ci riuscirono, ma in forma del tutto diversa da quella
originale, a causa della prestidigitazione marxista.
È di estrema importanza capire questa prestidigitazione,
e chi ha letto Gesell sa perchè. I datori di lavoro sfruttavano sì i loro
dipendenti, ma minimamente per conto proprio. Il grosso di quello che sarebbe
dovuto andare nelle tasche dei lavoratori andava a finire in quelle di
terratenenti e usurai, che Marx fece del suo meglio per occultare, e che
Proudhon voleva esporre. Ecco il perchè della zuffa tra i due, che portò alla
ribalta Marx e seppellì Proudhon sotto una coltre di disinformazione e di
oblio.
Durante il tempo di questa lotta sindacale si rafforzava,
malauguratamente, il potere del partito politico, cosicchè ai primi del XX
secolo chi lavorava veniva ingannato sul doppio fronte della partitocrazia e
del sindacalismo. I sindacati, invece di proteggere gli interessi di chi
lavora, protessero quelli di chi si era affiliato a un certo partito.
Quando si scatenò Tangentopoli, nel 1992, le forze del
lavoro non sospettavano che 20 anni dopo non solo si sarebbe svelato l’inganno,
ma che il disvelo venisse sbandierato in Internet.
Le elezioni del 6 maggio 2012 hanno assestato una
ulteriore mazzata ai partiti con la vittoria del 50% dei non-voti degli
astenuti. Rimangono in piedi i sindacati, che sotto nomi diversi continuano a
operare, senza eccezione, sotto lo stesso diktat comunista: “lavoratori” =
massa informe; gli operatori economici indipendenti come professionisti,
impiegati ecc. sono “sfruttatori”.
È arrivata l’ora di far rientrare il lavoro del popolo in
politica senza intermediari, facendo
risorgere, adattate ai tempi e rafforzate permanentemente, le corporazioni
capaci di coprire tutte le categorie,
così rappresentando il 100% della forza lavoro prima alle urne e poi in
Parlamento.
Questo compito non sarà esente da difficoltà. Chi ha la
memoria lunga ricorderà come nel 1944, quando i mirmidoni di Zio Sam entrarono
a Roma, una delle prime cose che fecero fu di smantellare l’allora Ministero
delle Corporazioni perchè “fascista”.
Strappare le Erbacce del Pregiudizio
Prima di perorare la causa, quindi, pregherei i lettori
di liberarsi dal pregiudizio viscerale verso il termine “fascismo”, dovuto a
una propaganda martellante di conio comunista che dura da più di mezzo secolo.
Per farlo, si dia un’occhiata alla statua di Lincoln nell’omonimo monumento a
Washington: si noteranno senza difficoltà due
enormi fasci, uno sotto ciascuna mano del Presidente, identici a quelli
romani adottati da Mussolini per il suo partito, e che da sempre sono simbolo
dell’eterno aforisma “L’unione fa la forza”. “Conservare l’Unione” fu tanto lo
scopo di Lincoln nella guerra civile 1861-65, quanto di Benito Mussolini dopo
il disastro della Grande Guerra 1915-18.
Cominciamo a capire il
perchè del fallimento dei due modelli che destarono più ammirazione negli anni
1920-1940: il salazariano e il mussoliniano. Evidenza della suddetta
ammirazione è un documento, poco o nulla conosciuto, pubblicato dal governo
irlandese nel 1943, dopo quattro anni di lavoro cominciati a marzo del 1939,
sei mesi prima dello scoppio della guerra. Si tratta di un volume di 539
pagine, allestito con l'intenzione dichiarata di estendere il sistema
corporativo all'Irlanda, e che dovrebbe essere lettura di rigore da parte di
chi si interessa all'argomento. I modelli che vengono analizzati per primi sono
proprio i sopraddetti.
Il modello salazariano
consisteva di 25 corporazioni, con funzioni puramente economico-sociali ma non politiche. Messe su in tre
tappe, queste furono infine (1934) sottomesse a due gruppi governanti: un
Consiglio e una Camera per le Corporazioni. Lo Stato rispettava la loro
autonomia, ma non ne tollerava intromissioni in politica (ricordiamo che il
Portogallo aveva avuto l'esperienza traumatica di ben 16 rivoluzioni armate in
altrettanti anni (1910-26), e che Salazar era riuscito a bilanciare i conti
dello Stato e a risanare l'economia a dispetto della recessione mondiale).
Il modello mussoliniano
consisteva di 22 corporazioni, ma con funzione dichiaratamente politica e con
mutua intromissione non solo dello Stato, ma anche del PNF che piantava
rappresentanti in ciascuna di esse.
Anche in Italia le
corporazioni furono implementate in tre tappe, l'ultima delle quali nel 1939,
troppo tardi dunque per saggiarne il successo.
La fine della guerra mise
fine all'esperimento, che sarebbe però fallito lo stesso senza guerra. Oggi se
ne possono vedere i perchè.
1.
I due nacquero dall'alto e non dal
basso.
2.
I numeri sparuti di 25 e 22 non
potevano rappresentare allora, né potrebbero oggi, le forze vive del lavoro di tutto
un paese.
3.
L'assenza di azione politica
corporativa in Portogallo fu tanto nociva quanto l'intreccio politico italiano:
furono praticati proprio i due estremi da evitare.
4.
Nel sistema italiano vi fu di
peggio: l'intromissione partitocratica. E' chiaro che se Corporazione e Partito
sono istituzioni antitetiche, l'imporne le nozze non poteva che essere
esiziale, e così fu.
5.
In Irlanda i partiti giudicarono la
proposta ostile ai propri interessi, e nel 1943 erano abbastanza forti da
stroncarla sul nascere.
Ma le esperienze appena
accennate dovrebbero essere salutari lezioni da imparare, non pie memorie
storiche da lamentare e meno ancora da buttare nel dimenticatoio.
Sarebbe possibile attuare una
riforma di tale portata senza violenza, rapidamente ed efficacemente? Mi si
corregga se sbaglio. Ecco una proposta.
Restauro
L’articolo 49 della Costituzione della Repubblica recita:
“Tutti i
cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con
metodo democratico a determinare la politica nazionale.”
L’art. 49 non specifica il termine “partiti” con
aggettivi qualificativi, per cui nulla osta a che si formino partiti rappresentanti le forze lavoro della
nazione. Si avallerebbe così l’Art. 1 della Costituzione, che non più in
vano reciterebbe: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.”
A livello professionale questa base esiste già sotto il
nome di Ordini Professionali: Medici, Giuristi, Notai, Architetti, ecc. che
hanno conservato i principi della corporazione medievale. Vanno aggiunte a
queste le categorie agricole, manufatturiere e commercianti per completare la
gamma delle forze lavoro. La spinta proverrebbe così dal basso, garantendo il 100% di rappresentanza.
Non sarebbe necessario fare tutto d’un colpo. Chi si
organizza prima, si presenta prima, ma non senza aver sollecitato e assicurato
un numero sufficiente di voti per mezzo di riunioni informative private dirette
ad educare sulla natura e opportunità della rappresentazione politica corporativa
diretta. Così interessi agricoli voterebbero
per il partito agricolo, interessi manufatturieri per il partito industriale,
ecc. Quanti partiti si formerebbero è difficile dire, ma l’importante è che la totalità delle forze lavoro sia
rappresentata in Parlamento.
Fatto questo ci si presenterebbe alle elezioni. I
rappresentanti, votati secondo lo schema esistente, otterranno i seggi
corrispondenti. Alla prima elezione vi sarà competizione tra i vecchi partiti e
i nuovi, molti dei quali sostituiranno quelli vecchi al conteggio. Alcuni
vecchi partiti sparirebbero, come sono spariti alle amministrative del 2012.
Una volta in Parlamento, i rappresentanti delle forze
lavoro asssumerebbero un comportamento antitetico rispetto ai partiti
convenzionali, disdegnando privilegi ingiusti oggi a spese del contribuente,
per godere di quelli, giusti, elargiti loro dai loro rappresentati, come convenuto in sede di riunioni
informative. Non ci vorrebbe molto prima che i voti degli elementi esitanti andassero
ai partiti di rappresentazione, finendo con lo spazzar via quelli parassitari.
Le corporazioni in Parlamento comincerebbero il loro
mandato abrogando le leggi ingiuste accumulatesi per decenni, fino a un
repulisti che restituisca al paese una sembianza di legalità a servizio della
giustizia e del bene comune e non di interessi privati. E una volta spariti i
partiti storici, non vi sarebbe più bisogno di sessioni parlamentari se non
quando lo richiedesse il bene comune.
Dal lato positivo, i rappresentanti obbligherebbero il
governo a riappropriarsi delle sue funzioni inalienabili, in primis quella monetaria stoltamente ceduta ad interessi
finanziari in chiaro contrasto con quelli popolari. Una saggia riforma
monetaria, spiegata nei dettagli altrove, renderebbe il ricorso al debito del
tutto innecessario.
E i sindacati? Con le forze lavoro non solo rappresentate
al 100%, ma anche con pieni poteri di controllo sull’Esecutivo, il sindacalismo
perderebbe ogni raison d’être, e i perditempo
si darebbero da fare per guadagnarsi il pane produttivamente.
Potrei continuare, e a lungo, ma mi fermo, non senza però
fare un inciso sulla presenza deleteria dei partiti convenzionali nei municipi,
dove non hanno fatto altro che impedire il buon governo delle amministrazioni
comunali. Un sindaco eletto dalle forze lavoro locali và eletto a vita (o a
rinunzia volontaria), stando a lui scegliersi i consiglieri dalle stesse forze in
funzione del bene comune.
Mi si corregga se sbaglio, ma la cosa sembra fattibile hic et nunc, salvo l’intervallo di tempo
necessario per la messa in pratica. Segue una breve lista di ulteriori
vantaggi.
Pros senza Cons
Differenze etnico-tribali, che
piagano anche l’Italia oltre che i paesi cosiddetti in via di sviluppo,
verrebbero non eliminate (non si eliminano le macchie di un leopardo con un
detergente), ma rese innocue da interessi lavorativi comuni.
Non dovrebbe essere funzione del
Parlamento legislare, per la semplice ragione che chi lavora non sa di legge,
ma vuole buone leggi che garantiscano la giustizia. Il sistema partitocratico
invece, già ai tempi di Belloc
“permetteva leggi di poco conto,
intensamente provocanti e impopolari, e perciò causa di intenso e crescente
attrito tra i vari strati della società"[14].
E se ciò era vero nell’Inghilterra
di un secolo fa, in Italia la partitocrazia ha perduto ogni rapporto con la
base, sviluppando un sistema parassitario che fa comodo a una caterva di
“signorotti (spesso mediocri,
politicamente e moralmente), con i suoi vassalli, valvassori e militi, con i
suoi servi, con i suoi privilegi e benefici, con le sue corvées, consentendo ai
padroni dello Stato di edificare enormi fortune sottraendosi a una autorità
superiore.”[15]
In parlamento andrebbero
uomini (e donne) consci di cosa vuol dire produrre ricchezza, che difficilmente
confonderebbero con il denaro. E lo Stato la finirebbe di fare,come diceva
H.L.Mencken (1880-1956)
Tangentopoli non sparirebbe (gli effetti del pomus noxialis saranno
sempre tra noi), ma si ridurrebbe alquanto, dato che nessuna corporazione
potrebbe mai detenere il potere detenuto oggi da un partito.
La politica acquisterebbe il carattere che dovrebbe avere, cioè di servizio,
e non di arrivismo o peggio. I deputati sarebbero uomini e donne già giubilati,
cioè gente che avesse accumulato, durante una vita di lavoro, quella sapienza e
quelle virtù che teste giovani e calde in generale non hanno. E per di più,
pagati dalla corporazione e non dal denaro pubblico.
La democrazia passerebbe dall'essere considerata come il summum bonum
al di fuori del quale non vi è che pianto e stridore di denti, ad essere un
controllo della autorità da parte dei cittadini. L’autorità eserciterebbe la potestas
con il consenso (ragionato, perchè organico) dei secondi. Un tale controllo
potrebbe coesistere con qualsivoglia forma di governo: monarchica,
aristocratica o stricto sensu democratica, d'accordo con l'indole della
nazione.
Diceva Victor Hugo che
nulla può fermare un'idea il cui tempo è maturo. Sarà questo il caso per un sistema corporativo? Chi vivrà vedrà.
Silvano Borruso
25 maggio 2012
[5]My Autobiography, Hutchinson & Co., Londra 1928 p.73. Ho ritradotto dall'inglese in mancanza del testo
originale.
[6]La Grua, La Democrazia Corporativa,
Misuraca Ed. 1976 p. 37
[7] + 2005. Specialista in questioni sociali, tra le quali il sistema
corporativo.
[8]Op. cit., edizione in inglese ciclostilata fuori
stampa.
[9]Millenaria non solo nella Cristianità, ma anche nell’antica Cina, il che
mostra che codesta istituzione non appartenga ad una data cultura, ma alla
natura sociale umana.
[11]Atti degli Apostoli cap. 23.
[12] Ne venivano esclusi anche i giudei, che si dedicarono alla manipolazione
della moneta e al commercio di materiale non prodotto dalle corporazioni.
[15] La
Grua, op.cit p.54
[16]Citato in American Opinion Novembre 1984