sabato 22 agosto 2015

LAVORO NERO = LAVORO VERO di Silvano Borruso

LAVORO NERO = LAVORO VERO
Alla ricerca di significati
Incredibile per quanto sembri, non tutti i dizionari di economia definiscono il lavoro.[1] Uno di essi[2] lo fa così:
Fattore della produzione (v.) che include l’insieme delle attività umane, fisiche o intellettuali, volte alla produzione di beni o servizi che, in quanto tale, può essere considerato un bene con un proprio valore e quindi con un prezzo, rappresentato dal salario (v.). Il meccanismo di funzionamento del mercato del lavoro (v.) […] è influenzato da numerose componenti economiche, politiche e sociali: ne discende che la legge della domanda e dell’offerta assume una rilevanza proporzionalmente minore rispetto ad altri mercati. 
Vale la pena appianare le grinze, di commissione e di omissione, di codesta definizione per rendere la questione più intelligibile e pertanto solvibile.
Cominciamo con “produzione di beni o servizi”. La frase può voler dire che a) beni e servizi sono produzioni diverse, o che b) sono la stessa cosa.[3] Disambiguiamola ricorrendo a Frédéric Bastiat (1801-1850): un servizio può o essere offerto da persona a persona, oppure incorporato in un oggetto ora detto “bene”. Questo ragionamento non fa una grinza, per cui  non esito ad adottarlo: la distinzione bene/servizio è innecessaria.
Continua il nostro dizionario asserendo che “(il lavoro) in quanto tale può essere considerato un bene con un proprio valore e quindi con un prezzo”.
Qui casca l’asino, e non una ma ben tre volte. Analizziamo:
·         Se il lavoro fosse un bene dovrebbe essere un oggetto. Invece rimane “l’insieme delle attività umane, fisiche o intellettuali, volte alla produzione di beni o servizi”.
·         “con un proprio valore e quindi con un prezzo”. Ammoniva Antonio Machado (1875-1939): Todo necio siempre confunde el valor con el precio.[4] Un camiciaio che confeziona una camicia per uso personale, lo fa perché valora l’indumento.  Ma a che prezzo? A quello del tempo che gli ci vuole per confezionarlo: il prezzo corrisponde al lavoro. Finanziariamente, come richiesto dalla definizione, non c’è prezzo. Il “quindi” della definizione è ridondante.
·         Il lavoro domestico, non apprezzato come lavoro ma disprezzato, vilipendiato o peggio dalla teoria e pratica femministe, non viene retribuito con un salario, che le poche donne eroiche che ancora lo espletano meriterebbero in stretta giustizia. Il “quindi” non è ora tanto ridondante quanto truffaldino e quindi perverso.
Continuiamo e finiamo: “la legge della domanda e dell’offerta assume una rilevanza proporzionalmente minore” dovrebbe veritieramente dire: “nulla”. Perché domanda e offerta siano “legge” dovrebbero confrontarsi in condizioni uguali. Ma come faceva notare Silvio Gesell 100 anni fa, la prima, sostenuta da un mezzo di pagamento indeperibile,  ha sempre un indebito vantaggio sulla seconda, sostenuta dai capricci della natura, la moda, la truffa, le tarme,  e chi più ne ha più ne metta. La domanda può aspettare, l’offerta no. Lo sbilancio genera l’usura, tabù che il nostro dizionario si guarda bene dall’elencare, ed a fortiori definire.
Ce n’è abbastanza per squalificare codesti tentativi lessicali sostituendoli con una definizione di lavoro secondo natura, tanto delle cose quanto umana. Per esempio:
Il lavoro è la sommatoria di atti umani che trasformano il medio ambiente producendo una doppia perfezione: nelle cose, detta ricchezza, e nelle persone, detta virtù.
La ricchezza l’abbiamo definita come servizi, o da persona a persona o incorporati in oggetti detti “beni”.
L’economia ufficiale fa caso omesso delle virtù, ma è bene ricordare che chi lavora ne sviluppa di personali come prudenza, fortezza e temperanza. È paziente, perseverante, decide oculatamente, si sottomette a un orario, ecc. E ne sviluppa di sociali attorno alla giustizia: mantiene la parola data, chiede il giusto prezzo per le sue prestazioni, eccetera. Perché gli atti siano “umani” devono essere a) liberi, e b) responsabili.
“L’Italia –recita l’articolo 1 della Costituzione- è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. Se così fosse, tutti gli Italiani lavorebbero liberamente e responsabilmente; non ci vuole molto ad accorgersi che così non è.
La confusione rampante tra Governo e Stato (che esula da questo articolo il districare) permette a quest’ultimo di usurpare le prerogative del primo, confondendo governare con controllare, e usando chi lavora come bersaglio preferito di tale controllo. Se ne era accorto già Proudhon 170 anni fa. Il suo être gouverné è un classico di pensiero economico-politico:
Essere governati vuol dire essere sorvegliati, ispezionati, spiati, diretti, legislati, regolati, etichettati, indottrinati, predicati, controllati, assessorati, pesati, censurati, comandati, da uomini che non hanno né il diritto di farlo, né la conoscenza, né l’autorità morale.
Essere governati vuol dire, ad ogni operazione, transazione e movimento, essere notati, registrati, controllati, tassati, bollati, misurati, valutati, assessorati, brevettati, autorizzati, approvati, ammoniti, ostacolati, riformati, rimproverati, arrestati.
E sotto pretesto dell’interesse generale, si viene tassati, esercitati, sequestrati, sfruttati, monopolizzati, estorti, ingannati, derubati.
Alla minima resistenza, poi, alle prime lagnanze, si viene repressi, multati, maltrattati, infastiditi, pedinati, costretti, picchiati, disarmati, strangolati, imprigionati, mitragliati, giudicati, condannati, deportati, spellati, venduti, traditi e in fine scherniti, beffati, insultati, disonorati.
Ecco cos’è il governo e la sua moralità!
Da allora le cose vanno di male in peggio, per cui la conclusione si impone da sé: l’unica maniera di lavorare secondo natura è farlo alla larga di tutti quei controlli, cioè in nero. E non solo in l’Italia. La storia che segue fa al caso.
Un giorno che la pioggia aveva impedito lo svolgersi delle attività ufficiali, un maestro di scuola secondaria in California sviò la discussione verso temi di attualità.
Una domanda circa il matrimonio di omosessuali condusse al tema delle licenze matrimoniali: chi le emette, a che servono, se e che cosa si guadagna possedendone una. Il maestro fece notare che a meno di registrarlo, un matrimonio non esiste ufficialmente, anche se è avvenuta una cerimonia. Da qui sorsero domande sul perchè lo Stato regola i matrimoni.
Dopo una breve spiegazione una studentessa, evidentemente turbata, sbottò: “Chi è questa gente per impedire ad altri di contrarre matrimonio? Una legge dovrebbe proibirlo!”
Il maestro decise di far la parte dell’avvocato del diavolo, e rimbeccò: “Non sono d’accordo. La soluzione non è un’altra legge; le troppe leggi sono il problema”.
A questo punto le domande seguirono a raffiche. Il maestro spiegò che il 99% delle leggi sono negative, nel senso che tolgono via libertà sotto forma di registrazione, certificazione, licenza, parcella, limitazione o diretta proibizione, e minacciando pesanti multe per non ottemperanza. Tutte sottraggono libertà dovute con tasse camuffate da leggi.
Dopo aver risposto alle domande, il maestro disse: “A scuola avete imparato che viviamo in un paese libero; che ognuno è libero di andare e venire dove e come gli pare, in cerca di vita, libertà e felicità. Se così fosse, ognuno di voi dovrebbe facilmente produrre il nome di una persona che vive libera da interferenza altrui, sia di altre persone che di organizzazioni, di leggi, e dello Stato.”
Seguì un silenzio assoluto, poi una ragazza strillò: “Uncle Mike!” Tutti gli sguardi si volsero in quella direzione. La ragazza disse che Uncle Mike aveva cominciato come cacciatore di morosi alle leggi. Mormorio di approvazione. Alla rivelazione che Uncle Mike aveva lavorato per la Mafia seguì un urlo di assenso. Uncle Mike non obbediva le leggi; semplicemente le ignorava e si faceva i casi suoi. La classe adesso applaudiva in piedi. Tutti volevano conoscere Uncle Mike.
Il maestro chiese se Uncle Mike pagasse la tassa sul reddito. E lei: no. Se guidasse l’auto. No. La classe non poteva credere ai loro occhi. Il maestro chiese come Uncle Mike si guadagnava la vita: faceva l’impresario indipendente con una varietà di lavori, e sempre in contanti. La classe rimase sbalordita, ma interessatissima.
Il maestro dovette convenire che Uncle Mike era sì un uomo libero, ma ad un prezzo, giacché la libertà non è mai gratis: va trovata senza aspettare che essa ti cerchi, il che non fa. Lo zio era un fuorilegge. Aveva rinunciato alla patente di guida. Operava in contanti per non pagare la tassa sul reddito. E rifuggiva ogni sussidio da parte dello Stato rendendosene invisibile, il tutto a cambio della libertà. E tutti: ben fatto.
Il maestro concluse: “Perché nessuno di voi ha fatto il suo quando ho chiesto il nome di una persona libera?” E tutti all’unisono, “perchè non lo siamo.”
Il Problema dei problemi: i Cani in Mangiatoia
La modernità ha costruito un’altra definizione di lavoro, che poco ha a che vedere con quella ventilata sopra.
Il lavoro è un contratto di dipendenza tra un individuo e un’azienda pubblica o privata, dove chi lavora occupa un posto retribuito con un salario.
Ho messo in neretto i punti essenziali. Ho tralasciato la produzione di ricchezza apposta, giacché nel paradigma statale questa è irrilevante. “Lavora” chi ha il posto fisso. O fa il precario: con un salario, ma senza posto fisso.
Il criterio secondo cui giudicare l’importanza  di un lavoro, nel paradigma statale, non può essere altro che l’ammontare della retribuzione. L’America lo fa da un pezzo: Tal dei Tali vale… tot. E l’Italia si adegua, come ha sempre fatto.
Nel paradigma naturale, invece, la scala di valori è tutt’altra. Il criterio ultimo è: cosa succederebbe se quel lavoro sparisse? Vediamolo.
Senza la maternità, produttrice e prima educatrice di capitale umano, qualsiasi società sarebbe destinata alla sparizione a corto termine. Non c’è dubbio quindi che questo lavoro dovrebbe occupare il primo posto in qualunque classifica. Ma siccome la “legge” della domanda e offerta regola i prezzi, quella metà della popolazione che deve (senza sostituzione) svolgerla non si qualifica per una retribuzione monetaria.
Il servizio domestico veniva una volta considerato come apprendistato materno: la ragazza che andava a servire (nel senso più nobile del termine) in una famiglia, specialmente se numerosa, apprendeva allo stesso tempo come gestire un giorno il suo focolare, con le abilità apprese a servizio. Lo Stato moderno, volendo “proteggere” quella categoria di persone, ha in effetti decretato l’estinzione del secondo lavoro socialmente più importante.
L’istruzione elementare completa il quadro al terzo posto. La produzione e formazione di capitale umano dovrebbero capeggiare qualunque elenco di valori lavorativi: non lo fanno perché il denaro, invece di servire l’economia, se ne serve, capovolgendo le priorità. 
Cibo, indumentaria e tetto sono sempre stati, e continuano ad essere, le forme di ricchezza essenziali per vivere. Ne segue che agricoltura, abbigliamento e costruzione sono le attività economiche sine quibus non per un popolo insediato in un dato territorio.
Tutto il resto di “posti” di lavoro con tanto di scrivanie sterminate, stipendi da capogiro e lussi dalla moquette al SUV, in realtà parassitano i sei che nella natura delle cose capeggiano.
Qui viene il problema ventilato nel titolo di questa sezione: gli occupanti di codesti posti non producono servizi acquistabili volontariamente sul mercato. Lo Stato deve tassare e tartassare chi produce ricchezza per estorcer da loro gli stipendi dei parassiti.
C’è di peggio: se costoro si limitassero a non lavorare, li si potrebbe anche tollerare e/o compiangere. Ma succede che costoro vengono impiegati, e addestrati, per impedire agli altri di lavorare liberamente e responsabilmente. Una vera pletora di leggi incomprensibili, contraddittorie, inutili quando non dannose dà loro poteri altrettanto incomprensibili, contraddittori, eccetera su chi vuole e può lavorare, e che deve per forza ricorrere al lavoro nero per sopravvivere. Solo il lavoro nero protegge dal morso dei cani in mangiatoia, che né lavorano né lasciano lavorare.
Ciò non avviene da ieri. Nel 1927 due zie mie, zitelle entrambe, aprirono una copisteria (“Minerva” la chiamarono, in onore alla dea della sapienza) a due passi dall’Università di Palermo. Per 43 anni si guadagnarono la vita battendo a macchina tesi di laurea, cause legali civili e penali, e altro. Ma fino ai tardi anni Quaranta, dopo la fine della guerra, la “Minerva” dava lavoro a otto apprendiste, che sparirono negli anni Cinquanta lasciando disattese altrettante macchine da scrivere. Volendo “proteggerle” non si capisce bene da chi o da cosa, lo Stato aveva pompato il pallone di leggi e leggine, costringendo le zie a sbarazzarsi di un apprendistato socialmente utile ma fiscalmente rovinoso, e oggi democraticamente demonizzato come “lavoro nero”.
Chi tenta di esaminare la legislazione italiana sul lavoro, entra in un labirinto dal quale a malapena uscirà. Per capire, ecco l’articolo 41 della Costituzione, che recita:
L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. 
Se una iniziativa privata non può fare tutte quelle cose (e la lista è lunga), la verità è che non è libera:, i padri costituenti o si ingannavano o intendevano ingannare.
Ma sorvoliamo, e chiediamoci chi e quanti sono coloro che “determinano programmi e controlli opportuni” nonché chi e quanti definiscono i “fini sociali” verso i quali indirizzare i detti programmi e controlli.
La risposta è: i 3,5 milioni di burocrati di Stato, che percepiscono lauti stipendi per fare ciò che Proudhon denunciava 170 anni fa. Secondo il paradigma statale costoro “lavorano”; secondo quello naturale non fanno che riscaldare sedili senza produrre né ricchezza né virtù. E non rispondono del loro operato a nessuno, camuffando la burocrazia da democrazia.
Maturità
È il nome dell’esame che marca il salto dalla scuola secondaria all’istruzione superiore. Senza naturalmente definire il termine, cosa ritenuta inutile da una scuola fatta per rincretinire invece che per far pensare.
Possedere un’accozzaglia di nozioni essenzialmente inutili non è maturità. È maturo chi si accolla doveri, siano essi domestici, sociali, militari o altro. Fu maturità quella dell’ingegnere chimico Andreas Angel quando un operaio dipendente lo avvertì con un agghiacciante “Sir, there’s a fire in the basement”. Erano le 18 del 19 gennaio 1917, a Silvertown, Londra, in una raffineria di trinitrotoluene dissennatamente costruita in zona abitata. Angel diede ordini tassativi ai vigili del fuoco di impedire alle fiamme il valico di una soglia oltre la quale erano immagazzinate ben 50 tonnellate di tritolo, e avvertì la polizia di far evacuare la zona. Poteva tornarsene a casa, ma il senso del dovere lo inchiodò accanto agli uomini della squadra anti-incendio. Alle 18:52 un immane boato fece tremare la terra, e di Angel rimase solo una mano identificata come sua.
Fu maturità quella di Gianna Beretta Molla quando la sua perizia di medico le disse il rischio che correva se avesse deciso di far nascere il bebé che portava in grembo. Lo fece nascere, a cambio della sua vita. Più lietamente, cosa se non una maturità adulta ha fatto decidere Rita e Aurelio Anania di Catanzaro di mettere al mondo 16 figli?
Per chiudere, Giovannino Bosco venne spinto verso la maturità di futuro educatore e santo canonizzato da mamma Margherita, nel mettergli in mano un coltello e un fastello di steli di canapa da decorticare. Aveva quattro anni.
Sto spezzando una lancia a favore del lavoro minorile, demonizzato dagli accalappiacani approvvigionatori di menzogne di Stato? Proprio così. Non invece di, ma insieme a mandarli a scuola. Scuola al mattino, lavoro al pomeriggio; e viceversa per un secondo turno, così impiegando gli edifici scolastici non solo a tempo pieno ma anche più efficacemente.
Non ci vuole molto ad accorgersi che niente come il lavoro fa maturare. Adolescenti maturi (non è un ossimoro) sono perfettamente in grado di vincere la “guerra contro la droga” dicendo allo spacciatore: “Grazie, so cos’è. Vai altrove.”  Invece li si imprigiona in quelle galere[5] a tempo parziale che ne fanno zombi ambulanti e ululanti, in cerca continua e compulsiva di “intrattenimento” che lungi dal rilassarli li spinge verso limiti sempre più spinti di morte vivente.
Il lavoro minorile libero –e responsabile- è “proibito per legge”. Mamma Margherita oggi rischierebbe l’arresto a fare quello che era normalissimo 200 anni fa. E lo Stato “sovrano” e liberticida ha messo fuori legge l’apprendistato, il solo metodo con cui si imparano abilità di tutti i tipi ma che la “scuola d’obbligo” non è affatto in grado di provvedere[6].
La soluzione è ovvia ma ardua: apprendistato in nero, concordato tra le parti contraenti e reso invisibile ai mirmidoni di Leviathan. Come, lo lascio all’immaginazione degli Italiani, da sempre maestri dell’arrangiarsi.
Ma la scuola d’obbligo è “obbligatoria e gratuita!” Facciamo i conti in tasca a Leviathan. I genitori di chi va a detta scuola non pagano rette scolastiche, ma sborsano tasse per tutta una vita lavorativa per gli stipendi del personale che ferve nel pentolone della pubblica istruzione, sia che abbiano figli a scuola o no. Con Internet non è difficile fare i conti. Non mi sorprenderebbe se chi legge “scuola gratuita” si senta venire la voglia di malmenare (come minimo) una mezza dozzina di redattori di programmi scolastici.
Il fenomeno Homeschooling, rigoglioso dall’altro lato dell’Atlantico ma che da poco muove i primi passi in Italia, non è che istruzione in nero, fuori dal controllo statale, e la cui forza dirompente non tarderà molto ad imporsi. Negli USA i suoi utenti sono schizzati da 1,09 milioni nel 2003 a 1,77 milioni nel 2012, un incremento del 65%.
Lavoro Nero alla Riscossa
In Italia il lavoro naturale è in ginocchio, danneggiato e beffato, ma non morto. Così come affiorava negli anni bui dell’Unione Sovietica, dove i piccoli poderi sfuggiti alla collettivizzazione producevano in nero derrate in quantità e qualità di gran lunga superiori a quelle dei kolkhoz di Stato, i barlumi di libertà che ancora esistono sono in grado di avviare un cambio. Vediamo come.
L’inganno è stato reso possibile da una doppia, ma malposta, fiducia di chi lavora verso i poteri statali e bancari, presi per benevoli quando in realtà sono malevoli da tempo. Codesta fiducia si è andata volatilizzando particolarmente a partire dal 2008: sempre più gente capisce come funziona la Combutta. Non capisce però il potere politico che ha in mano proprio con il lavoro nero. L’ultima parte di questo saggio si propone di evidenziarlo.
I fattori di disordine più poderosi continuano ad essere a) un’emissione monetaria sbilanciata e b) una tassazione ingiusta. Pochi le capiscono entrambe. Procediamo con ordine.
Una emissione monetaria ideale farebbe coincidere il 100% della ricchezza scambiabile con la quantità di mezzo di scambio emesso moltiplicata per la velocità di circolazione. Uno scambio di 120 miliardi[7] annuali, per esempio, verrebbe soddisfatto da 120 milioni di unità monetarie forzate a circolare 1000 volte (tre al giorno) in un anno. Si tratterebbe di una somma irrisoria di due unità a testa per i 60 milioni di Italiani.
Ciò non avviene per i seguenti motivi:
·         Tutto lo scambio avverrebbe in contanti, cosicché il cosiddetto “credito” bancario perderebbe ogni ragione di esistere. È evidente che le banche, che stanno facendo una guerra senza quartiere proprio al contante, si opporrebbero a una soluzione del genere unguis et morsibus. Ecco perché hanno cominciato ad imporre allo Stato di rifiutare contante negli uffici pubblici.
·         Una legislazione implacabile, imposta allo Stato dagli stessi poteri, assegna il 95% e passa di transazioni al cosiddetto “credito”, in realtà  un incantesimo che conferisce potere d’acquisto a pochi impulsi elettronici dalla tastiera di un computer a un registro. La stessa legislazione restringe le libertà personali imponendo agli operatori economici di aprire conti correnti, sotto pene e multe per non ottemperanza.
·         Poi li incastra con la f 24, minacciandoli con doppio pagamento in caso di errore di redazione.
·         E ora non solo limita i pagamenti in contante a somme non superiori ai 999 euro, ma obbliga a registrare tutti i prelievi bancomat, così da controllare, confiscare, ecc.
·         Il pubblico, digiuno di nozioni monetarie, di storia, di economia, ma irretito dalla crematistica, cioè dalla falsa nozione che essere ricco = avere molto denaro, prende tutto il suddetto disordine per scontato, e si sottomette a un’assurdità dopo l’altra senza rendersi conto che il lavoro cosiddetto nero, se imposto alla Combutta a furor di popolo, cambierebbe la situazione drammaticamente.
·         Ma non automaticamente. Bisognerebbe prima restaurare, almeno in parte, una solidarietà distrutta più di 200 anni fa da Turgot, Allarde e Chapelier in Francia, parzialmente recuperata dall’azione sindacale degli ultimi 100 anni, e oggi latente ma non funzionante. Continuiamo:
Una tassazione giusta, cioè che dà a ciascuno il suo e a nessuno il non suo, dovrebbe colpire come imponibile non il valore aggiunto da chi lavora, ma quello sottratto alla giurisdizione governativa per uso di chi lavora e ha bisogno di terreno sotto i piedi per farlo.
L’unico imponibile che risponde a questa definizione è la rendita da ubicazione. Questa viene infatti prodotta non da chi vive e lavora su una certa area, ma da chi ci vive e lavora attorno. La rendita da lavoro appartiene a chi lavora; quella da ubicazione, prodotta da chi gli vive attorno, va a questi, a cominciare dalle produttrici ed educatrici di capitale umano oggi sfruttate e beffate da “legislatori” di vere leggi criminali.
Ciò non accade perchè i terratenenti, che da secoli legiferano facendo credere al popolo di “rappresentarlo”, si guardano bene dall’applicare giustizia (chi era costei?), trasferendo l’imponibile sui frutti del lavoro vero, che poi hanno l’ardire di bollare come nero.
Un’azione suggerita da recente per ridare potere al nero è rifiutare gli scontrini IVA, così lasciando potere d’acquisto nelle tasche dell’esercente. Si tratta di somme irrisorie paragonate all’evasione miliardaria da parte di banche, associazioni malavitose, partiti politici e pubblica amministrazione, che vanno denunciate fino a fare aprire gli occhi a tutta la popolazione.
Strategia e Tattiche
Chi produce ricchezza lavorando deve riappropriarsi del maltolto, che la Combutta non restituirà. Ma non potrà farlo senza prima abiurare la superstizione crematistica, facendo suoi tanto la definizione naturale di ricchezza quanto il contenuto del proverbio greco che recita “L’uomo saggio porta la sua ricchezza (abilità e virtù) dentro di sé”.
All’abiura è da aggiungere la conoscenza della Rivoluzione[8] come causa tanto dell’origine del monopolio statale del contante quanto della sua usurpazione bancaria e infine della sua eliminazione ad opera della combutta Stato-Banca oggi. L’unica via d’uscita è servirsi della varietà di mezzi di scambio non ufficiali (monete complementari, cambiali sociali) di cui l’ingegno umano è stato sempre prolifico, ma specialmente dal 1982 ad oggi. La Grecia sta dando l’esempio con più di 50 monete complementari che passano al largo dell’Euro permettendo alla gente di scambiarsi quello che produce, che è rimasto intatto. Ognuna delle 50 monete, intracomunitarie e non convertibili, serve una zona ristretta del territorio, e l’Euro continua come mezzo di scambio intercomunitario.
Prima della Rivoluzione vigevano molteplici mezzi di scambio: attorno a una unità astratta (tallero, luigi, zecchino, ecc.) e a un certo numero di pezzi più o meno aurei e argentei, circolavano méreaux di piombo e altri metalli vili, di vetro, cuoio ecc. in quantità sufficienti a soddisfare gli scambi dell’economia locale. Niente proibisce che il mondo del lavoro riscopra un tale meccanismo, auto-conferendosi così sovranità monetaria una volta per tutte.[9]
L’altro principio da ristabilire è la tassazione patteggiata, collettiva prima della Rivoluzione ma resa impossibile dalla medesima per mezzo dei malfamati decreti e legge dei citati Turgot, Allarde e Chapelier. Ecco perchè la società odierna è ridotta a una massa amorfa di individui soli e indifesi davanti al Potere.
Il recupero dell’unità di intenti e di interessi è conditio sine qua non perché ciò avvenga. I mirmidoni di Leviathan potranno arrestare poche dozzine di individui isolati, non migliaia, o peggio decine di migliaia. Il mondo del lavoro nero, legittimato a furor di popolo come lavoro vero, condurrebbe Leviathan a più miti consigli, ritornando alla verità e quindi alla libertà naturali conferite da esso.
Silvano Borruso
22 agosto 2015







[1] L’autorevole Penguin Dictionary of Economics non definisce né “lavoro” né “mezzi di produzione”.
[2] Simonedizionari On Line. Non ho cercato oltre per non essere questo un saggio linguistico.
[3] L’autore avrebbe potuto disambiguarla con “beni e servizi” se intendeva a) e “beni (o servizi) se intendeva b). In un testo ciò non importerebbe molto, in un lessico è vitale.
[4] “Necio” vuol dire “stolto”. Il resto non ha bisogno di traduzione.
[5] L’epiteto è di Giovanni Papini, 1881-1956.
[6] La vera ragione è che gli artigiani indipendenti sono uomini liberi, e lo Stato sta tentando di toglierseli dai piedi come può.
[7] L’unità di misura è arbitraria.
[8] Senza oberarla di aggettivi come “Francese”,”Russa” et similia. Stato e Banca ne sono il braccio armato.
[9] Non al 100%, dovendo necessariamente acquistare prodotti da fuori della comunità. Ma per quelli prodotti dentro di essa, il principio vale che chi produce ricchezza può emettere il mezzo di scambio necessario per acquisirla.