Si fa un gran parlare del nuovo rallentamento dell’economia mondiale. Si dice
i dazi di Trump abbiano messo in difficoltà il gigante cinese. Si dice pure che,
però, lo stesso gigante cinese stesse già attraversando, di suo, un periodo di
difficoltà, determinato da una consistente diminuzione delle importazioni, e
perciò stesso del consumo interno, accompagnato da una altrettanto
consistente diminuzione delle esportazioni unita alla, più volte denunciata,
scarsa efficienza delle aziende statali.
All’ultimo G20 è stato lanciato in modo chiaro e perentorio, l’allarme sulla
attuale situazione della Cina, vista quale elemento di forte destabilizzazione e
rallentamento dell’economia mondiale. Ad aggravare l’intera situazione il
fatto che la Cina rappresenta, al pari della Germania e del Giappone, uno di
quei paesi la cui bilancia commerciale era sinora squilibrata tutta in direzione
delle esportazioni e che, al fine di un riequilibrio degli equilibri commerciali
globali, aveva dovuto incentivare il proprio mercato interno attraverso un
aumento delle importazioni. Ora i dazi promossi, oltrechè quelli prospettati,
dall’amministrazione Trump, altro non hanno fatto che mettere in risalto una
situazione preesistente.
Non sono chiaramente mancati i soliti e coccodrilleschi consigli FMI, tutti
imperniati su una fantomatica “armonizzazione” delle politiche monetarie,
basata su una certa asimmetria di queste, per cui i Paesi del Terzo Mondo
bene farebbero a svalutare le proprie divise, al fine di favorire le proprie
esportazioni, mentre gli occidentali (UE in particolare...) dovrebbero
procedere con più cautela, per non compromettere i propri delicati equilibri
geoeconomici. Il tutto all’insegna della cantilena demonizzatrice di qualunque
forma di protezionismo delle singole economie nazionali, vista dai “commis”
del FMI come il fumo negli occhi.
Consigli ed ammonimenti proferiti quasi a voler esorcizzare l’ultima levata di
scudi del Presidente Usa Trump, contro l’aumento del costo del denaro,
varato dalla Federal Reserve e foriero di non pochi problemi alla crescita
interna degli Usa. Un evento questo, che ha visto per la prima volta, forse, un
presidente Usa schierarsi in modo così aperto e duro contro un
provvedimento di una delle massime istituzioni finanziarie pubbliche
mondiali. Il che ci porta ad una riflessione, che travalica gli angusti tecnicismi
della macroeconomia.
La progressiva e sinora inarrestabile tendenza alla finanziarizzazione delle
economie di mezzo mondo, accompagnata da quella ad emettere
pervasivamente, urbi et orbi, senza limiti e confini, titoli a cui non
corrisponda un valore reale, contagiando le economie sane con la mania di
scommesse virtuali, foriere di ricorrenti e violente crisi economiche e
finanziarie, comincia a mostrare i propri limiti ed a trovare delle voci di
dissenso, anche nei piani alti della politica e del mondo dell’economia. Se,
inizialmente, questo dissenso, aveva preso corpo in singole individualità
legate al mondo della teoria economica ed in altrettanto singole individualità
politiche, spesso relegate ad un ruolo marginale e talvolta demonizzato, in
ambito internazionale, da un po’ di tempo a questa parte, le cose sembrano
aver preso una piega differente.
Un serpeggiante malcontento ha preso piede nelle più avanzate nazioni del
mondo industrializzato, Europa ed Usa in testa. Ingenerato questo, da
politiche neoliberiste incentrate su un mix di consistenti tagli alle spese
sociali, fiscalità oppressive, carovita e crescente disoccupazione,
accompagnate da una politica di incentivazione del fenomeno “migratorio”, al
fine di sostituire i ceti lavorativi delle singole nazioni, con una massa amorfa
di diseredati provenienti dalle aree più povere del Pianeta, dal costo
infinitamente minore e totalmente sfornite di quella attitudine alla
rivendicazione dei diritti inerenti alle condizioni del lavoro. Il tutto, non senza
l’aggiunta della sciagurata pratica della delocalizzazione che permette di
trasferire intere attività fuori dai propri confini nazionali, al fine di produrre
a costi molto più economici, grazie ad una mano d’opera a costo infinitamente
minore. Il tutto, a detrimento di quei ceti lavorativi che, ad oggi, rischiano di
trovarsi repentinamente privati dei propri posti di lavoro, senza poter nulla
dire o fare, se non constatare l’avvenuta chiusura dell’attività.
Tutto ciò, ha determinato un ragguardevole consenso di quelle che, ad oggi,
possono esser definite formazioni di tipo “populista”. Movimenti questi, sulla
cui natura, abbiamo già avuto modo di trattare più diffusamente ed
approfonditamente in altra sede. Ciò su cui, invece, ci preme appuntare
l’attenzione , è la modalità “trasversale” e “sovranazionale” in cui questo
scenario va prefigurandosi. Ed il contrasto tra il presidente Trump e certo
establishment finanziario Usa a conduzione “democrat” , ne è il segnale più
evidente. Il segnale di una guerra asimmetrica giuocata su più fronti e con più
sfaccettature , senza esclusione di colpi.
Se, da una parte, dal punto di vista formale, riguardo allo scacchiere
geostrategico, tra Usa e Federazione Russa sono andati acuendosi i contrasti
su alcuni nodi (questione Crimea, gestione dell’ “affaire” Siria, sanzioni
all’Iran, Cuba ed altre quisquilie ancora...) dall’altro sembra che, un
indelebile, ma solido filo ideologico leghi la figura di Trump a quella di
Vladimir Putin, ambedue animati da un atteggiamento di quiescenza, se non
addirittura, di malcelata simpatia verso gli esponenti più in vista della nuova
onda populista europea, alla Marine Le Pen o alla Salvini. Una sensazione
questa, di cui gli l’inchiesta della magistratura Usa sui presunti appoggi russi
alla campagna elettorale di Trump, sembra esser la cartina di tornasole.
Il che lascia prefigurare un trasversale asse ideologico che sembra
apparentare le varie anime del populismo europeo all’attuale
amministrazione Usa ed alla Russia di Putin, non senza l’inquietante
presenza del Brasile, passato dalla gestione progressista del trabalhista Lula,
al populismo di un Bolsonaro. A questo strano e confuso asse, a livello
geopolitico e geoeconomico, sembrano contrapporsi Cina, India ed alcune tra
le tigri del Sud Est asiatico , tendenzialmente fautrici di una globalizzazione
spinta. Lo stesso mondo arabo ed islamico si trova, ad ora, di fronte alla
difficile e quanto mai contrastante situazione di un generalizzato calo del
prezzo del petrolio, affiancato all’aumento di produzione di quello stesso
petrolio da parte degli Usa che, in tal modo, finirebbero con lo sminuire in
modo rilevante il ruolo geopolitico e geoeconomico di questi ultimi.
I recenti contrasti con l’Arabia Saudita in tema di diritti umani, a seguito del
sequestro e dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi, accompagnata da un
incremento della propaganda per i diritti umani in quel Paese, sono la
controprova di quanto esposto. Gli stessi contrasti con la Turchia di Erdogan,
sorti a partire dalla vicenda del tentato golpe del 2016, sino ad arrivare ai
dazi dell’agosto dell’anno appena trascorso sull’alluminio e sull’acciaio turchi,
sino ai contrasti sulla gestione del problema della presenza delle milizie
curde in Siria, contro gli integralisti di Daesh, sono una ulteriore
dimostrazione di quanto sin qui affermato. Una Globalizzazione “a gogò” ha
sinora giuocato tutta a favore di questi ultimi Paesi che ora, invece, con la
paventata politica trumpiana degli accordi bilaterali, potrebbe esser
seriamente messa in discussione.
Due fronti trasversali e sovranazionali contrapposti. Due modalità di
intendere le relazioni economiche e politiche, altrettanto contrapposte.
Sovranità contra Globalità. Delle due, quella Sovranista, sembra esser
l’istanza più confusa. Una nebula di posizioni spesso contrastanti, che vanno
dal nazionalismo di una Marine Le Pen, al conservatorismo di un Orban, al
bicefalo populismo del nostrano governo giallo-verde, al protezionismo di
Trump, sino al reazionario e confuso populismo del brasiliano Bolsonaro ed
oltre ancora, la galassia sovranista ed identitaria, è un disordinato affastellato
di posizioni ed istanze, spesso in contrasto tra loro. Identitarismo e
Sovranismo, in modo sia pur confuso ed incoerente, sembrano, oggi più che
mai, rappresentare la cartina di tornasole del fallimento del Liberismo, al
momento coniugato in salsa progressista, per indicarci l’inizio di una via
d’uscita da quella Torre di Babele Globalista all’interno della quale sono, ad
oggi, rinchiusi i nostri destini e nella quale, tuttora , ripongono le proprie
illusorie speranze il sistema mass mediatico e gran parte di un “embedded”
establishment politico ed economico mondiale.
Una guerra civile mondiale strisciante va, dunque, preannunciandosi. Una
lotta che, contrariamente alle istanze rappresentate dalle grandi narrazioni
ideologiche del19° e del 20° secolo, nasce inizialmente animata da
motivazioni puramente pragmatiche, ovverosia una consistente parte dei
rappresentanti della politica e dell’economia globali si sono, ad un certo
punto, resi conto dei limiti obiettivi del capitalismo Liberista, che ha mostrato
la propria natura di incontrollabile e destabilizzante volatilità ed hanno
deciso di porre dei freni ed apportare dei robusti e decisivi correttivi,
all’intero sistema.
Il tutto, non senza incontrare, però, dei decisivi contrasti al proprio interno,
incentrati proprio sulle modalità socio economiche di gestire il fenomeno
globale. Da una parte l’illimitata apertura di mercati e frontiere, all’insegna di
uno sfrenato liberismo, dall’altra più chiusura, più barriere, magari
all’insegna di un ritrovato e riadattato keynesismo (ed i provvedimenti del
nostrano governo sul redito di cittadinanza sembrano andar proprio in
questa direzione...sic!).
Lo stesso contemporaneo fenomeno populista e sovranista, se analizzato
nella sua totalità, è caratterizzato da una incipiente dose di “liquidità”: esso è
frutto di insicurezza, paure, risentimento e , come abbiamo già accennato,
non di ben definite istanze ideologiche. Un fenomeno “liquido” e perciò stesso
mutevole, volubile e contraddittorio in molte sue espressioni, non ancora
connotato di una sua precisa identità e che se, dovesse limitarsi ad un
semplice arrangiamento di prammatica, sotto la regia degli immarcescenti
Poteri Forti, rischierebbe di vanificare qualunque serio tentativo di apportare
un sostanziale mutamento e rovesciamento di prospettive, tale da intaccare
ed abbattere il Nuovo Ordine Mondiale.
Per questo, ora più che mai, è necessario spingere sull’acceleratore del
chiarimento ideologico, cercando di dare un’anima ed un’identità precisa e
coerente, almeno per quanto riguarda i due pilastri fondamentali di Identità e
Sovranità, nella loro più profonda accezione di recupero totale della
supremazia della Politica , in quanto Scienza dell’Individuo e della Comunità,
sul momento Tecno Economico, che ritornerebbe a ricoprire la funzione di
mero strumento, atto ad asservire i fini dell’Individuo e della Comunità e non
viceversa, come sinora abbiamo visto.
La qual cosa ci porterebbe sicuramente a perdere qualche compagno di
strada, forse animato da troppa incoerenza, confusione o malafede o, più
prosaicamente, da tutte e tre le cose assieme. Meglio procedere allora in
numero minore, ma con le idee chiare ed un preciso obiettivo, piuttosto che a
tentoni, all’interno di una confusa ed incoerente Armata Brancaleone. Ne va
dell’ultima possibilità che ci è rimasta, per affrancarci dalla dittatura del
Mostro Globale.
UMBERTO BIANCHI