venerdì 24 luglio 2020

FILOSOFIA DELLA SALUTE di Silvano Borruso


FILOSOFIA DELLA SALUTE
Preliminari
Se lo studio della filosofia fosse rimasto, come suggeriva S. Tommaso, una ricerca della verità e non un catalogo di pensatori più o meno bendati che danno colpi a vuoto, avremmo avuto, per il XX secolo, una filosofia per ognuno dei campi del sapere: della scienza, del linguaggio, dell’economia e via dicendo.
Purtroppo non è stato così. Dall’abbandono del principio e metodo scolastici, la filosofia ha perduto i suoi strumenti di ricerca. Il risultato è sotto gli occhi non di tutti, ma di chi si inoltra, anche brevememte, negli anfratti delle facoltà omonime. Cosa vi trova? Vi trova adepti (si stenta a chiamarli “filosofi”) che avanzano a tentoni senza principio né metodo.
Se vi fossero un tale principio e metodo, i medici comincerebbero definendo la salute per poi investigare le cause di una perdita di essa. Ma una tale filosofia non esiste. Esistono ipotesi, promosse a teoria senza passare per le forche caudine della sperimentazione. Per imporre le quali esistono potenti organizzazioni che “certificano” chi passa per le loro forche caudine, in realtà asserendo non più del fatto che il detentore del variopinto pezzo di carta ha passato un certo numero di prove messe su, giudicate e approvate da “professori” da loro qualificati.
C’è chi scopre principi e metodo con l’esperienza. Molti anni fa ebbi la gran fortuna di attendere due lezioni di pronto soccorso da un medico con 40 anni di pratica in Africa. Tra le cose che non dimenticherò mai ci disse:
“Noi medici non curiamo niente. Non possiamo. Il nostro compito è di stare attorno al paziente, ispirando confidenza e serenità, mentre la natura si occupa di restituirgli la salute”.
Il grosso dei medici, specialmente se alle prime armi, non sospettano la saggezza di codeste parole da Ippocrate redivivo, ma seguono, con una sicumera degna di miglior causa, non una ma tre false filosofie, retaggio di altrettanti ciarlatani immeritatamente promossi a idoli.
Teofrasto Bombasto von Hohenheim, detto Paracelso (1493-1541)
Svizzero, gran viaggiatore e scrittore, viene chiamato “padre della tossicologia”, per aver scoperto che nessuna sostanza è tossica al di sotto di un certo limite, e che tutte lo sono al di sopra di un altro.
Scoprì anche che un farmaco (anche di origine minerale) poteva far sparire certi sintomi, dando così l’impressione di aver curato la malattia. Con questa teoria fa i soldoni oggi un’industria farmaceutica con giri di miliardi, il cui interesse è far vivere la gente a lungo, ma permanentemente inferma di qualcosa. E ci riesce, grazie a un’armata di medici addestrati, quando non lautamente retribuiti, dai suoi imbonitori.
René Descartes, detto Cartesio (1596-1650)
Francese, padre della geometria analitica e nemico giurato della filosofia Scolastica, fu l’inventore del metodo anti-filosofico cogito ergo sum, cioè l’illusione che il pensiero umano sia all’origine della conoscenza, e non le cose che esistono indipendentemente da esso.
La medicina ufficiale prende ordini da due dettami del Nostro: primo, che corpo e anima sono due sostanze separate, ognuna con le sue leggi; secondo, che il corpo umano è una macchina, per cui ad un certo stimolo corrisponde invariabilmente una certa reazione.
L’applicazione pratica del principio e metodo cartesiani, nella medicina ufficiale, è il protocollo, dettato da una diagnosi non da un medico in persona, ma da una macchina che compone una base di dati raccolti da numerose prove di sangue, urina ecc.
Ma Natura non irridetur. A volte il protocollo funziona, a volte no, e data l’immensa varietà degli esseri umani, nessuno può prevederne il risultato finale. Quando è il decesso, se il medico curante ha seguito il protocollo viene automaticamente scagionato da ogni responsabilità. Se ha agito in scientia et conscientia, cioè criterio personale, egli viene automaticamente incolpato delle conseguenze. Giudichi il lettore quanto ciò giovi al paziente, al medico, alla scienza e all’umana società.
Louis Pasteur (1822-1895)
Francese, padre della teoria del monomorfismo microbico all’origine delle malattie, della disinfezione, del termine virus, della vaccinazione generalizzata, e quant’altro. È impossibile affermare chi dei tre abbia causato più danni. È possibile invece affermare che senza i tre, e liberandosi non da Ippocrate ma da Galeno, che per secoli tenne la medicina all’oscuro, l’ecatombe del 1918 (la spagnola), lo stillicidio di morti inutili durante il secolo XX e la falsa pandemia del 2020 non sarebbero accadute.
Questo saggio si propone di esporre una filosofia della salute e non della scienza medica, per una ragione squisitamente filosofica: le più che 4mila “malattie” elencate dalla medicina ufficiale, non esistono. Nessuno si è mai imbattuto in una sola di esse. Esistono invece gli ammalati, ognuno dei quali soffre di un disordine o di una combinazione di essi unica, e pertanto non ripetibile. E dato che de particularibus non est scientia, come ammonivano gli Scolastici, non vi può essere una scienza delle malattie o degli ammalati. Vi può solo essere una scienza di quello che metafisicamente è un ordine di ciò che è, la salute.
Il saggio vertirà quindi sulla definizione, cause ed effetti, relazioni ecc. della salute, sia  corporale sia spirituale, e di cosa accade quando quell’ordine viene violato per una ragione qualsiasi. In altre parole, tratterà di una teoria della salute, dove tutti e solo i suoi elementi trovano un posto. Sarà quindi una scienza di universali, applicabile a ogni membro della specie umana senza eccezioni.
Che cos’è la salute corporale?
Un filosofo distratto potrebbe cominciare cercando di definire il suo soggetto, ma sarebbe richiamato presto all’ordine dal breve testo di De Ente et Essentia dove S. Tommaso ammonisce  che solo un ens con essenza, cioè una sostanza, è passibile di definizione.
E non sempre. Degli esseri viventi, per esempio, benché siano tutti sostanze, l’uomo ignora l’essenza. Per cui si deve contentare di descrizioni più o meno superficiali, accettando che la mente umana è incapace di penetrarne l’essere fino a raggiungerne l’essenza.
E la salute? Essa non è sostanza, per cui non ve ne può essere una definizione. Si può solo descriverla seguendo le gradazioni del metodo scientifico: osservazione, enunciato del problema, ipotesi, esperimento, teoria. Tentiamolo.
La salute è l’ordine di due flussi concomitanti: Il primo, di sostanze nutritive che, partendo dalla microflora del suolo, raggiungono il sangue e da questo le cellule dopo aver attraversato radici, fusti, foglie e frutti di piante commestibili, e il canale alimentare.
Il secondo è di sostanze tossiche dovute al metabolismo, che ritornano al medio ambiente dopo aver attraversato uno o più dei quattro grandi emuntori del corpo umano: intestino, reni, polmoni, pelle. Lunghetta la descrizione, ma adatta, penso, alla bisogna.
Se non vi sono ostacoli a nessuno dei due flussi, vi è salute. Se l’uno, o l’altro, o entrambi, vengono disturbati o peggio ostacolati, ecco apparire tutta una congerie di sintomi che la medicina ufficiale chiama “malattia”. Così facendo, essa medicina ufficiale promuove sintomi miscugli di qualità e relazione, ossia accidenti esistenti in una sostanza e non di diritto proprio, a sostanza, che per definizione esiste di diritto proprio e non in qualcos’altro.
Ecco perchè codesta medicina è incapace di definire, o anche descrivere, la salute. Se dice “assenza di malattia” prende non uno ma due granchi: a) considera la malattia come res, cosa; b) fa uso di una proposizione negativa, il peggior tipo che vi sia. Dire poi “benessere” o “buono stato” sono esercizi semantici senza valore alcuno.
Consideriamo ora che mentre per le malattie i sintomi sono legione, per la salute essi sono pochi, chiari, universali, ma soprattutto misurabili e quindi gestibili. Diamo loro un’occhiata.
I sintomi della salute
La salute ha sette sintomi: il sonno, l’appetito, la defecazione, la minzione, la forma fisica, la difesa effettiva contro agenti invasori, e la chiusura rapida delle ferite. Codesti sintomi non sono indipendenti, ma connessi. Analizziamoli:
1.      Il sonno
Passiamo un terzo della vita dormendo, o dovremmo. Ma troppe cose ci impediscono di farlo come natura vuole.
Per essere effettivo, il sonno deve essere profondo e a tempo, cioè di notte. Addormentarsi disordinatamente conduce inevitabilmente ad altri disordini, che non c’è maniera di prognosticare, essendo diversi l’uno dall’altro.
Il sonno ristora le forze spese di giorno, ma ecco un secondo problema: la vita sedentaria di molti non crea quel senso di salutare stanchezza che fa dormire bene. La vita contadina, con una attività fisica moderata ma incessante, era ideale per conciliare un buon sonno. Chi fa una vita da atleta (fino a quando le forze glie lo consentono), ha bisogno di più ore di sonno, fino a dieci dalle sette-otto di chi fa vita ordinaria.
Diceva Ippocrate: “Camminare è la miglior medicina”. C’è chi raccomanda 45 minuti giornalieri per raggiungere il grado di stanchezza che permetta un sonno profondo. Come sempre, per alcuni funziona, per altri no. Questo paragrafo è solamente un suggerimento.
Il sonno è anche terapeutico. Quando un ammalato cade in un sonno profondo è buon segno. Si sveglierà da sé forse non guarito, ma certo migliorato. Il sonno induce le cellule del corpo a liberarsi di tossine da espellere per mezzo di uno dei quattro grandi emuntori su elencati.
L’insonnia non è “malattia”, ma un sintomo di salute che sparisce. Trovarne la causa non è facile, data l’umana diversità commentata sopra. Qui entra la sperimentazione, meglio se sotto controllo di un medico che capisca.
Privarsi di sonno per qualunque motivo prima o poi fa apparire un insieme di sintomi che la medicina ufficiale promuove a malattia, e tenta di curare con un farmaco. Ma i farmaci non curano: trasferiscono un sintomo da qui a li, per venire sostituito da un altro sintomo, così prolungando la vita dell’infermo, e foraggiando l’industria di chi vive a spese di chi sta male.
L’organo del sonno è il corpo nel suo insieme. Ecco perché va messo al principio, per farlo seguire dai sei sintomi che rimangono.
2.      L‘appetito
Facciamo il nostro ingresso nel canale alimentare, e capiremo presto perchè Ippocrate di Kos  (460-370 a.C.) aveva, tra i suoi aforismi, “Tutte le malattie cominciano nelle budella”.
La prima percezione è capire che esistono due appetiti, uno vero e uno falso. Quello vero è determinato da uno stomaco vuoto, che richiede cibo senza mezzi termini. Quello falso è determinato da cattive abitudini, specialmente il mangiare disordinato. Come distinguerli? Bevendo acqua, l’appetito falso sparisce. Quello vero rimane, quindi va soddisfatto.
Ma come e quando? Mangiare a casaccio è disordine, foriero inevitabile di disordini ulteriori.
Si mangia con ordine prestando attenzione al ciclo digestione – assimilazione – eliminazione, così da gestire il primo flusso salutifero e parte di quello escretivo, come vedremo subito.
In un soggetto sano, questo ciclo dura circa 14 ore da ingestione ad eliminazione. Se dura di più, qualcosa non funziona, ma non esiste una diagnosi universale: bisogna esaminare le proprie abitudini con il pettine fine fino a dare nel segno. Ma seguiamo il ciclo naturale.
“Quanto, come e cosa mangiare”?, non sono domande oziose, ma vitali per mantenersi in salute. Il volume naturale per qualsiasi pasto è quello di un pugno chiuso. “Pochissimo” diranno i più. E lo dicono perchè il principio fisico che è alla base non solo del nutrirsi ma anche della tecnica del trattamento del cibo (vulgo “cucina”) viene loro occultato da una scuola inutile che Giovanni Papini (1881-1956) nel lontanissimo 1914 già proponeva di chiudere.[1]
Questo principio è il rapporto tra superficie e volume, che interessa non solo i due campi suddetti, ma molti altri che esulano da questo saggio. Se un detto latino dice “prima digestio fit in ore” è perché masticando a fondo tutto quello che si mangia si fa aumentare geometricamente la superficie di cibo attaccata dai succhi gastrici, mentre il volume del cibo deglutito rimane lo stesso. Se si conta il numero di masticazioni per ogni boccone, si arriverà a una media di 30. Masticare richiede tempo, ma questo è proprio il punto: mettendo in bocca bocconi piccoli si ha tempo per conversare e pensare, senza aumentare a dismisura la quantità che stomaco, intestino e colon dovranno trattare nelle prossime 14 ore. E si soddisfarrà l’appetito con il “pugno chiuso”.
Cosa mangiare è questione di idiosincrasia personale, della quale non vi è scienza come già notato. Ma esistono dei principi validi che assicurano la salute applicandoli.
Si fa colazione al tempo dell’eliminazione. Sia che si preferisca salata, o dolce, o di qualunque altro gusto, è bene cominciarla con frutta fresca e polposa, che facilita l’eliminazione di scorie dal cibo ingerito il giorno prima e assimilato durante la notte.
Si pranza alla fine dell’eliminazione e all’inizio della digestione. Non importa quello che si mangia, purchè non si violi il doppio principio del pugno chiuso e della masticazione a fondo. Lo stomaco si incaricherà di completare la digestione nelle prossime tre-quattro ore.
Si cena abitualmente al tempo della fine della digestione e dell’inizio dell’assimilazione. Dal già detto si dovrebbe evincere che codesto pasto è più una questione di moda e di abitudini non sempre sane che di necessità. Non per niente un proverbio ispanico recita “Di buone cene son le tombe piene”, corroborando Ippocrate con il suo “ogni malattia comincia nelle budella”.
Le cattive abitudini mangerecce sono numerosissime. Ne esporrò alcune per darne una idea, senza pretendere di esaurirle.
Mangiare senza appetito, cioè senza un evidente sintomo di salute. Se l’appetito sparisce, è segno che il corpo ha bisogno delle sue energie per far fronte a problemi diversi dalla digestione. Seguiva Ippocrate: “Ognuno di noi ha un dottore dentro di sé. Sono le forze vitali che vogliono fare il loro lavoro indisturbate, o meglio essere aiutate, non ostacolate.” Ingerendo cibo in uno stomaco non preparato da un salubre appetito, si invita il cibo ingerito a fermentare anaerobicamente producendo veleni. Questi vanno espulsi, ma lo saranno? A volte sí, a volte no. Il rischio, comunque, è meglio evitarlo.
Mangiare senza masticare. Da diversi anni il Guinness Book of Records non registra primati da ingestione di cibo. La ragione è che questa pessima pratica è risultata letale per un certo numero di sprovveduti. Uno di costoro fu un giovane di 26 anni che voleva battere il record di ingestione di lumache, che mandava giù senza masticare. L’indigestione lo uccise. La mancata masticazione porta invariabilmente ad eccedere il volume del pugno chiuso, inghiottendo cibo voluminoso ma con poca superficie di attacco per i succhi gastrici. La fermentazione sostituisce la digestione, con risultati deleteri.
Mangiare senza un orario che secondi il ciclo naturale visto sopra. Durante la digestione naturale, nel pomeriggio, è possibile esser tentati da qualche manicaretto incontrato qui o là, e mangiato senza bisogno. Aggiungere una seconda digestione ad una già in corso disordina il ciclo, disperdendo le forze vitali. Si mangia con gli occhi invece che con lo stomaco. Peggio se la digestione fuori tempo ha luogo durante l’assimilazione, di notte. Passando davanti a un frigorifero dirigendosi al bagno, si è tentati di aprirlo per vederne i contenuti, e ingestirne uno per semplice sfizio. Lo scontro tra le due funzioni non può non portare malessere, anche se non percepito immediatamente.
Ingerire cibo spazzatura. Gli ultimi 100 anni hanno visto la produzione, e continuano a vederla, di grandi quantità di sostanze piacevoli al palato, ma non appartenenti alla natura delle cose, e pertanto non riconosciuti dal corpo come cibo. Il primo esempio nel tempo fu la margarina, un grasso idrogenato lanciato sul mercato nel 1912. Invece di assimilarlo, il corpo lo spazza sotto il tappeto, cioè nei tessuti adiposi, e ve lo accumula. Chi ingrassa senza capire perché, troverà la ragione in questa pratica, spesso inosservata per pura ignoranza.
Mangiare cibo deficiente in elementi nutritivi. Codesto punctum dolens è di lunga data. Risale alle nefaste “scoperte” del barone Justus von Liebig (1805-1873). Si credeva, al tempo, che lo humus del suolo fosse il cibo naturale delle piante. Il barone “scienziato” sbugiardò quella credenza, provando che il cibo vero delle piante fossero invece i sali di azoto, fosforo e potassio. E così nacque l’industria dei concimi chimici, che tiene banco ancora oggi in tutti i paesi flagellati dall’agricoltura industriale, cioè con poca manodopera e potenti macchine.
Mai granchio fu più esiziale per la salute dell’uomo e del suo bestiame. Avvenne che il buon barone, chimico specializzato ma ignorante di biologia, non capì la vera funzione del cosiddetto humus. Cerchiamo di capirla qui.
Lo humus è un sustrato vivo, detto anche microflora del suolo. Consiste di una quantità tale di micro organismi come batteri, protozoi, vermi, molluschi, perfino crostacei, che una sua analisi completa non è mai stata fatta, né mai lo sarà, per l’eterna frustrazione della scienza.
Come si evince dalla descrizione della salute, la funzione di codesti microorganismi è di convogliare sostanze nutritive dai minerali del suolo alle radici dei raccolti, nel tempo e modo richiesti dalla natura.
È un processo che richiede tempo. I contadini di una volta sapevano che bisognava aspettare perché si formassero le radici, sulle quali crescevano vigorosi fusti, foglie e frutti di piante naturalmente resistenti a parassiti di ogni tipo, e che sintetizzavano praticamente tutti i composti organici responsabili per il mantenimento della salute di uomini e bestie.
I fertilizzanti artificiali fanno da scorciatoia che permette all’agricoltore lauti guadagni in breve tempo, con raccolti di apparenze bellissime, attraenti. Ma i proventi che aumentano a monte andranno spesi a valle in cure sanitarie, o in farmaci e integratori dispendiosissimi nonché inutili, pacchia dell’industria della malattia a spese di una salute  danneggiata da una insufficiente ingestione di elementi nutritivi.
Chi ricorda i sapori di una volta si accorge immediatamente dell’inganno: prugne ed angurie di peso da Guinness Book of Records ma insipide più di una zucca, e via assaggiando.
Per difendersi da un tale stato di cose bisognerebbe identificare tutti gli elementi nutritivi mancanti, impresa evidentemente impossibile. È possibile però adottare un regime quanto più possibile autarchico: un fazzoletto di terra anche di 100m2 può produrre meraviglie se gestito bene; c’è chi coltiva cibo in vasi da fiori di piccole dimensioni. Eccetera.
Chi deve acquistare cibo, lo faccia non da supermercati ma da aziende agricole famigliari (dove queste resistono), e che fanno uso del composto, non del fertilizzante chimico.
Anche così, non c’è garanzia che un certo cibo contenga proprio tutti gli elementi nutritivi per mantenere la salute. Ma è quanto di meglio si possa fare.
Ingerire  falsi cibi: il pane
L’industria alimentare usa numerosissimi additivi per “migliorare” cibi resi insipidi da trattamenti che ammalano il suolo quando non l’uccidono. La lista è lunga. Suggerirei di leggere attentamente gli ingredienti di quel cibo che si intenda comprare, particolarmente il pane, che da più di un secolo viene indebitamente impoverito dall’umana ingordigia.
Quando i mugnai macinavano il grano portato loro dagli agricoltori, bisognava ripetere l’operazione a breve scadenza, date le caratteristiche del chicco di frumento.
Questo, così come nel mais o qualunque cereale, consiste di tre elementi visibili anche ad occhio nudo o con una lente di ingrandimento. Essi sono il germe, che racchiude tutte le sostanze vitali che svilupperanno la pianta; l’amido, che provvede il nutrimento al germe durante la crescita iniziale; e la crusca, protettrice dei primi due, e ricca di proteine, che macinata provvede una superficie che facilita la digestione degli altri due elementi.
Macinati insieme, i tre elementi hanno una durata di conservazione non superiore ai tre giorni: dopodiché il germe diventa rancido ed immangiabile.
La difficoltà venne aggirata dall’invenzione del mulino a dischi piani, che separa nettamente i tre elementi l’uno dall’altro, ma dei quali solo l’amido viene panificato; con gli altri due si fanno cereali di lusso che, venduti separatamente, producono lauti proventi ai commercianti.
E il pane? L’amido ha una durata di conservazione praticamente illimitata, ma la la sua farina ha sapore nullo, per cui il gusto si “migliora” con “additivi”, primo di tutti lo zucchero.
Ma non è lo stesso pane di una volta. Un prigioniero a pane e acqua non sopravvivrebbe che pochi giorni. Gli insetti non si avvicinano neanche a un amido che riempie senza nutrire.
Chi si contenta gode, ma chi non si contenta ha oggi l’ausilio di potenti mulini elettrici portatili, capaci di macinare grosso, medio o fino la quantià richiesta non solo per panificare, ma anche per piatti come la polenta, la piadina di mais e altro.
Ma costa di più!, lamenta il patito del profitto capitalista. Evidentemente, ma questo è proprio il punto. In altri termini, la salute ha un prezzo, e se questo prezzo è lavoro, benvenuto sia.
3.      La defecazione
Completato il ciclo digestione-assimilazione-eliminazione, le scorie aspettano lo stimolo giusto per lasciare il corpo e ritornare al medio ambiente.
C’è più di quanto sembri in codesto processo. Quando le feci sono indicatrici di salute, e quando di disordine?
Primo, quando non puzzano, come quelle degli animali selvatici, la cui digestione è infallibilmente del 100%. Ciò vuol dire che contengono esclusivamente scorie indigeribili, mentre tutto il digeribile è stato digerito.
Da ciò non segue che feci maleodoranti siano sempre sintomo di fermentazione putrescente, dovuta normalmente a una masticazione insufficiente. L’intestino non è solo organo digerente, ma anche emuntore. Ecco perchè di tanto in tanto le feci puzzano, ma di odori, diciamo, ad hoc, non noti. Alcuni emuntori scaricano nell’intestino veleni che non riescono, o non devono perchè non è la loro funzione, espellere da sé.
I cinesi conoscono benissimo la sindrome. Ecco perchè prosperano in quel paese odoratori professionisti di gas intestinali, che practicano il mestiere per le strade diagnosticando il tipo di disordine e inviando il cliente dallo specialista giusto. Costoro guadagnano, si dice, attorno ai 50mila dollari annuali.
Secondo, quando affondano in acqua. Se galleggiano, contengono gas da qualche fermentazione indebita.
Terzo, quando escono senza sforzo. Un pane ricco di crusca garantisce una defecazione salutare, così come la garantiscono verdure crude. Una dieta sbilanciata verso cibi cotti, raffinati, povera di scorie, fa tendere alla stitichezza, cioè alla sparizione di un sintomo di salute. Il ciclo, che dovrebbe completarsi in circa 14 ore, si prolunga alle volte per giorni, facendo sì che veleni che dovrebbero esser espulsi, si riciclino, tornando al sangue e da li a dove causano mal di testa e altro.
Le feci sono anche capaci di chelare, cioè di espellere metalli pesanti e indebitamente trattenuti in seguito a vaccini contenenti alluminio, bario e altri elementi usati per “preservarli”, come raccontato dai produttori.
Secondo natura, le feci dovrebbero esser espulse al mattino, ma le abitudini della vita moderna, sedentarie e con tre pasti al giorno, può far ripetere il processo varie volte. Niente paura: quello che deve star fuori dal corpo stia fuori: si ascolti la natura, non le convenzioni.
4.      La minzione 
Il metabolismo delle proteine conduce alla produzione di urina, utilissimo sintomo di salute o di malattia secondo i casi. Quando è l’urina sintomo di salute?
Quando il suo pH supera 7, il punto neutro tra alcalinità e acidità. Cerchiamo di capire.
Il principio di base è la differenza tra reazioni chimiche inorganiche e organiche. Le prime, di materia senza vita, sono normalmente spontanee, esotermiche, cioè producenti calore, e ossidanti; i loro sottoprodotti sono composti o di ossigeno, o di cloro o di fluoro, e irreversibili a meno di impiegare energia per strappare l’elemento all’ossido. Un esempio per tutti: l’alluminio, che fino a metà del secolo XIX era raro come l’oro, viene oggi estratto industrialmente dal suo ossido bauxite con enormi quantità di energia idroelettrica.
  Le reazioni chimiche organiche, al contrario, di materia vivente, richiedono energia sotto forma di calore e di ossigeno; esse sono riducenti, cioè i loro prodotti contengono meno ossigeno di quanto permetterebbe la loro struttura complessiva. L’ossigeno che respiriamo provvede l’energia necessaria a mantenere la riduzione. Per cui fin che essa prevale, c’è vita; quando prevale l’ossidazione, morte. Capire questo principio è determinante per mantenere la salute e tener lontane le cosiddette malattie, ossia la svariatissima gamma di sintomi che la medicina ufficiale si sente in dovere di catalogare con nomi stravaganti come se fossero cose.
Qui va capito il pH, una scala logaritmica che va da 0 a 14. Ogni grado della scala rappresenta un ordine di grandezza, non una successione lineare. Per cui un pH 6 è dieci volte, un pH 5 cento volte più acido di pH7 e cosi via.
Il sangue, il tessuto più importante del corpo, ha un limite di tolleranza per il pH che va da 7,35 a 7,45. A scala logaritimica, pH 7,35 è 350% più alcalino, 7,45 450% più alcalino di pH 7; pH 8, 1000%, o dieci volte di più.
Il sangue possiede quattro sistemi tampone per proteggersi da eccessivi sbilanci. Un pH 7, neutro per l’acqua e per l’orina, è letale per il sangue.
L’urina non è che sangue filtrato dai reni, e depurato di elementi tossici o comunque non desiderabili. Il suo pH varia da 4.5 a 8, cioè di un fattore di 1500 tra acido e alcalino. La tolleranza è molto più ampia che per il sangue, per cui un’urina di pH 5-6 indica non più di una dieta ricca di elementi acidi. Ma se dovesse scendere a 4,5 o meno, attenzione: un sintomo di salute sparisce. La malattia, o sintomo di disordine, è dietro l’angolo.
Per cui il fattore più importante per una dieta salutare non sono le calorie o altre caratteristiche dettate da una moda o da un’altra. Checché si mangi, si preferiscano cellule vive a tessuti morti, cioè metà di quel che si ingerisce consista di frutta e verdure crude.

5.      La forma fisica
Polmoni e cuore lavorano di conserva per mantenere la salute. Quattro tipi di esercizio fisico si prestano alla bisogna: camminare, correre, nuotare, pedalare. Quale dei quattro uno scelga è altamente idiosincratico. Si è in forma quando si è in grado di raddoppiare il ritmo cardiaco senza ansimare, e ricuperare il ritmo di riposo in pochi secondi.
Non c’è limite di età all’esercizio fisico: conosco un centenario che semina per strada uomini di mezzo secolo più giovani.
6.      La cute
Respirazione e perspirazione
Che la pelle sia un organo di respirazione lo scoprirono a Firenze nel 1515, quando Papa Leone X, un Medici, fece il suo ingresso trionfale nella città. Qualcuno ebbe l’idea di dipingere un giovanetto dalla testa ei piedi con pittura dorata. Il poveretto morì tra atroci dolori in circa un’ora. Quel ch’e peggio, non si apprese la lezione. Con l’avvento del cinema, vi sono stati attori salvati in extremis dopo aver subito lo stesso trattamento.
La cute, o pelle, è il quarto grande organo emuntore. Espelle tossine prodotte dal metabolismo o come gas (anidride carbonica), o liquido (sudore). L’espulsione di quest’ultimo è facilitata dai peli, che aumentando la superficie delle zone sudorifere, accelerano la fuoruscita di materiale tossico.
Ne segue l’insensatezza della moda depilatoria, che invece di espellere il sudore, lo trattiene. Questa escrezione ha un pH da 4,5 a 7, cioè acida. E acido, abbiamo visto, è sintomo di morte. Non ci si sorprenda, quindi, se un bel giorno spunta un cancro alla mammella anche in un uomo. Ciò non vuol dire che vi sia una corrispondenza di uno a uno tra causa ed effetto, ma che la cosa non è da escludere. Data la diversità umana, una causa può avere effetti diversi, così come una moltiplicità di cause può avere lo stesso effetto.
Quando la pelle emana cattivo odore, può esser sintomo di sporcizia; ma se eliminando questa con acqua e sapone, l’odore perdura, è sintomo che la pelle si sta accollando funzioni non strettamente sue, provenienti o da altri emuntori o da metabolismo maldiretto per una ragione od un’altra. Se ne trovi la causa sperimentando, o rivolgendosi a un medico ippocratico, una specie condannata dalla medicina ufficiale ma che ancora esiste (e resiste).
Chiusura delle ferite
L’11 aprile 1915 (gli Stati Uniti non erano ancora entrati in guerra), un incrociatore ausiliario della Kriegsmarine germanica, Kronprinz Wilhelm, chiedeva permesso di attraccare nel porto di Newport News, in Virginia, per emergenza sanitaria. 150 membri dell’equipaggio giacevano chi con polmonite, chi con pleurite, chi con reumatismi; il medico di bordo, Dr Perrenon, riportava che le ferite, anche superficiali, tardavano troppo a rimarginarsi,  le fratture non si riducevano, eccetera. Solo gli ufficiali godevano di salute. Cos’era accaduto?
In sette mesi di assalti e cattura di navi passeggeri nemiche, l’equipaggio del K.W. ne aveva razziato le riserve alimentari, abbuffandosi di scatolame e altri prodotti della nuova (allora) industria alimentare. E fu lo scorbuto e la malnutrizione generale a forzare la nave a lasciare il teatro di guerra. Solo alla mensa ufficiali arrivava cibo fresco.
In un corpo sano, le ferite si chiudono in tempi brevissimi, senza cerotti, bende, disinfezione e inutilità del genere.
7.      Immunità naturale e resistenza alle infezioni
Inter faeces et urinam nascimur, et ridemus, recita un detto attribuito da alcuni a S. Agostino (354-430), da altri a S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153). Tralasciando considerazioni di tipo morale, l’aforisma fa capire che il neonato acquisisce la prima immunità strusciandosi contro i rimasugli di pipì e popò che trova nell’apparato urogenitale di mamma. Il che mostra anche la dissennatezza del parto cesareo innecessario, che nega detta immunità.
La superstizione pasteuriana ha instillato una microbofobia generale, al punto di averne fatto un feticcio: lavata di mani diverse volte al giorno, non bere acqua di rubinetto, disinfezione con questo o quell’ “antibatterico” ecc. È molto comune tra gli statunitensi, per esempio, che nell’avventurarsi anche nel vicino Messico vengano colpiti da malori intestinali di vario tipo, fino a ristabilire l’equilibrio tra i germi invadenti e le difese del sistema immunitario naturale.
L’evidenza del Cairo, dove i cristiani copti sono ridotti dalle politiche islamiche a occuparsi della raccolta e gestione di tonnellate di immondizia, è ancora più convincente: costoro godono di ottima salute, senza mai ammalarsi.
I corpi estranei che entrano nel corpo umano per le vie naturali vengono immediatamente confrontati, attaccati e neutralizzati da una efficiente armata di anticorpi e di “microorganismi” che si formano in e dal sangue, assolvono il loro compito e spariscono di nuovo nel sangue.
Questo meccanismo fu intravisto dal Dott. Antoine Béchamp (1816-1908), che chiamò codesta armata mycrozima, senza però osservarlo, giacché i microscopi di allora risolvevano diametri dal micron (10-6m) in su, ma non del nanometro (10-9m), mille volte più piccoli. Il microscopio elettronico, invenzione del XX secolo, li vede sì, ma “fissati”, cioè non vivi.
Il primo costruttore di un geniale microscopio ottico che ingrandiva fino a 30mila diametri, e quindi in grado di risolvere i corpuscoli di microzyma fu Royal Raymond Rife, americano (1888-1971). Sapendo che la luce naturale ha una lunghezza d’onda superiore alle dimensioni dell’oggetto da osservare, vi combinò la gamma ultravioletta, così risolvendo i corpuscoli intravisti da Béchamp quasi un secolo prima. Ma commise due errori di base.
Il primo fu di giudicare le forme che si muovevano nel campo di visione come causa di malattia, sulla linea di Pasteur invece che su quella di Béchamp; il secondo fu di immettersi nella riserva proibita della medicina ufficiale, dal 1913 dittatoriamente in mano ad A.M.A. (American Medical Asociation), temerariamente dichiarando che con certe “vibrazioni” avrebbe potuto debellare i “patogeni” del cancro.
Non l’avesse mai fatto. Nel 1939, un drappello di mirmidoni di Pasteur gli invase il laboratorio e gli distrusse il supermicroscopio con il quale aveva sperato di far fortuna. Rife morì emarginato e povero nel 1971, a 83 anni.
A rilevare il testimone di Rife è stato Gaston Naessens, francese (1924-), anche lui eccezionale costruttore di un microscopio che come quello di Rife risolve le nano-particelle rendendole osservabili. Le ribattezzò “somatidi”, e il microscopio “somatoscopio”.
Qualificato come biologo ricercatore e non come medico, la medicina ufficiale gallica gli mosse guerra, forzandolo a prendere l’esilio per il Canada, dove vive dal 1964. Si rese conto dell’inutilità di combattere “la malattia” tentando di uccidere sintomi, “patogeni” ed altri spauracchi, e dell’estrema utilità invece di rafforzare il sistema immunitario, che come natura vuole, confronta, attacca e neutralizza ogni invasore indebito.
Inventò anche un prodotto per lo scopo, sul quale non è il caso di soffermarci. La scoperta più clamorosa di Naessens è quella di un ciclo di 16 elementi pleomorfi, cioè trasformantisi mutualmente e sparendo quando ritorna la salute.
Uno di codesti elementi venne chiamato da Pasteur virus (Latino = veleno). Lo fece per ragioni politiche, non sanitarie. I britannici si erano appropriati del Canale di Suez nel 1882, causando l’ira del governo francese, il quale assoldò Pasteur perchè inventassse una bufala o due a discredito della Perfida Albione.
E a Pasteur venne l’idea geniale di accusare i britannici di importare il “virus” della peste nera dall’India. Di fatto, nessun “virus” ha mai ucciso nessuno, per la semplice ragione che nessun “virus” è stato mai osservato nel medio ambiente. Il Naessens lo ha identificato come una delle tredici forme di un ciclo sì patogeno, ma visibile solo nei tessuti ammalati fino a pulizia completa, dopodichè ridiventa un “somatide” qualunque. Ossia, Naessens ha confermato le intuizioni di Béchamp e le osservazioni di Rife, nonché quelle sul campo di Florence Nightingale (1820-1910) che sbugiardano Pasteur una volta per tutte. Era ora.
È questione di tempo prima che si imponga la verità, nonostante l’accanita resistenza offerta da interessi creati da giri di miliardi. Pratiche prese per scontate come la disinfezione, i farmaci, i vaccini, gli antibiotici, in generale tutti gli sforzi contro la malattia, sparirebbero per incanto davanti all’ovvietà di curare il malato rafforzandone le difese, secondo la visione olistica – ippocratica -  del trio Béchamp-Nightingale-Rife e seguaci.
Ricapitolando, ci si ammala e si muore o di malnutrizione o di avvelenamento, o di entrambi quando una deficienza nel flusso nutritivo indebolisce il potere espellente degli emuntori, così trattenendo i veleni invece di buttarli fuori.[2]


E LO SPIRITO?
“Non di solo pane vive l’uomo”, ammonisce un detto evangelico, al quale corrisponde “nè di solo disordine corporale egli soffre e muore”. Già, perchè, pace Cartesio, anima e corpo formano un tutt’uno, non due sostanze separate.
Il che vuol dire che, inevitabilmente, un disordine che interessa il corpo avrà i suoi effetti sull’anima, e viceversa. Valgano due esempi.
Molti anni fa frequentai due lezioni di pronto soccorso da un medico con 40 anni di esperienza africana. Ci raccontò di un Maasai che, sbudellato da una coltellata, raccolse le viscera in un cappello e camminò per chilometri fino a raggiungere il dispensario dove glie le risistemarono dopo averle sciacquate. “I Maasai”, ci disse, “non soffrono di shock”.
Il quale può uccidere per conto suo. Un soldato africano in servizio in Malesia durante la seconda guerra mondiale, si sentì punto vicino al piede. Voltandosi, intravide una serpe che scivolava nella boscaglia. Stramazzò al suolo, quasi in fin di vita, fino a quando in ospedale non verificarono che era stata una spina a pungerlo, non un rettile a morderlo. E si riebbe.
Senza intenderlo, abbiamo appena attraversato tre dei sette livelli di essere che compongono l’universo. Perché è inevitabile, anche proponendo una filosofia della salute, confrontarsi con la metafisica, anche se lo stretto necessario per capire.
A cominciare dal basso, i tre livelli sono la materia, la vita vegetativa con le tre funzioni di nutrizione, crescita e riproduzione, e quella sensitiva con i cinque sensi esterni, quattro interni e undici passioni. Chi vuole approfondire vada ai trattati corrispondenti.
Il quarto livello, del quale ci occupiamo adesso, è quello dello spirito, ma attenzione: il linguaggio umano è povero di termini per esprimere tutte le sfumature delle idee da comunicare, specialmente quando si passa da un livello di essere ad un altro.
Nel farlo, il linguaggio diventa analogico: uno stesso termine esprime concetti molto diversi. Nella fattispecie si tratta del termine “anima”.
L’anima, dove questa esiste, è un principio di unità. Ecco perchè la materia si dice “inanimata”: non vi è unità. Si può dividere ad infinitum rimanendo se stessa.
Non così dove c’è vita. Ma quando diciamo “anima” di vegetali, di animali, o di esseri umani, il termine è lo stesso, le realtà no: vi sono differenze.
L’anima vegetale è multiple, indifferenziata, mortale. La sua separazione dal corpo materiale causa la morte, ma la pianta può risvilupparsi anche da parti piccolissime rimaste in vita. Vi sono anche casi di morte apparente: la scrofulariacea africana Craterostigma pumilum,   e piante simili, si desidratano fino all’essiccamento completo durante periodi di siccità, per re-idratarsi nuove di zecca alla prossima stagione delle piogge.
L’anima animale, al contrario, è una, differenziata, ma  sempre mortale. Alla morte non si separa dal corpo fisico; semplicemente cessa di esistere.
L’anima umana è una, differenziata e immortale. Gli Scolastici, seguendo Aristotele, la denominavano come “forma” del corpo, per cui i due formano un unicum irripetibile.
Ciò vuol dire: a) che l’anima ha sintomi di salute suoi propri, spirituali; b) che essa partecipa della salute corporale; e viceversa, che il corpo è capacissimo di ammalarsi in seguito a un trauma psichico, sia esso di origine umana o sovrumana, come nei casi di ossessione, oppressione o possessione diabolica. Queste relazioni sono assolute bestie nere per la medicina incastonata nella Weltanschauung cartesiana. Ma vanno menzionate e analizzate, anche solo per capire certi fenomeni e non escluderli irragionevolmente a priori.
L’anima umana gode di salute quando si occupa del vero, del buono e del bello, i tre trascendentali dell’essere identificati dalla filosofia scolastica.
Un intellettuale non è chi sa scrivere bene, o chi coltiva un campo del sapere o un altro; è chi ama, cerca, trova e contempla la verità, definita da Avicenna[3] e adottata da S Tommaso come adaequatio intellectus et rei, adeguatezza della mente con le cose.
C’è più di quanto non sembri in quella definizione. Già, perchè la verità ha tre caratteristiche: coerenza, adeguatezza e praticabilità. Avicenna scelse l’adeguatezza fra le tre non perchè volesse applicare il rasoio di Ockham[4] (entia non sunt multiplicanda sine necessitate), che sarebbe nato più di due secoli dopo, ma perchè si rese conto che l’adeguatezza garantisce tanto la coerenza quanto la praticabilità, mentre nessuna di queste due garantisce nessuna delle altre.
Tra i numerosissimi esempi scegliamo le matematiche, regno della coerenza. Dato un problema, un certo algoritmo porta ad una soluzione altrettanto certa. La mente prova la soddisfazione della certezza, ma rischia di non percepire il pericolo di confonderla con la verità.
Già, perchè la verità, nelle matematiche, è solo rappresentata dai numeri interi: 1, 2…n. Dalle frazioni in poi, con i numeri irrazionali, trascendentali, complessi, infinitesimali e infinitamente continuando, si perde di vista che non si è mai osservata la radice quadrata di una gallina, o il pigreco di qualunque ens. In termini filosofici siamo nel dominio degli entia rationis, non degli entia realia. Ecco la pietra d’inciampo della sola coerenza come verità.
Codesto pericolo non è immaginario. Si pensi a chi tratta del tempo come quarta dimensione, o di un universo con nientemeno che undici di esse, tutti prodotti di computer infarciti con algoritmi progettati per l’uso; la confusione tra verità e certezza è sanzionata.
Con la prassi pura le cose vanno peggio. Valga solo un esempio. Esiste l’accordo, per ragioni puramente pragmatiche, di “concedere” al denaro la facoltà di moltiplicarsi come gli esseri viventi. La cosa si chiamava usura, però l’eufemistica imperante vuole che la si chiami “interesse”, termine meno offensivo: il banchiere che “domanda interesse per concedere credito” è molto più rispettabile dello strozzino che domanda usura per prestare contante.
Tutta un’armata di istituzioni: la Borsa, la Banca, la Finanza alta e bassa, Casse di Risparmio, ecc. non escluse le facoltà universitarie di cosiddetta “economia”, sono allestite con lo scopo preciso di permettere ad alcuni privilegiati di vivere di interesse. Anche il buon John Maynard Keynes (1883-1946) non disdegnava farsi il gruzzoletto quotidiano con un paio di telefonate ai suoi agenti di cambio dopo aver consultato le quotazioni borsistiche prima di colazione. Una distinzione tra l’economia, scienza fondata sul lavoro, e la crematistica, fondata sulla manipolazione di denaro, sarebbe in ordine, ma il pensiero debole non è all’altezza.
Ora se c’è chi guadagna senza lavorare, ci deve essere qualcun altro che lavora senza guadagnare, come aveva notato Leo Tolstoy ai primi del XX secolo. Questo sbilancio, oggi dato per scontato come “divario tra i ricchi e i poveri” non viene mai rintracciato alla causa, per ragioni che vanno dall’ignoranza pura, cioè non colpevole, alla malizia piu diabolica. È l’inevitabile risultato della pletora di esseri umani con l’anima malata di confusione, il più comune errore filosofico.
La verità è il cibo dell’intelligenza; ma attenzione ad usare i termini “vero” e “falso” a casaccio. Da quattro secoli, per esempio, ci viene martellata la testa con la “verità” del sistema copernicano, che ha destituito quello tolemaico, oggi riputato “falso”. Scaviamo un po’ per capire dove e quale sia la verità senza aggettivi, cioè la base di tutto il discorso.
Primo: nell’universo tutto è in movimento.
Secondo: se si vuole descrivere, o misurare, un movimento qualsiasi, è indispensabile avere un punto di riferimento, considerato immobile, che non esiste nell’universo reale.
Terzo: bisogna quindi sceglierne uno, e posizionarlo.
Quarto. La sopradetta operazione è del tutto libera, sottomessa solo alla convenienza di chi descrive, o misura.
Le quattro verità suelencate non sono dedotte logicamente, ma dalla natura delle cose, cioè metafisicamente. Applichiamole ai “due massimi sistemi del mondo” come ebbe a dire Galileo.
Il sistema tolemaico, geocentrico, ha la Terra come punto immobile di riferimento. I movimenti del sistema solare sono identificabili e descrivibili, ma non senza difficoltà. Il Sole e la Luna descrivono cerchi; i pianeti Mercurio e Venere ci tentano, ma non senza formare un cappio ciascuno; i cerchi dei pianeti da Marte in fuori sono intervallati da epicicli, che dalla Terra appaiono come retromovimenti. Alquanto goffo, bisogna ammettere.
Il sistema copernicano, eliocentrico, ha il Sole come punto di riferimento. E guarda un po’, i movimenti di tutti i pianeti diventano ellissi, appartenenti ad una sola famiglia di curve.
La soluzione è senza dubbio più elegante di quella tolemaica. Ma riflettiamo che se consideriamo uno dei due sistemi falso in partenza, non segue affatto che l’altro sia vero; è possibile infatti falsificarli entrambi scegliendo un punto di riferimento esterno tanto alla Terra quanto al Sole. Facendolo, si vede il Sole descrivere una curva lungo un braccio della Via Lattea, la nostra galassia; e ogni corpo celeste descrivere cicloidi attorno ad esso, come fa la valvola di una ruota da bicicletta che viaggia a 90° rispetto a un osservatore.
Tutto qui? Non proprio. Gli svarioni hanno conseguenze, spesso inaspettate. La questione vero/falso non si pone neanche, ma averla posta, promossa, e insegnata come verità, e per così tanto tempo, fa si che oggi nessuno, ripeto nessuno, è capace di descrivere quello che vede, cioè i movimenti geocentrici del sistema solare. Possiamo chiamarla una perdita di verum. 
Comunque sia, le verità suddette appartengono al livello più infimo dell’essere, quello della materia. L’intelligenza umana può occuparsene, come abbiamo fatto, e anche provarne una certa soddisfazione, anche emotiva. Ma da qui a postulare una intelligenza emotiva, come fanno alcuni, ce ne corre; costoro unificano il terzo con il quarto livello di essere, in una confusione metafisica molto più dannosa di una confusione logica.
Ecco completata, senza volerlo, la definizione di filosofia ricevuta a scuola: amore della sapienza, senza però mai definire quest’ultima. E come si può amare ciò che non si conosce? Ci viene incontro S. Tommaso nella Contra Gentes. Nel paragrafo iniziale dice: Sapientis est ordinare, è del sapiente ordinare. Ordinare cosa? Tutto quello che gli effetti del peccato di origine hanno disordinato, e mantengono tuttavia in disordine: i sensi, le passioni, la mente, la volontà, il corpo, l’anima, insomma l’uomo nella sua interezza. Trovarsi a proprio agio in qualsiasi livello di essere. In una parola, felicità.
Si può parlare di felicità anche analogicamente. Una macchina prodotta dall’ingegno umano è “felice” quando funziona al massimo della sua efficienza, esente da guasti. Ogni buon ingegnere sa che ciò non si ottiene senza manutenzione, e lo stesso vale per la felicità umana.
Ne segue che è inutile cercarla ai livelli inferiori di essere: sarebbe come cercare pietre preziose nella bottega del pescivendolo. Eppure folle immense si ostinano nel cercarla nelle sole tre cose che codesti livelli abbiano mai offerto: denaro, potere, sesso.   
La salute spirituale, quindi, va cercata e perseguita ai livelli di intelletto, volontà e memoria, con mezzi da sempre disponibili in una società che tesoreggia la verità come valore supremo. La lettura, la conversazione, l’amicizia, il tratto sociale fatto di compromessi come la parola data, e tanti eccetera sui quali sarebbe troppo lungo trattenersi, sono sintomi di salute spirituale.
I disordini economici, politici e sociali che oggi affliggono la società non sono che riflessi di disordini morali che colpiscono gli individui, inevitabilmente accompagnati da disordini intellettuali che fioriscono (si fa per dire) dove la verità viene passata in secondo piano, quando non abbandonata del tutto.
E non c’è da meravigliarsi se, come dice il blogger francese René Louis Berclaz, “Dove la verità non è libera, la libertà non è vera”.
23 luglio 2020


[1] Chiudiamo le Scuole, 1 giugno 1914, scaricabile.
[2] Sono disposto a ritrattare qualunque cosa affermata fin qui se mi si convince razionalmente di errore.
[3] 980-1037. Filosofo islamico persiano, che fu anche medico, letterato e molto altro.
[4] 1280-1349). Francescano inglese, fondatore del nominalismo, del quale non ci occuperemo qui.