Non uno ma tre spettri si aggirano per
il mondo delle burocrazie sanitarie di stato e private, dei farmaci, vaccini,
cure alternative, integratori, antibiotici, ciarlatani, medicina vera e
fasulla, insomma il mondo che fu di Ippocrate una volta e di Paracelso oggi, e
che sta vivendo lo scompiglio da coronavirus. Gli spettri sono di Antoine
Béchamp, francese (1816-1908), Florence Nightingale, inglese (1820-1910) e
Carlo Arnaldi, italiano (1860-1924).
La seconda è famosissima, gli altri
due no. Chi furono? Inutile chiederlo alle facoltà universitarie: da tempo non
insegnano più Storia della Medicina. Perché se lo facessero, il dottor Antoine e
l’igienista Carlo (e altri che sarebbe troppo lungo enumerare) la farebbero da
guastafeste, minacciando categorie intere di mestieranti che vivono di malattia
(altrui) con la sparizione dal palcoscenico della storia. Prima di studiarne l’operato,
consideriamo
La
Salute
Avete mai chiesto a un medico di
definire la salute? Fatelo, e contate quante volte la risposta è “assenza di
malattia”. Purtroppo i poveri medici mancano di nozioni di logica, la grande
assente dalla sQuola gramsciana che
tiene banco.
Chi ce le ha, quelle nozioni, sa che
una definizione negativa è quanto di peggio possa escogitare il pensiero umano.
Non parliamo poi di chi se ne esce con “sensazione di benessere”, “buono stato del corpo” e inanità del genere.
Non li si può biasimare. Dice
S.Tommaso in De Ente et Essentia che
si può definire solo quello che ha essenza, cioè una sostanza. Ebbene, la
salute non è tale. Tra le categorie aristoteliche può trovare il posto tra qualità e relazione, il che la rende descrivibile, ma non definibile. Descriviamola
quindi, basandoci sull’osservazione e lo studio.
La salute non sarebbe che la
concomitanza di due flussi: il primo, di elementi nutritivi che partendo dalla
microflora del suolo arriva alle cellule del corpo dopo un passaggio attraverso
radici, fusto, foglie e frutti di piante nonché del canale alimentare; il
secondo, di elementi tossici, che partendo dalle cellule viene espulso all’esterno
dopo un passaggio da uno dei quattro grandi emuntori: intestino, reni, polmoni
o pelle.
Lunghetta, la descrizione, ma
completa, penso, di ciò che la salute è.[1]
Dal che si può dedurre che la malattia non sarebbe se non un disordine qualsiasi in uno, o in entrambi,
i flussi. Si noti che l’aggiunta di elementi indebiti al primo flusso (eccessi
di vario tipo), o la mancanza di elementi nutritivi a causa di pratiche
agricole dissennate, e nel secondo flusso la mancata espulsione di tossine in
seguito a un sistema danneggiato, sole o insieme, possono produrre un’infinità di sintomi, che gli eredi
di Paracelso e quelli di formazione cartesiana chiamano “malattie”, come se
fossero res, cose. Gli Scolastici li
avrebbero ammoniti che le malattie non esistono: esistono i malati, e
diagnosticare le cause delle loro sofferenze è compito immane, come Ippocrate
ben sapeva.
Alla falsa filosofia di Cartesio, che
impone all’essere umano la natura di macchina che a certi stimoli risponde
sempre lo stesso, si aggiunge quella altrettanto falsa dell’evoluzione, che propone
una similarità inesistente tra esseri
umani e animali da laboratorio.
Dal che ne risulta un disordine
filosofico, scientifico, sperimentale e quant’altro che non accenna a ridirigersi
verso l’ordine naturale. Detto altrimenti, la sanità è nel caos, e non da ieri.
I fattori di salute, specialmente la
microflora del suolo, non sono mai
stati analizzati nella loro interezza. Per l’orgogliosa scienza umana sono
rimasti libro chiuso, che di tanto
in tanto mostra al più un paio di righe di qualche pagina. Per cui non mi
addentrerò in questo ginepraio. Mi limiterò alla polemica decimononica tra
Béchamp e Pasteur, che sta trovando il suo dénouement,
o così la vedo io, nella saga che ha per protagonista il fenomeno Covid 19.
Due
teorie
A chi confonde “teoria” con
“ipotesi” ricorderò che sono due tappe diverse
del metodo scientifico. Questo consiste di cinque
tappe: prima, l’osservazione; seconda, l’enunciato del problema; terza,
l’ipotesi; quarta, l’esperimento; quinta e ultima, la teoria.
Teoria è quindi la tappa finale del
metodo: una visione d’insieme (dal greco theorein) nella quale tutti e solo gli elementi osservati e
studiati trovano luogo. Essendo in una scienza induttiva, se uno solo di essi
venisse falsificato dall’esperimento, bisognerebbe cominciare da capo. Facile dictu; lo vedremo.
Béchamp e Pasteur (1822-1895) furono
contemporanei. Il primo era medico e scienziato ricercatore, la cui biografia è
visionabile in Rete; il secondo, invece, era chimico, esperto in fermentazioni
e ugualmente visionabile. Il che vuol dire che vi erano campi di ricerca comuni
ai due. Quello che ci interessa sono le loro teorie divergenti circa la natura
delle malattie infettive, e la polemica tra i due, irrisolta fino ad oggi.
Nel suo lavoro seminale Il Sangue e il suo Terzo Elemento Béchamp
aveva scoperto alla scienza l’esistenza sanguigna di una granulazione molto al
di sotto della risoluzione ottica dei microscopi dell’epoca, che lui chiamò microzyma, e che ipotizzò come la vera
base dei fenomeni vitali.
Il microzyma,amorfo nei tessuti sani, veniva popolato da corpuscoli
semoventi in quelli malati. Anche Pasteur li vide, ma i due scienziati li interpretarono
in maniera del tutto diversa.
I termini tecnici che esprimono la
contraddizione sono Pleomorfismo e Monomorfismo.
Il primo è di Béchamp, che lo
osservò in laboratorio. Dopo puntigliose osservazioni, arrivò ad una
conclusione inaspettata: le forme semoventi non solo venivano prodotte in e dal
microzyma, ma anche cambiavano forma: da virus a batterio e
viceversa, da un tipo di batterio ad un altro ecc. E non solo: cambiavano
anche funzione secondo la bisogna.
Quale funzione? Quella di
microspazzini, che convogliano gli elementi tossici verso gli orifizi naturali
del corpo, per ridiventare microzyma amorfo
a missione compiuta.
Tutto li? Tutto li, ma la differenza
è irriconciliabile. Béchamp, sulla scia di Ippocrate, sosteneva che la medicina
si dovesse occupare dell’infermo;
Pasteur, su quella di Paracelso (1493-1541) e seguaci, sosteneva che essa dovesse
attaccare la malattia col farmaco,
il vaccino, il cerotto, la disinfezione e via dicendo.
Per Pasteur i germi sono esseri viventi di diritto proprio, ciascuno
con il suo nome scientifico e un posto in
tassonomia. Ogni forma ha la sua
funzione e causa la sua malattia e
non un’altra. Non si insospettì di non
averli mai visti liberi nel suolo, nell’atmosfera o nelle acque. La sua
interpretazione si diffuse rapidamente, nascendone tutta una batteriologia,
virologia, microbiologia ecc. che ancora oggi tengono banco nelle facoltà
scientifiche. Il loro inizio è databile a quando Pasteur lesse una relazione per
l’Accademia delle Scienze intitolata La Teoria
dei Germi applicata alla Medicina e alla Chirurgia. Era il 30 aprile del
1878.
Ancora nel 1881 diceva:
“Nello studio dei microorganismi vi è
una perenne fonte di errore nell’introdurre germi estranei. L’osservatore che vide
prima un organismo e poi un altro, fu propenso a concludere che il primo avesse
subito un cambio. Eppure potrebbe essere pura illusione. La trasformazione da Bacillus
anthracis a Micrococcus non esiste”[2].
Rectius, non è deducibile da osservazioni di laboratorio. Ma
Florence Nightingale, che aveva sgobbato nelle corsie dell’ospedale di Scutari
30 anni prima, aveva osservato la stessa cosa in pieno campo:
Le malattie non
sono individui classificabili come cani e gatti, ma condizioni che nascono
l’una dall’altra. Non è un continuo errore guardarle, come facciamo, come
entità separate come cani e gatti, invece di guardarle come condizioni simili a
pulizia e sporcizia, del tutto controllabili, o meglio come reazioni di natura
benigna, invece di come le consideriamo?
E
aggiungeva:
La dottrina
delle malattie specifiche è il rifugio di menti deboli, senza cultura,
instabili, come quelle che tengono banco nella professione medica. Non eistono
malattie specifiche; quello che esiste sono condizioni specifiche di malattia
Ai primi due si aggiunge lo spettro
di Carlo Arnaldi, la cui Colonia, fondata nel 1906 e appollaiata sulle colline
di Uscio, Riviera di Levante, attrae ancora oggi una fedele clientela che ne tramanda
le tradizioni per passaparola.
Come Béchamp e Nightingale, Arnaldi
negava l’esistenza di “malattie”. Puro ippocratico, addebitava tutti i malanni ad una sola causa: un alterato metabolismo a ragione di cattive
abitudini, specialmente alimentari.
Curava con una dieta adattata a ciascuno e una pozione disintossicante per
tutti a base di erbe, che convogliava le
tossine all’intestino, espellendole.
All’entrata della Colonia spicca il
suo ammonimento: Aut Disce, aut Discede
(impara o vattene). In fatto di dieta, se un cliente provasse ad aggirarla
portando con sé cibi proibiti, su spiata del fidatissimo Giacomino lo faceva
chiamare, gli restituiva i soldi e lo mandava a casa. Ma la salute tornava, e
continua a farlo.[3]
Le ultime parole di Pasteur sul
letto di morte furono Le microbe n’est
rien; le terrain est tout. Era arrivato alla stessa conclusione di Béchamp,
ma il dado era tratto. Il fattore determinante del suo successo sono senza
dubbio i proventi da lotta alle malattie
molto più lucrativi dei magri guadagni del medico che cura gli infermi.
La cultura cinese aveva trovato come
garantire la dignità della professione medica senza tirare in ballo i soldi. Nell’antica
Cina si impiegava un medico, la cui funzione era di mantenere in salute e a
cui si passava un onorario fisso salute perdurante. Subentrando un disordine,
si smetteva di pagarlo, e se si moriva in cura sua era lui a pagare per le
esequie. Non c’è male come incentivo perché un professionista faccia il suo
dovere.
C’è di più. Ancora oggi, in Cina, chi
diagnostica la malattia non è il medico ma l’odoratore professionista di
effluvi intestinali (vulgo peti).
Costui pratica il mestiere per strada, guadagnando fino a 50mila dollari all’anno.
Insomma, tutto un altro paradigma.
Nel frattempo Béchamp e la sua
teoria sono stati emarginati e mandati in dimenticatoio. Ma non del tutto. Certi
gruppi si inspirano ancora alle sue scoperte, e di tanto in tanto qualche medico
praticante vi si imbatte e ne vuole sapere di più. Ma guai a costui se iscritto
all’albo dei medici: rischia l’espulsione a proporre, non diciamo di
reintegrare l’uomo, ma anche solo di esporne la teoria. Limitiamoci a
constatare che lo spettro del dott. Antoine, come quello di Banquo[4],
non se ne va. Nel frattempo prestiamo attenzione al paradigma pasteuriano
moderno.
Una
strana guerra
Assistiamo a una guerra sui generis da più di 100 anni: da un
lato milita un esercito agguerritissimo, dotato di disinfettanti, antibiotici,
cerotti, antibatterici, bende, vaccini, e tutto un armamentario per sconfiggere
un numerosissimo esercito di germi, microbi, batteri, virus e chissà che altro,
presunte cause di malattia e di morte.
Sono codesti esseri entia realia, come vorrebbe Pasteur, o entia rationis, cioè folletti, spettri, o
gli spazzini pleomorfi di Béchamp? Con il metodo scientifico, confrontiamo le
due ipotesi. Dopo le quali proporrò una serie di esperimenti, buona parte dei
quali in corpore vili (il mio).
Prima di farlo, consideriamo la questione
dal punto di vista filosofico. Il problema è metafisico: ad essere codesti
microorganismi esseri viventi di diritto proprio, e classificati come tali da
generazioni di ricercatori del calibro di Robert Koch (1843-1910) in ordini,
famiglie, generi e specie, tali esseri perfetti
morfologicamente e fisiologicamente dovrebbero causare malattie, che per definizione sono disordini.
Il che è metafisicamente impossibile.
Ma la metafisica non essendo il forte degli scienziati, e men che meno degli istruiti
dalla sQuola corrente, non insisto
sul tema. Passo ai ricordi personali.
Tra quelli di infanzia più vividi sono
le ferite riportate giocando o
cadendo o altro, che mia madre, pasteuriana convinta, si ostinava a disinfettare con l’etanolo. Il bruciore
era insopportabile, gli strilli pure, ma non c’era niente da fare. Le ferite andavano
disinfettate. Fu un sollievo quando,
nel movimento scouts, mi dissero che
non bisognava metter nulla nella
ferita, ma disinfettarla con tintura di iodio spalmata ai lati di essa. Ma andava fatta, perchè i germi sono in agguato dappertutto e possono causare perfino la
peste.
Tra gli stessi ricordi ce ne è uno
in cui il corpus vile fu quello di un
grosso maiale di razza Large Black, da
sacrificare per le vicine feste natalizie. Una ragazza maldestra con un fascio
di canne che portava in spalla, lo ferì inavvertitamente sul groppone.
Mia madre decretò che la ferita andasse
disinfettata. Si armò di cotone
idrofilo e dell’immancabile etanolo, ne inzuppò un batuffolo e lo schiaffò
sulla ferita del suino.
Non l’avesse mai fatto. La bestia,
trasformata istantaneamente da mansueto porcello in inferocito cinghiale, si
mise a caricare gli astanti tra grugniti acutissimi, le urla di chi ne veniva
travolto e gli sghignazzi di si godeva la scena (i miei).
Crescendo, poi, non potevo fare a
meno di osservare quei cani che leccavano le loro ferite in qualsiasi parte del
corpo (ho sempre invidiato loro la flessibilità da contorsionista che purtroppo
noi esseri umani abbiamo perduto) e guarirne senza bende, cerotti e altre armi
dell’arsenale pasteuriano.
Apprendere dalla natura e copiarla
mi venne istintivo: da allora qualunque ferita raggiungibile dalla lingua la
curo leccandola fino a far ristagnare il sangue, e lasciandola seccare all’aria
aperta, 24 ore dopo non ne rimane praticamente traccia. Ciò accade anche in
ambienti sporchissimi, come l’officina meccanica nella quale di tanto in tanto faccio
lavoretti.
Due esperienze di maggior calibro
vanno raccontate. Molti anni fa ero uscito in gita nella savana per raccogliere
campioni da trapiantare nel giardino roccioso che stavo mettendo su nella
scuola dove insegnavo. Avevo con me una zappetta pieghevole di tipo militare, e
indossavo pantaloni corti.
Nel vibrare un colpo maldestro al
campione scelto, la zappetta scivolò sul bulbo legnoso, e si andò a conficcare
nello stinco destro, causando una ferita da taglio di quattro-cinque centimetri
con il sangue che usciva a fiotti. Non
avevo con me pronto soccorso, bende, cotone idrofilo, cerotti, niente.
Prendendola filosoficamente, mi
sedetti su di un masso, avvicinai le labbra della ferita con il pollice e
indice delle due mani, e contai cinque minuti sulle lancette dell’orologio.
Secondo i canoni pasteuriani mi sarei dovuto beccare chissà che infezione, con
tutta la polvere e sporcizia di un tale ambiente. Ma dopo 300 secondi la ferita
non sanguinava più e le labbra tenevano. Non c’era dolore, infezione o altro.
Si formò una cicatrice sottilissima, che con l’andar del tempo sparì senza
lasciar traccia.
Un secondo incidente, anni dopo, fu
una caduta in moto a velocità moderata (±30 km/h) in strada non asfaltata e con pietrisco. Mi alzai con un pantalone
fatto brandelli e ferite multipli nel polpaccio destro. Di ritorno a casa, vidi
che le ferite erano tutte da strascico eccetto una, che sembrava da taglio, ma già
rimarginata. Toccandola, una escrescenza mi fece sospettare che si trattasse di
un pezzo di specchio retrovisore, andato in frantumi con la caduta. Ma senza
sangue, senza dolore e senza infezione, decisi di sperimentare lasciando le
cose come stavano.
Tredici mesi dopo, girandomi
a letto una notte, accusai una micro-pugnalata al polpaccio. Un medico amico
aprì l’escrescenza e ne estrasse due pezzi di specchio, il più grande un
triangolo isoscele di un 10 x 3 millimetri. Lo conservai per anni, fino a
perderlo in un trasloco.
Secondo i canoni pasteuriani, avrei
dovuto subire per lo meno un avvelenamento da mercurio, il metallo usato nel
retro degli specchi, o una infezione incurabile, o quant’altro. Invece niente.
Il mini pugnale si era conficcato tra la pelle e il muscolo del polpaccio,
senza conseguenze visibili o invisibili.
Non pretesi mai di essere stato il
primo a fare tali scoperte, e dopo l’arrivo di internet lo verificai. Ai tempi
di Pasteur, Béchamp, Koch e altri luminari della ricerca, viveva un tal Max von
Pettenkofer (1818-1901), chimico come Pasteur,
che però non credeva né al contagio né alla teoria del microbo come
causa di malattie.
Quando Robert Koch pubblicò di aver
scoperto il Vibrio cholerae, il
batterio ritenuto responsabile (lo è ancora oggi) di quella malattia infettiva,
Pettenkofer gli scrisse chiededendogli un campione di Vibrio da usare per ricerca personale.
Koch fece il favore e Pettenkofer
ricevette una fiala piena di coltivo di Vibrio.
La stappò e ne bevve il contenuto fino all’ultima goccia in presenza degli
astanti. Poi scrisse a Koch ringraziandolo e notificandogli il risultato
(negativo) dell’operato.[5]
Era il 1892. 40 anni prima si era pronunciata la Nightingale circa le
“infezioni”:
Venni
istruita facendomi credere che il vaiolo, per esempio, era una cosa della quale
ne esisteva un primo campione al mondo, cfhe poi si sarebbe propagato da sé, in
discendenza perpetua, proprio come c’era stato un primo cane (o paio di cani) e
che il vaiolo non si sarebbe riprodotto senza un progenitore anch’esso vaiolo.
Da
allora ho visto con i miei occhi, e odorato con il mio naso, i primi sintomi di
vaiolo apparire in stanze mal ventilate
o in corsie sovraffollate, dove non sarebbe potuto arrivare, ma poteva solo
cominciare.
Ho
visto malattie iniziare, crescere e trasmutarsi l’una nell’altra. Orbene, i
cani non diventano gatti.
Ho
visto, per esempio, la febbre crescere in condizioni di sovraffollamento, e mutarsi
in tifoide ad acuirsi questo; un po’ più affollamento, ed ecco il tifo, tutto
nella stessa corsia o capanna.
Non
sarebbe meglio, e più veritiero e pratico, guardare la malattia in questa luce?
L’esperienza mostra che le malattie sono aggettivi, non nomi sostantivi.
L’infermieristica
vera ignora le infezioni, eccetto che per prevenirle. La pulizia e l’aria da
finestre aperte, più una attenzione costante all’ammalato, sono le sole difese
che una vera infermiera chiede o di cui ha bisogno.
Una
saggia, umana gestione del paziente è la migliore salvaguardia contro
l’infezione. L’occupazione principale dell’infermieristica è quella di
preservare la pulizia.
Quello che Béchamp aveva provato anni prima con gli animalcula del suo microzyma,
lo aveva verificato la Nightingale macroscopicamente nell’ospedale di Scutari.
Una correlazione tra un trauma psichico e una malattia somatica è stata
scoperta da recente dal dott Ryke Geerd Hamer (1935-2017), tedesco. Per chi è
famigliare con il lavoro di Béchamp una tale scoperta era da aspettarsi. Per
chi non lo è, e per giunta milita nell’esercito pasteuriano, questa è eresia,
tanto da costare al suo scopritore la radiazione dall’albo dei medici.
Il conto dell’oste
Cosa direbbe un
Béchamp redivivo ad incontrarsi oggi con il Covid19?
Direbbe quello che
abbiamo visto fin qui: il virus è il microspazzino che convoglia tossine da
dove si formano al sistema polmonare, il quale le espelle da bocca e nari. Non
causa niente. Pertanto il sistema immunitario di chi viene trovato positivo sta solo lavorando per liberarlo da chissà quali
tossine prodotte da chissà che disordine, che vengono convogliate verso gli
orifizi naturali per venirne espulse, Le mascherine sono del tutto inutili, la
distanza sociale è scemenza pura, e gli arresti domiciliari una follia. Non
parliamo poi degli arresti da forze dell’ordine di poveri disgraziati che si
fanno i fatti loro prendendo il sole su una spiaggia o correndo nei pressi di
casa propria. C’è da scompisciarsi dalle risa.
Ma allora di che muore
la gente, anche se non nella misura tamburellata dalla grancassa mediatica? I
decessi sono veri. Indaghiamo, facendo notare che si tratta di una fondata
ipotesi, non di una comprovata teoria. Sorvoliamo sulle statistiche truccate
che falsamente addebitano al virus decessi per altre cause. Ma se non si muore
di virus, di che si muore?
Dal
1934, anno della morte di Madame Curie stroncata da eccessive radiazioni
dell’elemento da lei scoperto, si sa benissimo che le radiazioni uccidono. A
tal punto, che chi vuole consultare taccuini e altro usati dalla scienziata
deve indossare una tuta antiradioattiva.
Agli albori della telefonia mobile,
attorno al 2000, venne in mente a due russi di fare un experimento: misero due
cellulari uno di fronte all’altro, un uovo crudo nel mezzo, e li misero in
comunicazione. 70 minuti dopo l’uovo era bollito sodo.
Ci fu chi espresse timori circa mantenere
costantemente il volto in stretto contatto con aggeggi emettenti microonde, ma
l’entusiasmo prevalse e i cellulari fanno parte della cultura odierna. In
termini popolari, ci si è fatti i conti senza l’oste per una ventina d’anni.
Ma i cellulari non solo non hanno
smesso di emettere radiazioni; sono stati rafforzati da numerosi aggeggi ancora
più potenti: satelliti artificiali[6],
forni a microonde, TV a circuito chiuso, antenne sempre più potenti, radar, WiFi,
e chi più ne ha più ne metta.
E non solo radiazioni. Il dott.
Stefano Montanari, che si occupa di nanoparticelle patologiche da decenni,
aggiunge queste alle radiazioni come elementi nocivi per la salute. Tutte
rilasciate nell’atmosfera con la stessa noncuranza circa il conto dell’oste.
Il quale è puntualmente arrivato con
l’installazione del 5g, dieci volte più potente del 4g, che meno nocivo ma per
niente innocuo è andato minando la salute di chi lo ha bazzicato senza saperlo
dal 2000 in poi. Il 5g è la goccia che fa traboccare il vaso, o come più
pittorescamente dicono gli inglesi, il filo di paglia che rompe la schiena al
cammello.
Prima di verificare i perché e i
percome di una possibile connessione tra il virus e 5g, vediamo a che serve
questo aggeggio, e perché i suoi promotori sono tanto ansiosi di installarlo.
Nessuno dei suoi predecessori ha il
potenziale di mettere in comunicazione tutta la gamma di aggeggi di cui l’uomo
moderno sembra di non potere fare a meno per vivere: cellulare, auto semovente,
frigorifero, contatore di elettricità “smart”, computer, e via aggiungendo. È
l’apice del progresso tanto
strombazzato da Galileo ad oggi.
Qui interviene un fenomeno che non riceve
la pubblicità che meriterebbe: molti sindaci sembrano aver scoperto la
vocazione di boscaiolo e abbattono alberi a decine di migliaia. Perchè?
Si strombazza che gli alberi
impediscano la comunicazione 5g, ma la scusa zoppica. Seguendo la traccia del
denaro si avrà una risposta più veritiera.
Nel ricevere una proposta per
l’istallazione di una potente antenna 5g, un sindaco potrebbe ingenuamente dire:
“ma certo, non c’è problema”. Al che il promotore del 5g risponderebbe:
“Purtroppo il problema c’è. Gli alberi esposti alle radiazioni 5g muoiono, e
quel ch’è peggio li si vede morire.
Eccoti quindi una attraente mazzetta e veditela tu.
Possiamo ora capire il dilemma in
cui si dibatte il sindaco: se abbatte gli alberi la gente protesta, ma senza capirne
la ragione. L’abbattimento viene accettato come fatto compiuto. Se non li
abbatte, la gente li vedrà morire, e non ci vorrà molto prima di connettere la
morte degli alberi con la propria, entrambe dovute a un ordigno potenzialmente
letale. Quanto?
Nel 2019 due giganti della
telefonia: Vodafone anglosassone e Huawei cinese, si sono sbizzarriti
installando antenne 5g, guarda caso, nella città cinese di Wuhan. Sei mesi dopo
un certo numero di persone cominciavano a piombare improvvisamente a terra,
alcune per non rialzarsi più. Tutte avevano il sistema polmonare fortemente compromesso.
Perchè? Un corpo umano attaccato da
elementi estranei che ne danneggiano le cellule, si difende, tentando di
espellere le tossine causate dall’agente invasore. Dei quattro grandi emuntori
del corpo, solo i polmoni sono adatti alla bisogna[7]
in questo caso. Ecco perchè i sintomi sono quelli dell’influenza.
Nel convogliare codeste tossine agli
orifizi naturali bocca e nari, si formano liquidi e solidi peculiari, di forma
variabile come già sappiamo, e che la medicina moderna, figlia di Paracelso e
Pasteur, prende per cause del
malessere invece di riconoscerle come effetti
delle silenziose, invisibili radiazioni.
Si nominano “coronavirus” codesti effetti, e il circuito è chiuso.
Militari,
borghesi, ragazze, vaccinatevi!
Siringa in resta e cavalcando il
palafreno mediatico, Bill Gates gira il mondo tamquam coronavirum debellator, cercando chi bucare con l’arma che
porta. Prima di farlo, però, deve collaudare
i vaccini, il che ha fatto, specialmente in India e in Africa.
Nella prima ci sono voluti 17 anni
prima che il governo lo sfrattasse con tutto il suo armamentario dopo aver indotto
la poliomielite in ben 486mila bambini. Nella seconda il collaudo continua:
l’ultima notizia viene dal Senegal, il cui governo, indotto da una sovvenzione
di 100 milioni di dollari della Banca Mondiale, si è prestato a far collaudare
i primi vaccini anti-corona colà. Due medici francesi si sono recati a Dakar e
hanno iniettato il prodotto a sette giovani senegalesi, tutti morti stecchiti a
breve tempo.[8]
Evidentemente le cose non vanno
troppo bene per il Nostro, ma non è quello il tema di interesse. Per chi vuole
seguire la faccenda, legga i pesantissimi capi di accusa lanciatigli da Robert
Kennedy Jr., figlio dell’omonimo Robert assassinato nel 1968 e nipote di JFK
suo fratello. Ci occuperemo invece dei vaccini del tempo di Louis Pasteur.
Il principio dal quale partire è che
la procedura vaccinale può funzionare se, e
solo se, la teoria pasteuriana dei germi come cause di malattie è vera. Se
Béchamp dovesse averci visto giusto, e Pasteur sbagliato, i vaccini sarebbero
non solo inutili, ma anche irrilevanti. E gli eventi di più di un secolo fa
fanno da esperimento che corrobora la seconda ipotesi.
Giunto al culmine della fama e
promosso dagli stessi interessi economici di oggi, infatti, la cosa che Pasteur
odiava di più era aprire la corrispondenza che si accumulava sul tuo tavolo da
lavoro. Questa convogliava un clamoroso fallimento dopo l’altro della pratica
vaccinale. In non poche occasioni il Nostro dovette indennizzare agricoltori e
allevatori che avevano perduto i loro greggi in seguito a vaccinazioni
accettate in buona fede, ma che si erano rivelate disastrose.
Ma il dado tratto continuava a
promuovere la stessa pratica, finché si arrivò all’influenza spagnola[9]
del 1918, che con i suoi 50 milioni di deceduti mantiene il record mondiale di
pandemie. Cosa accadde?
Accadde che milioni di militari
erano stati vaccinati contro il tifo
prima di mandarli in linea durante la Grande Guerra. E guarda un po’, al posto
del tifo apparve un paratifo, contro il quale i medici dell’epoca videro
opportuno sviluppare e usare un secondo vaccino. Iniettato questo, apparve un
secondo paratifo, etichettato B e richiedente un terzo vaccino. E arrivò…
l’influenza, e con essa l’ecatombe non tanto di “persone” quanto di vaccinati.
I termini del paragrafo precedente sono
quelli di un personale medico che non riusciva a capire l’accaduto. Béchamp (e
la Nightingale) avrebbero detto invece “il tifo divenne paratifo, questo si trasformò in un secondo paratifo, e
questo nell’influenza malchiamata “spagnola”..
Con l’argomento di cui sopra il
lettore ha elementi sufficienti di giudizio. Qui mi limiterò a rendere omaggio
a quegli italiani vittime di angherie da parte di forze dell’ordine acefale
nonché da folle di dementi inferociti, perché colpevoli di anelare libertà
personale.
Silvano Borruso
20 aprile 2020
[2] Times, Londra, 8 agosto 1881. Neretto mio.
[3] La sanità ufficiale muove una guerra senza
quartiere alla cura Arnaldi da decenni. Non mi è dato sapere gli ultimi
sviluppi.
[4] Carattere di Macbeth, Shakespeare
[7] Gli altri tre: intestino, reni e pelle rimangono
fuori dal conto.
[9] Si è beccata quell’aggettivo perchè i primi casi
vennero osservati in Spagna, ma i colpiti erano statunitensi.