lunedì 8 ottobre 2012

IL PUDORE DEL SILENZIO


IL PUDORE DEL SILENZIO
(Opera, 10 settembre 2012)
Ancora pochi giorni fa, Rai Tre ha riproposto la solita fasulla ricostruzione della storia della strage
di piazza Fontana nel corso della quale ha ipotizzato che il sostituto procuratore della Repubblica
di Milano, Emilio Alessandrini, sia stato ucciso dai militanti di “Prima linea”, il 29 gennaio 1979,
anche per le indagini da lui svolte, insieme a giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, sull’eccidio del
12 dicembre 1969.
Non è vero.
E’ venuto il momento di dire, chiaro e forte, che le indagini svolte da Gerardo D’Ambrosio ed Emilio
Alessandrini sulla strage di piazza Fontana sono state fallimentari.
I due si sono ritrovati in mano accertamenti compiuti dal giudice istruttore di Treviso Giancarlo Stiz,
che indicavano il coinvolgimento nella strage di Franco Freda e Giovanni Ventura. E a questi due
nomi si sono fermati.
Poi, quando nel mese di gennaio del 1973, è emerso il nome del giornalista de “Il secolo d’Italia”
Guido Giannettini, rivelatosi infine agente del Sid, lo hanno aggiunto ai primi due proclamando di
aver trovato la verità.
Ancora oggi, Gerardo D’Ambrosio si permette di ricordare che la Corte di cassazione decise lo
spostamento del processo sa Milano a Catanzaro per “legittima suspicione”, facendo intendere che
questo fece togliere a lui l’inchiesta.
Falso.
Per quanti ricordano - e sono ancora tanti – cos’era la piazza di Milano negli anni Settanta, la
decisione della Corte di cassazione di spostare la sede del processo a Catanzaro per motivi di
ordine pubblico appare legittima ed ampiamente giustificata.
E poi, quale minaccia ha mai rappresentato per lo Stato un giudice che ha condotto le indagini
chiamando  a  collaborare  il  prefetto  Umberto  Federico  D’Amato,  diretto  della  divisione  Affari
riservati del ministero degli interni, dopo che era stato obbligato a prendere atto che il servizio
segreto civile e i dirigenti degli uffici politici delle Questure di Roma, Milano e Padova stavano
depistando le indagini per garantire impunità a Franco Freda e Giovanni Ventura?
Un magistrato ansioso di trovare la verità avrebbe, dinanzi alle prove (non a meri indizi) della
protezione offerta dal ministero degli Interni, prima e dopo la strage del 12 dicembre 1969, a
Franco Freda, Giovanni Ventura e ai loro complici, preteso di proseguire le indagini affidandole alla
Guardia fi finanza, esprimendo pubblicamente la sua sfiducia nei confronti della polizia, del Sid e
della divisione Affari riservati.
Gerardo D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini, viceversa, continuano a collaborare pacificamente con
i dirigenti degli uffici politici delle Questure di Milano, Roma, Padova e con il direttore del servizio
segreto civile, Umberto Federico D’Amato.
Del resto, per Gerardo D’Ambrosio il tentativo di impedire l’identificazione del negozio padovano
dov’erano state vendute le borse utilizzate per gli attentati stragisti di Milano e di Roma, era stato
un gesto di “non rilevante gravità”.
Una bazzecola, una quisquilia, non in grado di intaccare la sua fiducia nelle forze di polizia e nel
servizio civile del ministero degli Interni.
E a cotanto magistrato dovevano togliere l’inchiesta per evitare che giungesse alla verità?
Ma andiamo.
La “verità” che voleva affermare Gerardo D’Ambrosio è la stessa che viene riproposta da Rai Tre:
la responsabilità unica e sola è del gruppo guidato da Franco Freda e Giovanni Ventura, la “cellula
nera”, i ferocissimi nazifascisti padovani che, peraltro, la stessa rete televisiva, tanto cara alla
sinistra, proclama innocenti per bocca di Carlo Lucarelli e Giovanni Minoli.
In  attesa  che  Bianca  Berlinguer  e  la  sua  banda  decidano  una  volta  per  tutte  di  offrire  ai
telespettatori una versione sola sull’innocenza o la colpevolezza di Franco Freda a Giovanni
Ventura, noi rileviamo che la “verità” di Gerardo D’Ambrosio è andata in frantumi.
E la “verità” dell’ex procuratore della Repubblica di Milano, oggi senatore per meriti ignoti del
Partito democratico, coincide con quella del regime e con quella dello Stato.
In un Paese in cui trovare uomini liberi, capaci di non farsi condizionare dalla propaganda ufficiale
e, soprattutto, aventi il coraggio morale e civile di affermare la verità su uomini e fatti è quasi
impossibile, ci si dimentica che negli anni Novanta si è svolta un’inchiesta giudiziaria, condotta dalgiudice istruttore di Milano Guido Salvini, che ha dimostrato come l’eccidio del 12 dicembre 1969
ha coinvolto nella sua organizzazione e nella sua esecuzione personaggi che, sotto la copertura
dell’appartenenza  a  gruppi  politici  di  opposizione  (Ordine  nuovo,  Movimento  sociale  italiano,
Avanguardia nazionale), erano legati ai servizi segreti italiani, militari e civili, e a quelli americani
ed israeliani.
Le assoluzioni, per insufficienza di prove, di singoli imputati nulla toglie ad una ricostruzione che è
stata condivisa dai magistrati giudicanti in tutti i gradi di giudizio.
Per  comprendere  però  come  sia  possibile  che  ancora  oggi  la  “verità”  ufficiale  sia  quella
propagandata  da  Gerardo  D’Ambrosio,  è  necessario  far  conoscere  quanto  è  stato  fatto  per
impedire che l’istruttoria di Guido Salvini giungesse a conclusione per evitare che sul banco degli
imputati salissero gli uomini della “cellula spionistica” veneta di Ordine nuovo, di cui Franco Freda
e Giovanni Ventura erano due dei componenti, non i capi.
I primi ad opporsi all’inchiesta sulla strage di piazza Fontana condotta dal giudice istruttore Guido
Salvini sono i magistrati della procura delle Repubblica di Milano.
Lo dicono i fatti.
Il 19 settembre 1991 Guido Salvini invia alla procura della Repubblica il fascicolo relativo alle
indagini sull’eccidio del 12 dicembre 1969.
Il 10 ottobre 1991 la procura della Repubblica iscrive nel proprio registro il fascicolo inviato dal
giudice istruttore Guido Salvini. Delegato a seguire le indagini è Gerardo D’Ambrosio.
Il 7 marzo 1994 Guido Salvini segnala alla procura della Repubblica che Delfo Zorzi, imputato per
concorso nella strage del 12 dicembre 1969, si trova in Italia e chiede che si proceda al suo
arresto.
Non ottiene risposta.
Il 20 marzo 1995 il giudice istruttore Guido Salvini sollecita il procuratore della Repubblica di
Milano, Saverio Borrelli, ad assegnare un pubblico ministero all’istruttoria in corso sulla strage di
piazza Fontana. Borrelli delega il sostituto procuratore della Repubblica Grazia Pradella.
Dal 10 settembre 1991, data in cui la procura della repubblica di Milano ha ricevuto il fascicolo
relativo alla nuova istruttoria sulla strage del 12 dicembre 1969, sono trascorsi tre anni e sei mesi
senza che i pubblici  ministeri,  primo fra tutti Gerardo D’Ambrosio,  sentissero  la  necessità di
compiere il proprio dovere.
L’inchiesta condotta da Guido Salvini, però, p andata avanti avvicinandosi pericolosamente ai
servizi segreti americani: il 4 febbraio 1995 Salvini invia un avviso di garanzia a Giovanni Bandoli,
veronese, per il reato di “spionaggio politico-militare” a favore dei servizi segreti americani per i
quali collabora.
In precedenza il giudice istruttore aveva identificato e denunciato un altro italiano, Carlo Rocchi,
che si era interessato alle sue indagini informando sia il Sisde che un funzionario della Cia che si
stavano indirizzando sui servizi segreti americani.
Il  13  giugno  1995  il  sostituto  procuratore  della  Repubblica  Ferdinando  Pomarici  chiede
l’archiviazione  delle  indagini  relative  a  Carlo  Rocchi  dubitando  che  costui  possa  essere  un
informatore della Cia, come esclude che possa esserlo il suo referente americano John Costanzo.
Purtroppo per Pomarici, il 29 giugno 1995 Carlo Rocchi verbalizza dinanzi al giudice istruttore
Guido Salvini di aver iniziato a collaborare con l’Oss americano fin dal 1943, dopo essere stato
preso prigioniero nella battaglia di El-Alamein, e conclude affermando:
“La mia attività per la Cia mi consente di godere di un fondo previdenza pagato su un conto in
Svizzera”.
Il 19 maggio 1995, dopo un interrogatorio al quale era stata presente il sostituto procuratore della
Repubblica Grazia Pradella,  è arrestato anche Sergio Minetto, informatore dei servizi segreti
americani, per reticenza e falsa testimonianza.
Insomma, le indagini condotte da Guido Salvini sulla strage del 12 dicembre 1969 si avvicinano
pericolosamente a quei servizi segreti americani che, in Italia, sono intoccabili.
Ma gli arresti e le incriminazioni di Giovanni Bandoli, Carlo Rocchi, Sergio Minetto sono meno
pericolosi del cedimento di Carlo Maria Maggi, ex ispettore triveneto di Ordine nuovo.
Nel corso di un colloquio svoltosi a Venezia il 30 dicembre 1994, Carlo Maria Maggi discute con il
capitano dei carabinieri Massimo Giraudo le modalità per la sua “collaborazione con la giustizia”,
fra le quali un suo trasferimento all’estero perché “un pericolo c’era ed iniziava con la Z”.E’ proprio Carlo Maria Maggi a riferire a Giraudo che “avrebbe potuto dire molte cose su persone
sottoposte a lui, in particolar modo su Delfo Zorzi che aveva saputo successivamente essere
esecutore materiale della strage. Meno per quelli al di sopra perché Pino Rauti era il vero gestore
dei rapporti fra la Cia e la destra eversiva veneta”.
Non era stato, quello di Carlo Maria Maggi, lo sfogo di un momento di paura perché, nel corso di
un altro colloquio, avvenuto sempre a Venezia il 4 febbraio 1995, aveva confermato al capitano
Giraudo la responsabilità di Delfo Zorzi come esecutore materiale della strage del 12 dicembre
1969, spiegando che “era stato prescelto…perché non avrebbe mai parlato”.
La “verità” di Gerardo D’Ambrosio, dello Stato e del regime vacillava pericolosamente.
Nei  “palazzi”  del  potere  politico,  di  sicurezza  e  giudiziario,  qualcuno  decide  che  è  giunto  il
momento di intervenire per bloccare un’inchiesta che si palesa sempre di più come una mina che
bisogna a tutti i costi disinnescare.
Il primo a muoversi, per rimediare ai danni fatti, è proprio l’accusatore di Delfo Zorzi e Pino Rauti,
Carlo Maria Maggi, che il 29 luglio 1995 presenta al ministero della Giustizia, Filippo Mancuso, un
esposto contro il capitano dei carabinieri Massimo Giraudo.
Il fatto che il 5 luglio 1995, il sostituto procuratore della Repubblica di Milano Grazia Pradella aveva
chiesto  ed  ottenuto  da  Guido  Salvini  una  parte  degli  atti  istruttori  lo  riteniamo  una  mera
coincidenza non collegabile all’esposto di Carlo Maria Maggi.
Il 16 settembre 1995 il procuratore della Repubblica di Venezia Vitaliano Fortunati, con prassi
inusuale, decide di assegnare al sostituto procuratore della Repubblica Felice Casson le indagini
sull’esposto presentato da Carlo Maria Maggi contro il capitano Massimo Giraudo.
Tutti sappiamo come vanno le cose quando un comune cittadino presenta un esposto contro un
funzionario di polizia o un ufficiale dei carabinieri: se gli va bene, il magistrato competente decide
l’archiviazione, se gli va male lo denuncia per calunnia.
Nel caso di Carlo Maria Maggi, poi, si tratta di persona già condannata per reati politici, rinviata a
giudizio dallo stesso Felice Casson che lo ha ritenuto un ferocissimo nazifascista che odiava la
democrazia e le sue istituzioni.
L’esito dell’esposto presentato da Carlo Maria Maggi dovrebbe essere scontato, invece si verifica
una caso straordinario perché il Casson non solo non lo archivia, non solo non denuncia Maggi per
calunnia nei confronti di un ufficiale dei carabinieri, ma lo valorizza ritenendo evidentemente l’ex
ispettore del triveneto di Ordine nuovo una vittima dei carabinieri e dei servizi segreti militari che,
come Casson sa, stanno collaborando con Guido Salvini.
Serve, per comprendere meglio cosa si avvenuto, sottolineare l’inopportunità di affidare a Felice
Casson, forzando la procedura, le indagini sull’esposto presentato da Carlo Maria Maggi perché un
anno prima, il 29 luglio 1994, il sostituto procuratore veneziano, nel tentativo di spiegare perché il
Sisde, il servizio segreto civile, violando la legge che gli aveva blindato l’appartamento privato e gli
aveva installato due linee telefoniche riservate utilizzando i propri “fondi neri”, aveva dichiarato che
questa protezione (mai concessa ad alcun magistrato) del Sisde, illegale nella forma e nella
sostanza perché per legge spetta al solo ministero della Giustizia provvedere alla sicurezza dei
giudici,  era  dovuta  al  fatto  che  era  stato  organizzato  contro  di  lui  un  attentato  “segnalato
dall’interno del Sismi e attribuito a personale del Sismi”.
Un’accusa gravissima perché mai un giudice italiano aveva accusato uomini del servizio segreto
militare di volerlo uccidere, suscettibile di provocare un terremoto politico e giudiziario.
Non accadde, viceversa, nulla. Tutti sanno chi è Felice Casson. E nessuno muove un dito.
A Forte Braschi, dopo aver finito di scompisciarsi dalle risate, fanno un secco comunicato di
smentita e la vicenda finisce nel nulla.
Rimane però evidente l’inopportunità di affidare a Felice Casson una indagine che lui avrebbe
indirizzato verso quel Sismi che, a suo avviso, aveva preventivato di ucciderlo per motivi che solo
lui, il Casson, conosce.
L’indagine  affidata  a  Felice  Casson  non  richiede  gravose  indagini  perché  il  magistrato  deve
semplicemente valutare se sia più credibile l’ufficiale accusato o il cittadino che lo accusa.
L’unico atto istruttorio, se necessario, è un confronto giudiziario fra i due, Giraudo e Maggi. Ma lo
scopo dell’esposto presentato da Maggi a Filippo Mancuso il 29 luglio 1995 era solo quello di
mettere in moto il meccanismo per bloccare l’inchiesta di Guido Salvini e invalidare quanto fino a
quel momento emerso dal giudice istruttore milanese.Non è un’ipotesi, perché quello stesso mese di settembre, il sostituto procuratore della Repubblica
di Milano Grazia Pradella, dopo un colloquio con Felice Casson, interrompe la collaborazione con il
giudice istruttore Guido Salvini, estromette il capitano dei carabinieri Massimo Giraudo dalle sue
indagini affidate, da quel momento, alla sola polizia ed ostenta la sfiducia nei testimoni a carico.
In poche parole: senza avere svolto alcuna indagine, il Casson e poi la Pradella decidono che
Carlo Maria Maggi ha ragione e il capitano dei carabinieri, Massimo Giraudo, ha torto e, insieme a
lui, il giudice istruttore Guido Salvini e quanti indicano in Ordine nuovo un apparato spionistico ed
operativo nel quale p maturata la strage di piazza Fontana.
L’intervento depistante non può limitarsi alla rottura dei rapporti fra Grazia Pradella e Guido Salvini,
serve altro, al quale s’incarica di provvedere Felice Casson.
Si sviluppa un’operazione politico-giudiziaria che si evidenzia il 16 ottobre 1995, a Mestre, quando
si  svolge  un  convegno  sull’attività  del  Comitato  parlamentare  di  controllo  sui  servizi  segreti
presieduto dal comunista Massimo Brutti.
Ad ascoltare l’ex “camerata” Brutti si presentano Felice Casson, Grazia Pradella, Carlo Maria
Maggi e l’amico fraterno del pubblico ministero veneziano, Giorgio Cecchetti.
Il 12 ottobre 1995 Casson ha interrogato il capitano Giraudo, il giorno successivo all’incontro con
Massimo Brutti, interroga come testimone il generale Sergio Siragusa, direttore del Sismi, in merito
al denaro versato dal servizio al “collaboratore di giustizia” Martino Siciliano.
Quello stesso 17 ottobre 1995 Casson invia un fax al presidente del Consiglio, al ministro della
Difesa, al segretario nazionale del Cesis, al presidente del Comitato parlamentare di controllo sui
servizi segreti (Massimo Brutti) per sapere se sono stati preventivamente informati dell’erogazione
di denaro da parte del Sismi a Martino Siciliano che, per mirabile coincidenza, è fra gli accusatori
di Maggi e Zorzi.
Il 19 ottobre 1995 Massimo Brutti risponde a Casson che il Sismi non lo aveva preventivamente
informato del denaro versato a Martino Siciliano.
L’attività di Felice Casson è frenetica.
Il  24  ottobre  1995  Maurizio  Dianese,  giornalista  de  “Il  gazzettino”  di  Venezia,  informa
telefonicamente il giudice istruttore di Milano, Guido Salvini, che sono passate alla stampa notizie
relative alle indagini svolte da Felice Casson sulla strage di piazza Fontana che provocherebbero
l’emissione di mandati di cattura e avrebbero svelati depistaggi un corso.
Il giorno successivo, il 25 ottobre 1995, il giudice Guido Salvini scrive al sostituto procuratore
Grazia Pradella per informarla del contenuto del colloquio telefonico avuto con Maurizio Dianese, e
per sollecitare “un immediato intervento del Suo ufficio finalizzato ad impedite la prosecuzione di
comportamenti censurabili sul piano penale e disciplinare, che hanno per inevitabile conseguenza
la distruzione e lo stravolgimento di anni di indagini svolte in silenzio e con apprezzabili risultati”.
Non otterrà risposta.
Il 26 ottobre 1995, il cronista giudiziario del quotidiano “La Repubblica” informa il giudice Guido
Salvini che è prevista la pubblicazione, per il giorno seguente, di un articoli di Giorgio Cecchetti
che affermerebbe come Felice Casson avrebbe scoperto che Salvini, il Sismi e i carabinieri del
Ros avrebbero ”depistato” le indagini sulla strage di piazza Fontana, pagando anche un “pentito” di
Ordine nuovo.
Il 27 ottobre 1995 Guido Salvini scrive ancora al pubblico ministero Grazia Pradella per informarla
di quanto sta avvenendo “stante la gravità della situazione”.
Non otterrà risposta.
Il silenzio del sostituto procuratore della Repubblica Grazia Pradella trova logica spiegazione nel
contenuto dell’articolo che, sotto il titolo “L’ultimo depistaggio”, è pubblicato il 28 ottobre 1995 sul
quotidiano “La repubblica” a firma di Goirgio Cecchetti.
Il fraterno amico di Felice Casson scrive:
“L’ultimo capitolo sulle deviazioni si può leggere in una comunicazione inviata al presidente del
Comitato parlamentare sui servizi di sicurezza Massimo Brutti dal pubblico ministero veneziano
Felice Casson.
In quei documenti vengono avanzati pesanti sospetti sui vertici del Sismi, su ufficiali dei carabinieri
e vengono avanzate ombre pure sulle indagini del giudice milanese, Guido Salvini, colui che fino a
qualche mese fa era titolare dell’inchiesta sulla strage alla banca dell’Agricoltura…
L’inchiesta del magistrato veneziano comunque prosegue  e  con  lui  indaga anche  il  pubblico
ministero di Milano Grazia Pradella. I due pubblici ministeri, quello veneziano e quello milanese,continuano  ad  analizzare  i  documenti  sequestrati  per  scoprire  se  lo  stesso  comportamento
“anomalo” è stato tenuto nei confronti di altri imputati e testimoni e soprattutto se gli uomini del
Sismi abbiano compiuto altri abusi e se abbiano avuto l’appoggio di altri.”
Il giornalista Giorgio Cecchetti conclude scrivendo che si sta cercando di “impedire che fosse dato
un nome e un volto a chi ha organizzato il vile attentato di piazza Fontana”.
L’articolo di Giorgio Cecchetti,  portavoce di Felice Casson,  rappresenta la confessione di un
partecipe ad un’operazione che doveva proteggere gli ordinovisti veneti, accusati non dal Sismi ma
da Carlo Digilio e Martino Siciliano, primo fra tutti Carlo Maria maggi che i pubblici ministeri Casson
e Pradella ritengono vittima delle calunnie dei “pentiti” di Ordine nuovo manovrati e pagati dal
servizio segreto militare che collabora alle indagini condotte dal giudice istruttore Guido Salvini.
Lo  scrive  l’amico  Felice  Casson,  Giorgio  Cecchetti,  che  i  due  magistrati  sono  impegnati  ad
analizzare i documenti non per scoprire gli autori della strage di piazza Fontana bensì per scoprire
se ci sono altre “vittime” del Sismi, dei carabinieri e del Ros e, implicitamente, di Guido Salvini.
La  gravità  di  quanto  stiamo  denunciando  è  resa  ancora  più  eccezionale  dal  fatto  che,
contestualmente all’istruttoria condotta da Guido Salvini sulla strage del 12 dicembre 1969, è in
corso quella diretta dal giudice istruttore di Milano, Antonio Lombardi, sull'eccidio del 17 maggio
1973, compiuto da Gianfranco Bertoli, che vede come imputati gli ordinovisti veneti, Carlo Maria
Maggi per primo.
Felice Casson aveva tentato di interferire in questa inchiesta inviando a tutte le procure della
Repubblica impegnate nelle indagini sul “terrorismo” una lettera nella quale accusava che scrive di
voler depistare le indagini condotte dal giudice istruttore Antonio Lombardi.
Il tentativo di Casson era naufragato nel ridicolo perché le mie dichiarazioni relative alla proposta
avanzatami da Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, già nell’estate del 1971, di uccidere Mariano
Rumor avevano trovato puntuale riscontro nel racconto di Carlo Digilio che le aveva testualmente
confermate.
Se la magistratura italiana avesse un decoro ed un prestigio da tutelare la carriera di Felice
Casson sarebbe finita con un provvedimento disciplinare se non con una denuncia di calunnia nei
miei confronti, ma così non è stato.
Rimane evidente il fatto che l’attacco condotto contro il giudice Guido Salvini, se portato a termine
con successo, avrebbe condizionato, a favore di Carlo Maria Maggi e degli ordinovisti veneti,
anche l’esito del processo a loro carico per la strage di via Fatebenefratelli a Milano del 17 maggio
1973, nel quale comparivano in parte gli stessi imputati e i medesimi testimoni.
I collegamenti fra i due attentati stragisti erano dati dal fatto che Mariano Rumor doveva essere
ucciso perché non aveva rispettato l’impegno di proclamare lo “stato di emergenza” il 14 dicembre
1969,  facendo  naufragare  l’operazione  nella  quale  era  stata  compiuta  la  strage  della  Banca
dell’Agricoltura.
Se Felice Casson, Grazia Pradella e i loro complici politici e giudiziari avessero dimostrato che
Carlo Maria Maggi,  Delfo Zorzi e gli altri ordinovisti veneti erano estranei alla strage del 12
dicembre 1969, vittime di un “depistaggio” condotto dal Sismi con il concorso del giudice istruttore
Guido Salvini e quello dei testimoni principali, le accuse a loro carico per la strage compiuta da
Gianfranco Bertoli sarebbero state inevitabilmente annullate.
Un progetto ambizioso che si proponeva di sbarrare la strada alle indagini sul gruppo veneto di
Ordine nuovo, impedendo che questo venisse identificato come la “cellula stragista” al servizio di
apparati segreti e clandestini italiani ed internazionali.
Non ci sarebbe stato il processo per la strage di Brescia del 28 maggio 1974 se Felice Casson,
Grazia Pradella ed i loro protettori politici e giudiziari avessero avuto successo.
E Casson, con l’appoggio di Grazia Pradella, ha provato in tutti i modi a bloccare l’inchiesta, tanto
da inviare al capitano Massimo Giraudo un avviso di garanzia rendendo così ufficiale la sua fiducia
in quanto dichiarato da Carlo Maria Maggi, come rivelato dalla stampa il 7 novembre 1995.
Qualche voce a favore di Guido Salvini si leva anche a sinistra, così, l’11 novembre 1995, sul
quotidiano “Liberazione”, nell’articolo intitolato “Isolate quel giudice”, Maso Notarianni attacca il
sostituto procuratore della Repubblica di Milano, Ferdinando Pomarici, che non ha mai collaborato
alle indagini condotte dal giudice istruttore.
L’attacco contro l’inchiesta si  allarga  al  fronte  politico:  il  14 novembre 1995 un certo  Dorigo
presenta alla Camera dei deputati un’interrogazione parlamentare nella quale si accusa GuidoSalvini di aver  gestito irregolarmente il pentito Matino Siciliano, e chiedendo l’adozione degli
opportuni provvedimenti.
Il 15 novembre 1995, a conferma che a sostenere Grazia Pradella c’è il vertice della procura della
Repubblica di Milano, “Il Corriere della sera” pubblica, sotto il titolo “La Procura: Piazza Fontana,
illegittime le indagini di Salvini”, le dichiarazioni del pubblico ministero Ferdinando Pomarici che
sostiene come la competenza a svolgere le indagini sia del Tribunale di Catanzaro e non di quello
di Milano.
A difesa di Ferdinando Pomarici interviene il procuratore della Repubblica, Saverio Borrelli, il quale
però viene zittito dal giudice istruttore Guido Salvini che, in una lettera indirizzata a lui e al
Consiglio  superiore  della  magistratura,  stigmatizza  il  comportamento  dei  rappresentanti  della
pubblica accusa:
“”…Mi smentisca il procuratore capo – scrive Salvini – se ne è in grado, dal luglio del 1988
all’aprile 1995, nessun sostituto ha mai assistito o personalmente condotto un solo atto istruttorio
sull’eversione di destra, che pure h colpito Milano con due stragi e una serie infinita di attentati”.
La  procura  della  Repubblica  di  Milano  di  cui  Ferdinando  Pomarici  e,  ancor  più,  Gerardo
D’Ambrosio sono figure eminenti per sette anni ha ignorato le indagini condotte dal giudice Guido
Salvini sulla strage di piazza Fontana, salvo intervenire per cercare di bloccare l’inchiesta, da un
lato, con obiezioni giuridiche come la competenza ad indagare che spetterebbe ai giudici di
Catanzaro e non a quelli di Milano, dall’altro, permettendo al sostituto procuratore Grazia Pradella
di tentare di bloccare l’inchiesta mettendo sotto accusa lo stesso giudice istruttore Guido Salvini
accusato, come abbiamo visto, di avvalorare i depistaggi del Sismi e dei carabinieri del Ros che
accusano l’ “innocente” Carlo Maria Maggi ed i suoi colleghi di Ordine nuovo.
Dopo sette anni di assenza, quindi, la procura della Repubblica di Milano interviene non per
supportare le indagini del giudice istruttore Guido Salvini sulla strage di piazza Fontana ma per
bloccarle e vanificarle in concorso con Felice Casson.
La conferma giunge il 27 novembre 1995, quando il pubblico ministero veneziano invia alla procura
della Repubblica di Brescia, competente ad indagare sui giudici di Milano, gli atti relativi ai rapporti
fra il Sismi e il pentito ordinovista Martino Siciliano.
L’intento, chiarissimo, è quello di mettere ufficialmente sotto accusa Guido Salvini obbligandolo a
rinunciare al prosieguo delle indagini.
Non soddisfatto, il Casson, il 1° dicembre incarica la Digos di richiedere alla direzione del Sismi
“quando si verificarono a Roma gli incontri tra il d. Guido Salvini e i vertici del Sismi e chi vi
partecipò”, disponendo l’acquisizione di tutto il materiale relativo a questi incontri.
Il direttore del Sismi, generale Sergio Siragusa, “stante la particolare delicatezza della vicenda”, si
rivolge alla presidenza del Consiglio per ottenere l’autorizzazione necessaria per aderire alla
richiesta di Felice Casson.
Il 14 dicembre 1995 la presidenza del Consiglio risponde al direttore del Sismi con una nota nella
quale scrive che “senza entrare nel merito della richiesta debba rappresentare al dr. Casson –
informando per conoscenza il dr. Salvini – che l’incontro della documentazione d’interesse potrà
avvenire soltanto previo nulla Osta della Autorità giudiziaria di Milano, a quest’ultima direttamente
richiesto dalla Procura della repubblica di Venezia, nel contesto di rapporti fra Autorità giudiziarie”.
Per Felice Casson ed i suoi amici è la prima sconfitta.
Il giorno successivo, 15 dicembre, il sostituto procuratore della Repubblica di Brescia, Antonio
Chiappani, chiede spiegazioni a Felice Casson in merito alla competenza in base alla quale ritiene
di poter indagare sul conto del giudice istruttore milanese Guido Salvini.
L’illegalità del comportamento di Felice Casson è evidente, ed è sottolineata dallo stesso Guido
Salvini che, il 20 dicembre 1995, in una lettera inviata al presidente del Consiglio, Lamberto Dini, al
direttore  del  Sismi,  Sergio  Siragusa,  e  allo  stesso  Casson  scrive  di  non  autorizzare  “la
comunicazione di alcuna notizia in merito ad incontri fra lo scrivente e i “vertici del Sismi”, come
richiesto  dalla  procura  di  Venezia  tramite  la  locale  Digos.  Si  tratta  infatti  di  indebita  e
incomprensibile ingerenza nelle attività di indagine di questo Ufficio in materia di eversione di
destra che si attua per di più al di fuori di qualsiasi competenza processuale”.
Il Consiglio superiore della magistratura e il ministro della Giustizia metteranno però sotto accusa
Guido Salvini, non Felice Casson che, sicuro delle protezioni politiche e giudiziarie da sempre
godute, il 21 gennaio 1996 indizia di reato per favoreggiamento nei confronti del pentito Martino
Siciliano ed abuso di ufficio il direttore del Sismi, generale Sergio Siragusa.Nonostante le battute d’arresto, il tentativo di fermare l’inchiesta sulla strage di piazza Fontana
prosegue.
L’11 aprile 1996 il Consiglio superiore della magistratura comunica al giudice istruttore Guido
Salvini la deliberazione di iniziare nei suoi confronti il procedimento per il trasferimento d’ufficio.
Il  25  maggio  1996,  in  base  ad  un  esposto  presentato  da  Felice  Casson,  la  procura  della
Repubblica di Brescia iscrive nel registro degli indagati Guido Salvini, come atto dovuto.
Lo diciamo subito: Guido Salvini sarà assolto dal Consiglio superiore della magistratura che non
troverà elementi a suo carico per disporne il trasferimento ad altra sede giudiziaria, e prosciolto
dalla procura della Repubblica di Brescia che chiederà ed otterrà l’archiviazione per l’infondatezza
delle accuse mossegli da Felice Casson.
La gravità del comportamento del Consiglio superiore della magistratura che non aprirà alcun
procedimento  disciplinare  a  carico  di  Felice  Casson,  nonostante  la  palese  illegalità  dei  suoi
comportamenti, rimane come un atto di accusa non cancellabile sul piano storico nei confronti dei
vertici della magistratura italiana e del suo organo di autogoverno delegato a tutelare personaggi
come  Felice  Casson  che  avrebbero  dovuto  essere  estromessi  dalla  magistratura  per  una
questione di pulizia morale.
Il castello accusatorio costruito da Felice Casson per bloccare l’inchiesta sulla strage di piazza
Fontana e presentare Carlo Maria Maggi come la “vittima” innocente del Sismi, dei carabinieri, dei
testimoni a carico, frana il 13 giugno 1996, giorno in cui la stessa procura della Repubblica di
Milano  è  costretta  ad  inviare  al  pubblico  ministero  veneziano  copia  delle  trascrizioni  delle
intercettazioni telefoniche dalle quali si evince, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Carlo Maria
Maggi ha ricevuto soldi da Delfo Zorzi e che l’esposto da lui presentato il 29 luglio 1995 era inserito
nell’ambito di una comune strategia difensiva.
La sconfessione delle ipotesi e dell’operato di Felice Casson non poteva essere più totale, ma se
strumentale era stato l’esposto di Carlo Maria Maggi non meno strumentale era l’uso che ne era
stato fatto dal pubblico ministero veneziano che, in comune con l’imputato per strage aveva
l’obiettivo di bloccare l’inchiesta, che allargava il numero degli esecutori materiali dell’eccidio del 12
dicembre 1969 da Franco Freda e Giovanni Ventura ai loro colleghi veneziani e mestrini.
La procura della Repubblica di Milano prende atto che tentativo affidato a Felice Casson di fermare
le indagini su Carlo Maria Maggi ed i suoi complici è fallito, che le indagini condotte dal giudice
istruttore Guido Salvini non possono essere più considerate sbagliate o, peggio ancora, depistanti,
ma non rinuncia ad interferire ufficialmente per prendere in mano la direzione dell’inchiesta.
Infatti, il 23 luglio su ordine della procura della repubblica di Milano sono arrestati quattro ex
militanti di Ordine nuovo per reati minori come il favoreggiamento e la reticenza.
Il solo risultato raggiunto dal pubblico ministero Grazia Pradella è quello di far chiudere le bocche a
quanti potevano parlare e stavano parlando, favorendo il lavoro investigativo condotto tramite
intercettazioni telefoniche ed ambientali.
Il  29  luglio  1996,  è  lo  stesso  Gerardo  D’Ambrosio  a  scendere  in  campo  polemizzando
pubblicamente con Guido Salvini il quale, a suo avviso, “sotto il profilo tecnico…non ha alcuna
veste per indagare”.
Nel mese di settembre il procuratore generale presso la Corte di cassazione, Galli Fonseca, inizia
un procedimento disciplinare a carico del giudice istruttore Guido Salvini, ma nello stesso mese
Gerardo D’Ambrosio è costretto ad affiancare a Grazia Pradella il sostituto procuratore Massimo
Meroni che intende svolgere il suo compito in maniera semplicemente onesta.
L’inchiesta sulla strage di piazza Fontana si sviluppa fra accuse, veleni, tentativi di depistaggio e
boicottaggi che vedono come protagonisti magistrati che, viceversa, avrebbero dovuto essere uniti
e solidali nella ricerca della verità.
Invece, il 15 ottobre 1996, il pubblico ministero Grazia Pradella, nel corso di una sua audizione
dinanzi al Consiglio superiore della magistratura, accusa il giudice Guido Salvini di ostacolare le
sue indagini.
La procura della  Repubblica di  Milano ha atteso ben sette  anni per  interessarsi  all’inchiesta
condotta da Guido Salvini ma, dal momento in cui è intervenuta, ha posto sotto accusa, con la
frenetica collaborazione di Felice Casson, il titolare dell’inchiesta e cercato di screditare i testimoni
alle cui dichiarazioni mostra ostentatamente di non credere.
Si ritiene che i rapporti fra i “collaboratori di giustizia” e i pubblici ministeri siano buoni, se non
proprio idilliaci, ma quella fra Carlo Digilio e Grazia Pradella fa eccezione.Il 18 gennaio 1996, il pentito cardine dell’accusa contro Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi rifiuta di
rispondere alle domande di Grazia Pradella se non assistito dal suo avvocato.
Un  fatto  anomalo,  ma  Digilio  intende,  in  questo  modo,  tutelarsi  e  difendersi  da  un  pubblico
ministero la cui ostilità nei suoi confronti è palese.
La Pradella ne approfitta per chiedere ed ottenere dal procuratore della Repubblica, Saverio
Borrelli, la revoca della protezione accordata al pentito che, comunque, il diritto di farsi assistere
dal suo avvocato lo aveva.
E’ una decisione gravissima ed immotivata perché imporrà all’ex informatore della Cia e amico
intimo di Carlo Maria Maggi di tacere per sempre o, addirittura, di ritrattare per paura.
Qualcuno in procura se ne rende conto se, alla fine, cedendo alle insistenze del giudice Guido
Salvini  recede  dalla  decisione  che  poteva  significare  la  fine  dell’inchiesta,  e  rimettere  sotto
protezione il “collaboratore di giustizia”.
Sull’attendibilità  dell’altro  pentito  ordinovista  dell’inchiesta,  Martino  Siciliano,  la  procura  della
Repubblica di Milano aveva avuto una prova già il 31 gennaio 1996, quando era stata intercettata
una telefonata fra gli ordinovisti Andreatta e Montagner nel corso della quale il primo, riferendosi al
pentito, aveva affermato: “E di conseguenza o gli davi un calibro nove sulla testa o gli davi cento
milioni.”
Il 18 maggio 1998, Martino Siciliano si allontana dall’ufficio del giudice istruttore Clementina Forleo
dopo aver visto che pubblico ministero nell’incidente probatorio relativo al processo per la strage di
piazza Fontana era Grazia Pradella.
Nel corso di un’intervista concessa a Mario Consani per il quotidiano “Il Giorno”, Martino Siciliano
spiegherà il suo comportamento in questo modo:
“E’ stata una scelta determinata dalla presenza in quell’aula del pm Grazia Pradella, che si è
sempre dimostrata ostile al sottoscritto e non ha mai creduto a quello che le veniva raccontato.
Quando me la sono vista davanti, ho deciso di andarmene, perché non trovavo giusta la sua
presenza in quel contesto. E’ stato questo l’unico motivo”.
Non poteva mancare l’attacco al sottoscritto, bersaglio primo del trio Casson-D’Ambrosio-Pradella,
non  pubblicizzato  perché  non  appartenente  al  novero  dei  “collaboratori  di  giustizia”  o  dei
“dissociati”, e, soprattutto, mai smentito da alcuno.
Il 16 gennaio 1997, dinanzi alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, si
svolge l’audizione di Gerardo D’Ambrosio e Grazia Pradella.
Il primo dichiara:
“Verificammo anche la storia dell’Aginter Presse e avemmo la spiacevole sensazione che fosse
stata anche quella un depistaggio…”.
Il solo a portare avanti, da sempre, la tesi dell’operazione internazionale nel cui ambito si compiere
la strage di piazza Fontana è chi scrive che ha sempre fatto riferimento anche - ma non solo - alla
partecipazione all’operazione del 1969, non circoscritta al solo eccidio del 12 dicembre 1969,
dell’Aginter Presse, l’organizzazione spionistica ed operativa guidata da Yves Guerin Serac.
L’attacco di Gerardo D’Ambrosio era, pertanto, esplicito e veniva avallato dal presidente della
Commissione, il repubblicano Libero Gualtieri che rincara la dose dichiarando:
“Non possiamo prendere le carte che ci vengono da collaboratori di questo magistrato (Guido
Salvini – Ndr) che non stanno né in cielo né in terra”.
Peccato per Felice Casson, Gerardo D’Ambrosio e Grazia Pradella che Libero Gualtieri sarà
accusato personalmente da Francesco Cossiga di essere stato sempre in ottimi rapporti con i
servizi segreti italiani fin dal 1961, quando nel corso del congresso del Partito repubblicano a
Ravenna, aveva distribuito soldi ai congressisti insieme agli agenti del Sifar per favorire l’elezione
a segretario del partito di Ugo La Malfa a scapito di Randolfo Pacciardi.
Insomma, se questo è il pulpito….
In  pratica,  quando  la  procura  della  Repubblica  di  Milano,  dopo  sette  anni,  è  obbligata  ad
interessarsi alla nuova inchiesta sulla strage di piazza Fontana, lo fa per contestare e mettere sotto
accusa il giudice istruttore Guido Salvini e i testimoni che puntano l’indice accusatorio contro la
cellula spionistica veneta protetta dal ministero degli Interni.
Dinanzi all’evidenza delle prove, i pubblici ministeri non potranno far altro, alla fine, che chiedere il
rinvio a giudizio di Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Carlo Digilio ed altri per concorso nella strage di
piazza Fontana, disposto dal giudice istruttore Clementina Forleo.Grazia  Pradella  si  esibirà  ancora,  nell’aula  della  Corte  di  assise,  in  attacchi  scomposti  al
sottoscritto che rifiuterà, con disprezzo, di rispondere alla sola domanda che ella voleva porgli e,
infine, lo stesso Gerardo D’Ambrosio sarà obbligato ad estrometterla di fatto dal processo in cui
l’accusa sarà rappresentata dal solo sostituto procuratore Massimo Meroni, in via ovviamente
ufficiosa, perché era divenuto grottesco lo spettacolo offerto da un pubblico ministero impegnato a
screditare i testimoni a carico, per primo chi scrive.
La  Pradella  è  oggi  tornata  all’anonimato  ed  all’oscurità  che  le  convengono,  mentre  Gerardo
D’Ambrosio e Felice Casson sono senatori del Partito democratico.
La procura della Repubblica di Milano ha chiuso una nuova inchiesta sulla strage di piazza
Fontana affermando che non ci sono elementi nuovi per riaprire le indagini.
Possiamo ipotizzare che prosegue nel suo accanimento contro chi scrive sia perché da diversi
anni gli viene impedito di incontrare persone interessate alla storia italiana, in particolare a quella
relativa alla guerra politica, con la motivazione ufficiale che le sue dichiarazioni interferiscono con
inchieste giudiziarie in corso: e la sola inchiesta in corso era quella condotta dalla procura della
Repubblica di Milano sulla strage del 12 dicembre 1969.
Sia archiviando gli esposti necessariamente presentati dal sottoscritto per episodi di sottrazione e
violazione della corrispondenza che hanno come protagonisti secondini in servizio nel carcere di
Opera, l’ultimo dei quali risale al novembre 2011, il primo alla primavera del 2000.
A non farli, gli esposti, si cancellano le tracce dei reati compiuti in questo carcere contro chi ha la
colpa di cercare la verità.
A farli non si ottiene altro che la prova che la procura della Repubblica di Milano, oggi diretta da
Bruno  Liberati,  prosegue  nel  suo  accanimento  contro  chi  prosegue  nella  sua  battaglia  per
affermare la verità.
Abbiamo voluto ricostruire parzialmente i retroscena dell’inchiesta sull’eccidio del 12 dicembre
1969, a Milano, perché è doveroso far conoscere ai lettori le ragioni autentiche per le quali la verità
sulla guerra politica non è stata ufficialmente affermata sul piano giudiziario né mai lo sarà.
La leggenda di una magistratura impegnata da sempre nella ricerca della verità deve finalmente
essere smentita per essere smentita dal documentato racconto della realtà che ha visto singoli
magistrati disposti ad indagare con onestà sui fatti, osteggiati da altri loro colleghi, dai vertici della
magistratura, da politici di destra, centro e sinistra con il codazzo si giornalisti e storici sul loro libro
paga.
Gerardo D’Ambrosio, spalleggiato da Felice Casson e Grazia Pradella, ha cercato di difendere la
sua risibile tesi della unica responsabilità della “cellula nera” padovana, si è affidato per le indagini
al solito ministero degli Interni noncurante che uno degli uomini accusati di avere materialmente
eseguito l’eccidio del 12 dicembre 1969, Delfo Zorzi, era un confidente del servizio segreto civile
che  mai  potrebbe  ammettere la  circostanza  perché  significherebbe  confessare  il  ruolo  avuto
nell’operazione del 1969 e nella strage di Stato della banca dell’Agricoltura di Milano.
Affidarsi ancora, nonostante tutto, al ministero degli Interni ha significato precludersi la possibilità
di giungere ad una verità sulla responsabilità di un dicastero che in quegli anni ha avuto come
compito la destabilizzazione dell’ordine pubblico ed oggi si sente obbligato a negare questa sua
responsabilità.
Non possiamo credere all’ingenuità di Gerardo D’Ambrosio che non si sarebbe reso conto, negli
anni Settanta, che dietro Franco Freda e Giovanni Ventura c’erano, insieme al Sid, il ministero
degli  Interni  e  la  divisione  Affari  riservati,  e  che  negli  anni  Novanta  ha  continuato  a  non
comprendere che alle spalle di Delfo Zorzi e colleghi c’erano sempre il ministero degli Interni ed il
servizio segreto civile, così che ha affidato al palo le indagini sui rapinatori.
Sì, il ministero degli interni ha posto a disposizione di Grazia Pradella una scorta armatissima ed
imponente la cui ingombrante presenza ha suscitato alla fine le proteste dei vicini di casa di questo
pubblico  ministero,  ma  anche  questo  rientra  nell’ambito  di  quelle  sceneggiate,  pagate  dai
contribuenti, per dimostrare che lo Stato protegge la vita dei magistrati impegnati a cercare la
verità sul “terrorismo nero”.
Ancora oggi, l’amico e collega di Gerardo D’Ambrosio, Felice Casson ricorda con terrore che a lui
lesinavano  le  scorte,  ma  se  qualcuno  si  deciderà  a  chiedere  a  questo  personaggio  chi  lo
minacciava non saprà neanche da che parte iniziare a rispondere.
E  su Felice  Casson  che,  come  abbiamo visto,  è stato  il  protagonista  primo  del  tentativo  di
proteggere Carlo Maria Maggi e gli ordinovisti veneti, sarà bene ricordare il giudizio espresso sulsuo conto dal procuratore della Repubblica di Venezia, Vittorio Borracetti, il quale ha scritto che
costui ha mostrato “particolare dedizione nei procedimento riguardanti fatti gravi e di elevata
rilevanza  sociale”  mentre  “ha  avuto  minore  attenzione  e  diligenza  per  la  generalità  dei
procedimenti per fatti ordinari”.
In altre parole, secondo il suo superiore gerarchico, Felice Casson si è impegnato in quelle
inchieste che gli permettevano di finire sulle pagine dei giornali e ha trascurato tutti gli altri: uno
speculatore giudiziario per il quale la propaganda era la condizione per entrare in politica.
Anche Felice Casson, come Gerardo D’Ambrosio, ha sempre avuto come fine la difesa ad oltranza
del ministero degli Interni e del servizio segreto civile fino al punto di depistare le indagini per
proteggerne i funzionari, fra i quali il capo della polizia Angelo Vicari e il direttore della divisione
Affari riservati, Umberto Federico D’Amato.
La  fiducia  dei  due  magistrati  nel  ministero  degli  Interni  non  ne  ha  danneggiato  la  carriera
giudiziaria e, tantomeno, quella politica ma solo la verità sulla guerra politica.
E’ giunto il momento, a nostro avviso, per il senatore Gerardo D’Ambrosio di scoprire il pudore del
silenzio,  rifiutando le interviste sulla “cellula nera”  padovana,  godendosi i privilegi del seggio
senatoriale e, infine, decidendosi ad andare in pensione in silenzio.
Sul senatore Gerardo D’Ambrosio, come su tanti suoi colleghi, sarà la Storia a parlare e ad
esprimere un giudizio finale che non sarà di assoluzione, neanche per insufficienza di prove, ma
solo di condanna.
Vincenzo Vinciguerra