Inizi
Così esordisce Erodoto nel primo dei suoi nove libri:
Ecco le ricerche di Erodoto di Alicarnasso, che egli
pubblica sperando di preservare dall’oblio le memorie di umani eventi, e di
impedire che le grandi, prodigiose imprese di Greci e di Barbari perdano la
gloria loro dovuta; e allo stesso tempo lasciare un ricordo di quelle che
furono le cause delle loro ostilità.
Sembrerebbe un’introduzione come un’altra, eppure rivela al lettore attento, e solo a lui, il
tratto che fa della cultura ellenica un unicum
al mondo: l’amore per la verità.
Quel che spinse Erodoto a viaggiare, e a descrivere
popoli e luoghi “di Greci e di Barbari” fu una curiosità che non si incontra in
altre culture. Persiani, Cinesi e Orientali in generale, ragionano così: noi
siamo il centro, i migliori; i nostri vicini vengono secondi; i vicini dei
nostri vicini, terzi; e via dicendo.
Storicamente l’approccio etnocentrico ha portato al
rinchiudersi di una cultura in sè stessa, senza voglia non solo di scoprire
quello che possono offrire altre culture, ma anche di offrire quello che la
loro ha di suo. È di memoria relativamente recente la riluttanza di Cinesi e
Giapponesi verso la forzata “apertura” dei loro porti ad opera delle cannoniere
britanniche e statunitensi durante il secolo XIX.
Possedere la verità vuol dire esser liberi, ma niente
affatto sicuri. La storia di Socrate fa al caso.
Il capo di accusa era che Socrate corrompesse la gioventù
affermando che gli déi fossero del tutto irrilevanti. Atene, invece, li
considerava di suprema importanza per il mantenimento dell’ordine sociale.
Quale delle due parti aveva ragione?
La risposta, paradossale per quanto sembri, è che avevano
ragione tutte e due, ma per motivi diversi.
Atene, come ogni sistema di governo, era al tanto che
senza una sanzione superiore le leggi non hanno forza coercitiva. E queste
forze erano gli déi. Ma chi erano codesti déi?
Un’educazione piatta e deficiente non permette di far
luce su quello che fu l’Era delle Catastrofi, durata grosso modo dal XV al VII
secolo a.C. Le orbite dei pianeti, specialmente Venere e Marte, si avvicinavano
ogni tanto alla Terra. Quando a una certa distanza critica corrispondeva una
differenza di voltaggio anch’essa critica, scoccava un arco voltaico che
ionizzava tutto al suo passaggio, obliterando popolazioni e territori lungo un
arco di Grande Cerchio per diverse ore. I popoli, terrorizzati, si rifugiavano in
caverne, spesso artificiali, per uscirne a passaggio (e rovina) avvenuti. Ecco
l’origine dell’idea ciclica della storia.
I dettagli si possono consultare altrove.[1] Fermiamoci qui al fatto
che al tempo di Socrate la configurazione del Sistema Solare aveva raggiunto la
presente Era di Tranquillità da 300 anni, e che quindi l’antico terrore era
effettivamente cessato.
Aveva quindi ragione il vecchio filosofo di beffarsi
degli déi, ma senza niente da mettere al loro posto per garantire l’ordine
sociale ateniese. E dovette bere la cicuta.
La Cristianità
Che la rivelazione cristiana abbia avuto luogo nel punto
di incontro di tre continenti e non altrove, è un dato di fatto. L’incontro però
non fu solo geografico, ma anche di tre civilizzazioni, ognuna con le sue
caratteristiche.
Gerusalemme apportò il genio per la tradizione, la
storia, le genealogie; Atene quello per la verità, e Roma quello per la
giustizia e per l’esecuzione di opere importanti. Qui ci fermeremo alla verità.
La rivelazione cristiana, fondata su origini giudaiche,
mostra una linea ininterrotta di verità,
nel senso che tutto quello che insegna è riconducibile a realtà che esistono, siano esse spirituali che
materiali. È inutile, d’altro canto, chiedere a un indù se il dio Ganesha esiste: la questione l’interlocutore
non se la pone neanche.
Così la verità fece il suo ingresso nella direttrice
religiosa dell’umana esistenza. Vi sono sempre state tre maniere di
raggiungerla. Vediamole.
Si comincia dai sensi.
Quando diciamo che qualcosa è “ovvia” vogliamo dire che non c’è bisogno di
dimostrazione. I sensi non ingannano, a meno che non se ne vogliano pretendere
prestazioni indebite. Per esempio: il senso della visione percepisce forma e
colore. Se si pretende di percepire le dimensioni di un oggetto guardandolo, si
incappa in possibili errori di prospettiva, o di altro tipo. E così via.
Si prosegue per dimostrazione:
deduttiva, che partendo da principi generali arriva a conclusioni particolari,
o induttiva, se avviene l’opposto. Qui l’errore è di casa: basta sbagliare un
passo nel ragionamento per raggiungere conclusioni erronee, e possedere il
falso equivale a non conoscere.
E si finisce per fede:
accettare una proposizione sull’autorità di qualcuno che la afferma: genitori,
amici, maestri, libri, programmi televisivi, eccetera.
Non sarà nostro compito sviluppare tutto questo, ma solo
indicare un punto fermo: non esiste il
libero pensiero. Si è liberi di pensare o no, ma non lo si è affatto di
farlo a piacere. Arrivare alla verità comporta osservare regole e limiti sviluppati
dalla logica. Con ragionamenti a casaccio non ci si arriva.
Esistono anche vie mistiche per arrivare a certe verità,
ma hanno tutte lo stesso difetto: non sono comunicabili, e pertanto esulano dal
trattamento.
La Scolastica
La logica, vera ferramenta della conoscenza, raggiunse la
perfezione con Aristotele e il suo Organon
(Gk = ferramenta). La si applicò nelle scuole per la formazione dei
presbiteri, prima vescovili e poi cattedrali, nate e gestite per lo scopo.
E per mille anni logica, grammatica e retorica formarono
il Trivio, l’ossatura dell’istruzione nella Cristianità. Il Quadrivio:
aritmetica, geometria, musica ed astronomia facevano da fonte di informazioni
sulle quali applicare le ferramenta della conoscenza.
San Tommaso aveva ammonito:
Lo studio della filosofia non è fatto per conoscere
quello che pensano gli uomini, ma la verità delle cose.[2]
E aveva notato, al principio della Contra Gentes, che “è del sapiente ordinare”, cioè che l’ordine è la conditio
sine qua non della ricerca filosofica.
Non aveva proposto che codesti principio e metodo
dovessero essere applicati esclusivamente alla teologia, ma così avvenne. La
teologia, considerata -non a torto- come la regina dello scibile, rimase il
solo campo di applicazione della filosofia; il detto scolastico philosophia
ancilla theologiae impedì di arrivare, come si sarebbe dovuto, a capire che
dovesse essere ancilla omnium scibilium,
cioè uno strumento capace di imporre ordine a tutti i livelli della realtà, non ultimi quelli delle scienze:
diritto, economia, politica, medicina, fisica e un lungo eccetera che tempo e
spazio non permettono di esaurire qui.
Il secolo XIV vide gli Umanisti paganeggianti in assetto
di guerra contro la cultura cattolica, specialmente la morale che consideravano
restrittiva della libertà umana. Costoro capivano perfettamente come la filosofia
scolastica facesse da baluardo inespugnabile eretto nei secoli attorno alla
fede e alla morale cattoliche, per cui ne fecero il loro bersaglio preferito.
Ma ciò era impossibile dialetticamente, cioè con un
pensiero rigoroso che facesse uso di strumenti altrettanto rigorosi. Fecero uso
del dileggio, l’insulto, le mezze verità, sofismi triti e ritriti, ecc.
Al dileggio degli Umanisti si aggiunse la rivolta più
propriamente filosofica con l’attacco agli universali di Ockham (1280-1349).
Come nota Weaver[3],
dal negare gli universali si arrivò a negare la verità; ciò richiese una nuova
dottrina della natura, con il diniego del peccato originale, dell’affermazione
della supremazia della ragione, della sopravvivenza del più dotato come causa causans, dell’economia come forza
trainante delle intenzioni umane, arrivando così dall’essere creato a immagine
e somiglianza di Dio a uno ridotto a consumatore puro e duro.
L’attacco alla verità indusse gli scolastici, se per
codardia o debolezza intellettuale non è dato sapere, a seguire l’esempio degli
Umanisti. Entrambi si occuparono sempre meno di verità e sempre più di forme. I
cultori del “rinascimento” dei canoni pagani fecero rivivere la letteratura e
le arti classiche; gli scolastici invece fecero slittare la logica da vere loqui a recte loqui, trasformandola a poco a poco in grammatica.
La perdita del principio e metodo scolastici è stata
esiziale, ma continua a passare inosservata ai più. Un breve, necessariamente
incompleto, excursus fa al caso
nostro.
La prima a soffrirne fu la stessa filosofia. Facendo caso
omesso dell’ammonimento dell’Aquinate, l’anti-intellettualismo di Ockham
condusse necessariamente a Locke, Hobbes e Hume lungo la direttrice empirista e
a Descartes, Kant e Hegel lungo quella idealista. Da una filosofia con un
corpus di dottrina, principio e metodo si arrivò a una moltitudine di
“sistemi”, ognuno costruito a partire da zero dal suo ideosofo.[4] Quello che usurpa il nome
di “filosofia” oggi non si occupa di verità alcuna, ma di… filosofia. Le
cosiddette “facoltà” sono come altrettante officine meccaniche equipaggiate con
le macchine utensili più efficienti, dove si discute sulla modalità di uso e l’efficienza
di torni, fresatrici, seghe a nastro, e tutto l’armamentario tecnologico a loro
disposizione, ma nell’assenza più completa di materie prime su cui lavorare: legno,
metalli ferrosi e non ferrosi, plastiche ecc. Prestigiosissimi “filosofi”
scrivono di colleghi vivi o defunti altrettanto prestigiosi, viaggiando perfino
ai loro paesi di origine per potere consultare i loro scritti “nella lingua
originale”. A che pro? O a pro di chi? Evidentemente di filosofi, gli unici a
capire il filosofese, e capaci di scambiarsene le “conquiste”. E pubblicano tomi
ponderosi destinati a raccogliere polvere negli scaffali di qualche biblioteca dove
vengono letti forse una o due volte per secolo.
Il sopradetto lo fanno addetti ai lavori che si
autoproclamano Tomisti (!). Non sta a me giudicare se abbiano mai letto –o
capito– l’ammonimento di S.Tommaso citato all’inizio.
Per i non-Tomisti c’è solo l’imbarazzo della scelta circa
le ilarità che rifilano come “filosofia”. Una di costoro che va per la maggiore
ha recentemente pontificato su “sentimenti politici” elencando come tali
(anche) la compassione, il disgusto, la paura, l’invidia e la vergogna, senza
naturalmente darsi la pena di definirle.
A farlo, con una elementare classifica di fattura
scolastica, avrebbe notato che:
1.
La compassione non è un sentimento,
ma una virtù eminentemente
cristiana: gioire con chi gioisce e soffrire con chi soffre. È completamente
assente dall’induismo, che considera la sofferenza altrui ben meritata per aver
fatto chissà che magagna durante una reincarnazione precedente; non parliamo
poi del paganesimo: non vi è un solo esempio di compassione nei nove libri di
Erodoto.
2.
Il disgusto e la paura sono sì
sentimenti (rectius passioni)
il primo concupiscibile e la seconda irascibile, ma che come tutte e undici che
sono, da educare con la volontà illuminata dalla ragione. Specialmente la
seconda, se soppressa contro natura, diviene letale: è recentissima la notizia
di un intrepido venticinquenne sfracellatosi con il suo passeggero dopo un volo
di 300 metri dopo aver infranto il guardrail a velocità folle lungo una strada
alpina.
3.
L’invidia, da non confondere con
l’emulazione, è un vizio capitale,
consistente nel rattristarsi per il successo altrui. Se quel successo è di
natura spirituale, l’invidia è peccato mortale, come insegna(va)no i trattati
di teologia morale. Che poi sia l’opposto di equità, come afferma la Nostra, è
impossibile affermare senza definire quest’ultima.
4.
La vergogna è una sensazione, oggi largamente soppressa.
La stessa filosofa sorride in minigonna (a 63 anni) nell’articolo a lei
dedicato da Wikipedia, con completo sprezzo del ridicolo. Chi si vergogna oggi,
e di che? Perché poi afferma che “frustra le aspirazioni di solidarietà”?
A chi riceve istruzione filosofica (dove questa esiste) viene
ammannita una “storia della filosofia”, sciorinatura noiosissima di caratteri
succedutisi cronologicamente, ma senza mai indicare chi avesse dato nel segno e
chi no, e perchè.
La logica, divenuta inutile, è stata paulatinamente messa
alla porta, per cui ragionamenti su tutto ciò che ha da fare con lo scibile
umano hanno raggiunto livelli infimi, castigati da Hilaire Belloc (1870-1953) e
Dorothy Sayers (1893-1957) ben 100 anni fa.
Diceva il primo:
È
tutt'affatto incredibile che uomini come Mr Asquith e Mr Lloyd George, Mr
Balfour e Mr F.E.Smith possano in qualunque circostanza proferire le
imbecillità che costantemente adornano i loro discorsi pubblici. Non
parlerebbero così a una cena, o nei loro club. Ma lo standard intellettuale in
politica è così basso che uomini di capacità mentale media devono piegarsi in
due per raggiungerne il livello"[5].
Aggiungeva la seconda:
Avete mai provato ad assistere a un dibattito tra persone
adulte e presumibilmente responsabili? Vi ha inquietato comprovare la
straordinaria incapacità dell’interlocutore medio di concentrarsi
sull’argomento, o di affrontare e confutare quello dell’opposizione? Avete a
volte ponderato l’alta incidenza di materiale del tutto irrilevante che sorge
durante discussioni di gruppo, o quanto rare siano le persone veramente capaci
di presiedere a tali discussioni? Riflettendo che la maggior parte delle
questioni di Stato viene decisa in riunioni e dibattiti di questo tipo, non si
prova a volte un certo senso di vuoto allo stomaco?[6]
Errori filosofici di confusione, separazione e riduzione,
generalmente seguenti all’abbandono della verità, infarciscono ogni campo dello
scibile e del fattibile. Ci si rifila come “fatto” l’evoluzione, un vero
insulto (se non beffa) alle leggi della chimica e remora a quelle biologiche specialmente
tassonomiche; si sbandiera una cosmologia costretta a inventarsi “buchi neri”
inesistenti per fare caso omesso dell’elettricità, con forze 39 ordini di
grandezza superiori alla gravità; eccetera.
Dall’abbandono della verità si è passati prima all’avversione
e da questa a un odio viscerale sempre più vivo e vegeto verso essa.
Difesa e
Contrattacco
Chi ama, però, la verità, non si lascia intimidire, come
il bimbo nella favola di Andersen. I re nudi sono oggi una fiumana, ma solo chi
sa di esser libero è in grado di gridarlo, tante volte quante sia necessario.
Cominciamo con la verità per se. Essa non è semplice conoscenza; questa ne è solo il primo
stadio. Il secondo è l’intelligenza,
cioè il capire che due o più elementi di conoscenza già acquisiti, e che
sembravano sconnessi, in realtà fanno parte dello stesso insieme. Chi fa una
tale esperienza si sentirà sempre meno invogliato a cercare soddisfazioni a
livello animale o vegetativo: userà queste nuove scoperte come piattaforme di
lancio per altre, sempre nuove, in un crescendo di gioia intellettuale inesauribile
e del tutto incomunicabile, ma divisibile con chi ne ha fatto delle simili,
anche se in campi diversi.
Il terzo stadio nell’avanzata verso la verità è la sapienza, cioè l’avvertire che le
verità possedute e da possedere formano una gerarchia, e che quanto più alto è il livello raggiunto, tanto più
comprendente diventa l’intelligenza del resto.
Il triplo progresso di conoscenza-intelligenza-sapienza,
una volta cominciato, non finisce più. Ci si rende sempre più conto che quanto
più si conosce tanto più si ama, così progredendo verso un fine oltre questo
mondo.
Ecco quello che sembra perduto. Cosa può fare chi
intravede ciò che da sempre cerca, ma senza aver ricevuto i mezzi per
ottenerlo?
Pietas
Il punto di inizio nel restaurare l’ordine perduto non
può che partire da sé, e non può che esserne la conoscenza. Ma non si dà piena
conoscenza di sé senza la virtù della pietà, confusa dai più con la devozione,
specialmente religiosa, e per estensione con la bigotteria.
La pietà è la virtù che sovrasta la giustizia quando il
dovuto eccede le possibilità del debitore nella natura delle cose. Si articola
in tre componenti:
·
Pietà filiale, cioè
il rispetto per i genitori, datori della vita, impagabile su questa terra;
·
Patriottismo, cioè
rispetto per i componenti la stessa cultura, che include accettare il passato,
con le sue glorie ma anche con le sue vergogne;
·
Religione, cioè
rispetto per il Creatore, sola attitudine che permette di essere penetrato dai
sette livelli di essere, tanto nel loro insieme (ammettere di essere radicalmente
creatura) quanto singolarmente, da quello della materia a quello divino
passando dal vegetale, animale, umano, angelico e santificante (grazia).
La pietas conduce
verso un’intelligenza sempre più profonda di sé stesso e del mondo circostante,
e pertanto ad una sempre maggiore capacità di vaglio di teorie proposte come
vere da chi opera nell’ordine cosmico.
La pietà fa notare che nel bel mezzo del caos che
caratterizza il mondo moderno, quattro realtà rimangono fisse ed immutabili: a)
la filosofia scolastica; b) la dottrina cattolica; c) il suolo e d) la
tecnologia. Qui ci occuperemo solo della prima.
Nonostante secoli di improperi ed epiteti avvilenti, la
filosofia delle Scuole mantiene la sua vitalità intatta. È ancora capace di
ordinare e definire, scoprendo così le confusioni, separazioni e riduzioni che
piagano il pensiero moderno; e può ancora ridurre a sillogismo qualunque
ragionamento, confermandolo nel vero se obbedisce le regole della logica, o
sbugiardandolo nel caso contrario.
Non è necessario un trattato per dimostrare tutto ciò;
pochi esempi basteranno. Avendo confermato che la filosofia esiste per arrivare
alla verità delle cose, applichiamone i princìpi all’economia, la medicina, la
fisica e il femminismo.
Economia e
Verità
Poco dopo la Seconda Guerra del secolo XX, una nuova
definizione di economia è andata apparendo nelle facoltà omonime: “scienza
dell’assegnazione di risorse scarseggianti”.
Chi è provveduto di principi e metodo scolastici si chiede
immediatamente: a) quali risorse
“scarseggiano”?, e b) chi deve/può
assegnare?
Non gli ci vuol molto a scoprire che se e quando una
risorsa scarseggia ciò non è mai dovuto a cause naturali, ma a decisioni di chi
ha il potere di renderle scarse; e che il termine “assegnazione” esautora il
capofamiglia, il piccolo contadino/imprenditore e l’anziana vedova, autorizzando
invece il burocrate pubblico e privato, il magnate, la grande corporazione,
eccetera, ad “assegnare”.
Si tratta, in parole povere, di un inganno. La
definizione naturale di economia è “scienza della produzione e distribuzione di
ricchezza” dove per “ricchezza” si intende servizi,
sia prestati da persona a persona sia incorporati in oggetti divenuti “beni”.
Ma c’è un corollario: produrre ricchezza è un esercizio fisico, che ha solo bisogno di terreno
sotto i piedi e di lavoro, tanto intellettuale quanto manuale; distribuirla è
un esercizio morale dovuto a una
moltitudine di operazioni: compravendite, leggi, specialmente fiscali, donazioni,
furti, frode, malversazione e chi più ne ha più ne metta; l’esperienza di
secoli abbondantemente dimostra cosa si nasconde dietro la frase apparentemente
innocua “distribuzione di ricchezza”.
Fanno da chiave al capire l’economia due questioni:
quella fondiaria, praticamente
dimenticata da professori e manuali, ma esiziale da sempre nel creare
quell’inspiegabile lacuna tra ricchi e poveri, e quella monetaria, che completa il quadro con il perverso misuso del mezzo
di scambio conosciuto come usura.
Quest’ultima ha depistato l’intelligenza di milioni di
persone dalla ricchezza reale alla crematistica, cioè l’illusione che “essere
ricco” equivale ad “avere molto denaro”. Sviluppi il punto chi vuole e può,
meglio se armato di filosofia Scolastica.
Medicina e
Verità
Si chieda a qualsiasi medico, generalista o specialista,
di definire la salute. Se risponde
“assenza di malattia” siete in presenza di un seguace di Paracelso. Se invece
risponde “ordine e armonia a tutti i livelli di corpo e anima” il soggetto è
seguace di Ippocrate. Seguiamo prima gli insegnamenti di quest’ultimo (che
storicamente vennero molti secoli prima di quelli di Paracelso).
Ippocrate (460-375 a.C.) mantenne che le cosiddette
“malattie” non sono che sintomi di disordine metabolico: le sostanze tossiche
prodotte durante il metabolismo invece di essere espulse come dovrebbero,
vengono ritenute da un difettoso sistema emuntore. L’intestino, i reni, i
polmoni e la pelle non funzionano come dovrebbero.
I sintomi di malattia sono innumerevoli, e per di più infinitamente
diversi. Quelli della salute, al contrario, sono sette, facilmente gestibili.
Eccoli:
1.
L’appetito vero, cioè
da stomaco vuoto (quello falso appare anche a stomaco pieno ma viziato: si beva
acqua per farlo sparire).
2.
Il sonno, tempestivo
e profondo;
3.
La defecazione,
inodora se si è digerito il 100% delle sostanze digeribili, completamente
separate dalle scorie;
4.
La minzione, che se
registra un pH 8 è sintomo di salute perfetta;
5.
La forma fisica, che
permette di raddoppiare il ritmo cardiaco senza ansimare;
6.
La sudorazione,
inodora e libera. Se la si impedisce con depilazioni o anti-perspiranti, si
rischia il cancro alla mammella, anche in uomini.
7.
La chiusura delle
ferite, praticamente istantanea.
Da ciò segue che nel momento in cui un sintomo di salute
sparisce, è tempo di prendere rimedi, senza i quali arriva la malattia. Questa non
è che la reazione del corpo per liberarsi di tossine indebitamente ancora
dentro di esso. A non riuscirci, è una intossicazione crescente fino alla
morte.
Questa visione olistica di salute/malattia ricevette un
colpo mancino ad opera di Teofrasto Bombasto von Hohenheim detto Paracelso
(1493-1541), che scoprì come fosse più facile (e remunerativo) trattare i
sintomi con medicamenti vari piuttosto che le cause. E da lì venne il montaggio
correntemente conosciuto come “medicina ufficiale” o “moderna”.
I suo principio di base è che le malattie sono effetti di
attacchi da microorganismi. In un dibattito un tempo famoso tra Louis Pasteur
(1822-1895) e Antoine Béchamp (1816-1908), quest’ultimo riuscì a convincere il
primo che “il microorganismo è niente, il substrato è tutto” ma troppo tardi,
sul letto di morte.
La medicina moderna continua ad applicare cerotti sulle
ferite, ritardandone la guarigione, a uccidere cellule “cancerogene” con la
chemioterapia, che uccide il 95% dei pazienti, a darsi alla caccia di “virus”,
“batteri” e altri microorganismi credendoli “cause” di malattia, e altre
intraprese che sarebbe troppo lungo anche menzionare. Se esaminasse i suoi
principi alla luce della filosofia Scolastica, scoprirebbe che la malattia, che
è disordine e disintegrazione per definizione, non può essere effetto di
invasione da esseri viventi, che sono ordine e unità. E ritornerebbe così alla
saggezza di Ippocrate, allontanandosi dalla follia di Paracelso, che morì a 48
anni dopo aver bevuto un intruglio che si illudeva fosse elisir di chissà che
cosa.
Fisica e Verità
La fisica moderna ha un’avversione viscerale per la
filosofia, e non a torto. La filosofia cosiddetta “moderna”, in fatti, ha
perduto ogni strumento per un’analisi del cosmo, e da Descartes in poi si è
ritirata negli anfratti della psiche umana per non uscirne più. Non ha niente
da dire circa il mondo fisico.
Se i fisici applicassero l’analisi scolastica ai loro
principi, scoprirebbero che la loro scienza è crivellata di confusioni,
separazioni e riduzioni che, eliminate, la farebbero progredire dal punto morto
in cui si è cacciata tanto tempo fa. Per sommi capi:
1.
Si continua a
separare lo spazio dalla materia da più di 300 anni, senza chiedersi, nel
ricevere (o mandare) segnali telefonici attraverso strati notevoli di vetro o
di muratura, se questi sono “spazio” o “materia”.
A farlo, ci si renderebbe conto che sono entrambi, e che la separazione dello
spazio dalla materia è indebita.
2.
Viene accettata
acriticamente, da quasi 2500 anni, la definizione aristotelica di tempo come arithmós kinéseos katá to próteron kaí ýsteron
(misura di movimento secondo un prima e un dopo), slittando su una
riduzione, una confusione e una cattiva traduzione. In particolare:
-
Il termine greco kínesis vuol dire movimento locale, riduttivo quindi di cambio in
generale che il latino rende più correttamente con motus. Quello corretto sarebbe stato metabolés.
-
Il “prima e il dopo”
sono operazioni psichiche che non
hanno nulla a che vedere con il mondo fisico. La loro inserzione nella
definizione di tempo causa una confusione indebita.
-
La traduzione di arithmós con “misura” è indebita. Un termine migliore sarebbe stato
“sommatoria”.
Riassumendo: Il tempo non è che l’immersione in un
universo fatto di infiniti cambi di
quantità, qualità, relazione ecc. Scegliere un cambio regolare e affidabile, estrarne
una unità, e misurare gli altri cambi con essa è un esercizio proficuo, ma
sottomesso alla legge dell’errore come tutte le misurazioni. La patacca da 5
euro e l’orologio atomico al cesio hanno diversi standard di accuratezza, ma
misurano esattamente solo il proprio movimento. Nessun
movimento di orologio misura “il tempo”.
Aggiungiamo un paio di considerazioni. Quando Georg Simon
Ohm (1789-1854) promulgò l’omonima legge (1827) ci si sarebbe dovuto accorgere
che i tre elementi componenti l’elettricità: voltaggio, corrente e resistenza,
avevano i loro analoghi meccanici nella forza, movimento e attrito/inerzia.
Invece i ritardanti dell’azione meccanica vennero assimilati a forze, così
introducendo una confusione dalla quale la fisica non si è mai liberata.
E venne inventata una fantasia detta “cinematica” che
descrive movimento uniforme e accelerazione in termini di apparenze, senza
rendersi conto che il primo è inseparabile dall’energia e la seconda dalla
potenza. Si fece così spazio alle elucubrazioni einsteiniane fondate essenzialmente
sul nulla.
Non è mio compito continuare. Gli errori sono filosofici,
e vanno corretti con la sola filosofia capace di farlo: la Scolastica.
Femminismo e
Verità
Il sillogismo non è, come affermano i denigratori della
Scolastica, uno strumento di conoscenza attraverso il ragionamento: chi è
abituato a pensare si accorge presto che il sillogismo ingombra piuttosto che
facilita conclusioni. È invece estremamente utile per analizzare ragionamenti
per confermarli o falsificarli.
Quello femminista, ridotto ai minimi termini, è “Tutto quello che può fare un uomo lo può fare
una donna; ergo lo faccia.”
Milioni di femministi di ambo i sessi sottoscrivono
questo ragionamento senza batter ciglio. Eccetto, come prima, chi è all’erta
con la logica aristotelica. Costui si accorge senza fallo che il
“ragionamento”, ridotto a sillogismo, manca di una premessa, non obbedendo così
alle regole del pensare. Esprimendo la premessa si arriva a “ma tutto quello
che può fare un uomo è superiore a tutto quello che può fare una donna; ergo
eccetera.
E qui casca l’asino. La premessa mancante, che poi è
quella maggiore, non è affatto ovvia come quella minore; va dimostrata. E chi
se lo sente? C’è qualcuno disposto ad argomentare che stare ai comandi di un
velivolo, di una nave, di un taxi, di una macchina utensile (o da costruzione,
o altro), progettare una grande opera ingegneristica, difendere delinquenti,
rischiare la vita al volante di una Formula Uno, o sfoggiare una tuta da
astronauta sia proprio più importante
che dare la vita a, e per, un essere umano da portare alla perfezione virtuosa?[7]
Chi se lo sente lo faccia, meglio se riesce a dimostrare
che la massiccia diserzione femminista dal focolare domestico sia dovuta alla
superiorità dei compiti e non agli stipendi che vanno in tasca alle un tempo dominae oggi degradate a homunculae (come le chiamava Weaver).
Smetto, conscio di aver esaurito la pazienza dei lettori.
Se anche uno di essi si sia sentito venire in cuore un amore per la verità che
prima non aveva, mi sentirò più che ricompensato del tempo e dello sforzo impiegati
nel redigere questo scritto.
Silvano Borruso
29 luglio 2015
[1] Chi legge Le Metamorfosi di Ovidio senza i
paraocchi della “squola” gramsciana, si rende conto di scorrere un vero
catalogo di catastrofi naturali, ammannito in linguaggio antropomorfico.
[2] Studium philosophiae non est ad hoc quod sciatur quid
homines senserint, sed qualiter se habeat veritas rerum. In I de coelo et mundo, lectio 22 n.8
[3] Richard,
1910-1963. Le Idee Hanno Conseguenze,
1949.
[4] Termine usato
da J.Maritain, che viene al caso.
[7] Promotio prolis ad perfectum statum hominis in quantum
homo est, id est status virtutis. Summa Th. Suppl. Parte III Q.
41, 1.