giovedì 8 dicembre 2016

UN REQUIEM PER CUBA? IN MEMORIA DI UN DITTATORE SCOMODO

    Concordo in pieno con quanto scrive l'amico Umberto e colgo l'occasione per scrivere qualcosa in più. Intanto richiamo l'attenzione su quanto scritto dal grande scrittore politico ( ancora da valutare pienamente) Maurice Bardèche non solo su Castro ma anche su altri autori di RIVOLTE popolari contro il POTERE usuraio globalista. Per quanto mi riguarda mi limito ad alcune considerazioni. Castro non è mai stato né marxista né Comunista come volevano dipingerlo dopo le sue necessarie "pseudo alleanze con l'URSS"; era solo una persona che, forse, aveva fatto di necessità virtù seguendo per quanto possibile gli insegnamenti di Mussolini, che si era trovato nelle strettoie che noi conosciamo. Occorre inoltre ricordare che l'operazione MISSILI di Kruschev era palesemente concordata per far fare una bella figura internazionale a Kennedy, la cui amministrazione era assediata da Lorsignori ,quelli che, dopo il suo ennesimo tentativo di sbloccare l'economia USA e di riflesso mondiale, assediata dagli usurai, NON ESITERANNO A FARLO FUORI. INFINE VA TENUTO PRESENTE un certo tale, che si presentava come ex guardiadelcorpo di Fulgencio Batista, (il Cameriere degli USA a Cuba), avendo fatto la propaganda elettorale con lo slogan L'ULTIMA RAFFICA, si trovò eletto nelle file del MSI al Comune di Roma, ove, ovviamente, NULLA propose e nulla CONCLUSE. GV   


UN REQUIEM PER CUBA? IN MEMORIA DI UN DITTATORE SCOMODO
C’è un elemento che, di tutto il clamore mediatico sulla morte di Castro mi ha profondamente colpito: i media e gli organi ufficiali dell’isola caraibica , parlando della morte del Lider Maximo, hanno definito quella sua, una morte puramente “fisica”, lasciando intendere che lo spirito, il “genio” del leader avrebbe informato di sé la vita di Cuba per i tempi a venire. Certo, quella di Castro, non è solo la dipartita di un uomo, ma anche, e specialmente quella di uno stile. Invece, a detta di qualche povero imbecille, malato di un altrettanto trinariciuto e datato anticomunismo, il leader cubano rappresentava l’incarnazione del Male comunista incarnatosi in terra, l’apostasia vivente, un simbolo di sovversione da avversare e disprezzare con tutte le proprie forze. Quello di Castro fu, anzitutto, uno stile coniugato all’insegna dell’emergenza e della mobilitazione perenne. Sino a tarda età indossò l’olivastra divisa dei “barbudos”, quasi a voler sottolineare che la “sua” Rivoluzione non era e mai probabilmente sarebbe finita. La lotta contro l’imperialismo era ben di là dall’essersi conclusa. Volente o nolente, Fidel Castro ha assurto a simbolo-guida dell’emancipazione rivoluzionaria dei paesi del Terzo Mondo dall’oppressione dei paesi più ricchi e potenti dell’Occidente, in primis gli USA, con cui Cuba da sempre intrattiene uno strano rapporto di amore-odio, magnificamente sintetizzato dalle caraibiche vicissitudini di Ernest Hemingway. Uno iato di emancipazione non rivolto solamente, in modo tanto plateale ed aperto, nei confronti degli USA, ma anche, in modo più implicito, ma non per questo meno significativo, verso ogni altro imperialismo, attraverso l’assunzione della leadership politica e morale dei Paesi non Allineati. Questo, forse, a memoria ed in coerenza con un mai rinnegato passato di nazionalista, presto sostituito da una adesione a quel Socialismo Reale, per non più prorogabili cause di forza maggiore, determinate dalle pressioni USA, che vedevano con preoccupazione la politica di nazionalizzazioni del nuovo regime. Castro ha rappresentato il primo vero ed umiliante sganassone al trionfalismo USA ed alla sua arrogante politica del “cortile di casa” latino americano. Con la vicenda del Granma e dello sbarco clandestino sull’isola dominata dalla cricca di Fulgencio Batista, con una guerriglia condotta da pochi elementi e con grande povertà di mezzi, quella di Castro è stata l’apoteosi di una guerriglia insurrezionale, che avrebbe dato il “la” ad altre decine di episodi caratterizzati da una fortuna a fasi alterne, andando dalla tragica vicenda di Ernesto “Che” Guevara, a quella di Lumumba in Congo, sino alla vittoriosa guerra in Viet Nam, lasciando la propria traccia ideale nelle vicende della lotta di liberazione della Palestina di quegli anni, sino ad arrivare ad ispirare i moti del ’68 ed i successivi tentativi di lotta armata nelle varie nazioni del Primo Mondo, Italia in primis. Lo stile guerrigliero, la mobilitazione permanente, ma anche il carisma personale di Castro, faranno di Cuba un vero e proprio endemismo politico, in grado di coniugare Marxismo e Nazionalismo in una sintesi del tutto particolare e difficilmente ripetibile altrove. Certo, il modello marxista mostrerà tutti suoi limiti e le proprie storture, aggravati dalle pesanti sanzioni imposte dalla politica usurocratica statunitense ma, contrariamente a quanto accadrà in quasi tutti i paesi del Patto di Varsavia, a Cuba non si verificheranno mai sussulti e rivolte. Il dissenso sarà sempre limitato a poche, isolate individualità, per lo più legate all’ambito cattolico o, come nel caso dei cubani di Miami, a gruppi al servizio della Cia, il più delle volte collegati al malaffare ed al crimine organizzato, privi di qualunque seria e coerente progettualità politica, che non fosse un rozzo ed imbecille anticomunismo d’accatto. Come abbiamo già detto, se Castro farà della mobilitazione rivoluzionaria permanente, un vero e proprio stile di vita, ciò che ne animerà l’azione sarà uno spirito di irrazionale volontarismo, direttamente mutuato dalle narrazioni stirneriane e nicciane e che avrà i propri capostipiti nelle esperienze dei Totalitarismi della prima metà del Novecento e la propria prosecuzione ideale in tutti quelli, di “sinistra” o di “destra” che dir si voglia che, dalla seconda metà del Novecento avrebbero caratterizzato il proscenio di molti paesi del Terzo, ma anche quello di alcuni paesi del Primo Mondo. Qui, la personalità che si pone a capo di un movimento o partito rivoluzionario che dir si voglia, trova nel consenso totale delle masse, la riconferma di tale ruolo, via via investito di una valenza salvifica e quasi divina. Sotto questo profilo, sicuramente più “pragmatico”, le differenze ideologiche tra i Totalitarismi “laici” del Novecento, vanno assottigliandosi notevolmente. Sia il Marxismo, nella sue più concrete espressioni bolsceviche e maoiste, che il Fascismo, nelle sue molteplici varianti (a partire dal Nazionalsocialismo in poi), che tutte le varie forme di Socialismo eterodosso, a partire dal Peronismo, passando per il Nasserismo ed il Baathismo arabo, il Sandinismo, sino al Chavismo venezuelano, sono tutte accomunate dalla centralità del consenso di massa, accompagnato ad un’idea “etica” dello Stato che qui, contrariamente a quanto accade nelle democrazie liberali, è concepito quale protagonista attivo di primissimo piano, impegnato in un’opera di perenne rieducazione ed impostazione spirituale del cittadino, realizzata anche attraverso un massiccio intervento nell’economia. Di fronte a queste considerazioni, qualcuno potrebbe benissimo opporre osservazioni di ordine etico e morale, riguardanti cioè l’ambito dell’applicazione dei principi inerenti alle libertà individuali ed ai diritti umani che, in quasi tutte le esperienze totalitarie avrebbero, a detta di molti, subito notevoli limitazioni, arrivando, in alcuni casi, a vere e proprie pratiche genocidarie. Quanto commesso da Stati Uniti ed alleati, in tutto il mondo, negli ultimi sessant’anni, in nome della democrazia occidentale, dovrebbe, di per sé, già costituire un’eloquente e problematica risposta, accompagnata dalla considerazione su quanto relativa sia al giorno d’oggi, all’interno del mondo capitalista, l’idea di rispetto di quelle libertà individuali, troppo spesso limitate dall’invadenza di strumenti di condizionamento mediatico, economico e finanziario, sicuramente più rassicuranti e, talvolta, anche un tantino più discreti, ma non per questo meno insidiosi, anzi. A ben vedere, pertanto, l’errore di fondo che accomuna tutte le esperienze Totalitarie dell’ultimo secolo e le Democrazie Occidentali, risiede in quella insita tendenza a tutto voler uniformare ed omologare, al fine di procedere unitariamente al conseguimento di uno scopo, relegando la diversità ed il molteplice (che ne è il corollario logico) ad elementi secondari, dimentichi, invece, che proprio elementi come questi, costituiscono il fondamentale propellente spirituale per la crescita ed il perpetuamento di una civiltà che, proprio sul rispetto dell’Identità e della conseguente Sovranità, materiale e spirituale, dovrebbe fondarsi. Fermo restando quanto detto, permane, in chi scrive, l’istintiva simpatia per un modello quale quello castrista, nella fattispecie, molto più “verace” ed esplicito quanto ad intenzioni e modalità d’azione, piuttosto che per la prassi farisaica e finto buonista che caratterizza le attuali democrazie occidentali. Considerazioni sicuramente “scomode” queste, ma che non vogliono affatto eludere il fatto che, ahimè, molto probabilmente, abbiamo assistito non solo al funerale di uno tra i leader politici più controversi e, diciamolo pure, scomodi dell’ultimo secolo (tant’è che al suo funerale di leader e leaderini progressisti di fuori, praticamente non se ne son visti, sic!), ma anche, e principalmente, di un modo di concepire la politica. A chiusura del tutto, il contrasto tragico e stridente tra l’eroica rappresentazione di Fidel Castro e dei suoi Barbudos, assurti per sempre a simboli di quelle istanze di emancipazione e libertà che hanno attraversato l’intero Terzo Mondo ed oltre, a partire dalla figura di Simon Bolivar, e l’immagine rovesciata del fallimento politico ed umano di tali istanze, rappresentata dal lerciume e dalla miseria morale di chi, pagando fior di quattrini, a bordo di sudici barconi, fugge dal Terzo Mondo, per coronare con abitini firmati e cellulari, il proprio, piccolo, miserabile, sogno occidentale.                             
 
                                                UMBERTO BIANCHI