mercoledì 29 maggio 2019

LE PROSPETTIVE GEOPOLITICHE E GEOECONOMICHE DI TRUMP.


Sicuramente quella di Donald Trump, passerà alla storia come una delle
presidenze più controverse. Iniziata con le peggiori aspettative dei buonisti e
delle oche del “politically correct”, ha invece imboccato la strada di una crescita
economica, quest’anno attestatasi sul 3, 2% e che “The Donald”, vorrebbe veder
attestarsi su una media del 2,5%/3% almeno sino al 2024, ultimo anno in cui
potrà rimanere alla presidenza degli Usa. La ricetta vincente sembra esser quella
di una forte defiscalizzazione, attuata senza alcuna copertura finanziaria, in
barba alle prescrizioni dell’ufficialità macroeconomica, più inclini ad una
pareggio dei conti pubblici attraverso manovre di contenimento del deficit e del
debito pubblico. Cosa che Trump ha voluto puntualmente disattendere,
accompagnando la propria politica economica ad una stretta sulle importazioni,

andando ad inaugurare una politica dei dazi, tutta in controtendenza rispetto
alla vulgata economica globalista che, dell’apertura dei mercati senza se e senza
ma, aveva fatto il proprio mantra. Se da una parte, questi dati premettono
all’amministrazione Usa di poter cantare vittoria, almeno rispetto ai disastrosi
dati di alcuni anni fa, a seguito della crisi finanziaria del 2009, dall’altra però ci
impongono una riflessione, determinata dalla presenza dall’analisi dei fattori
economici che comportano quel +3,2% di crescita appena registrato.
Cominciamo con il dire che i due terzi di quel +3,2%, sono dati dall’ incremento
delle scorte, incremento della spesa pubblica locale e federale (nonostante
lo shutdown) e dal succitato miglioramento della bilancia commerciale dato da
una sostanziale crescita dell’export e da una altrettanta riduzione dell’import.
L’incremento delle scorte, è un dato sicuramente molto controverso: esso può
significare un aumento della produzione in previsione di un aumento delle
vendite, ma anche una riduzione della domanda che fa accumulare le scorte
invendute in magazzino. E questo probabilmente potrebbe rappresentare un
segnale di imminente crisi per le aziende esportatrici, in vista di nuovi dazi alla
Cina. L’incremento delle esportazioni del 3,7% e la riduzione delle importazioni
per il medesimo valore, in virtù della politica protezionistica
dell’amministrazione Trump, difficilmente potrà garantire gli stessi risultati nel
lungo periodo, quando scatteranno identiche contromisure da parte di altri
Paesi. In ultimo, dovrebbero preoccupare maggiormente proprio i dati su
consumi e investimenti. I primi, che rappresentano i due terzi della ricchezza
americana, nel primo trimestre 2019 hanno registrato solo un +1,3%, (il valore
più basso dal 2013 e comunque in forte contrazione rispetto al +2,6% di fine
2018...). Nonostante sia la mecca degli investimentii, la loro crescita risulta
dimezzata rispetto all’ultimo trimestre dello scorso anno e passa dal 5,4% al
2,7%. Il tutto, considerando uno scenario di complessiva contrazione del volume
dei commerci internazionali, diminuito dell’1,9% nello stesso periodo del 2019.
Tutti dati che dovrebbero porci di fronte alla domanda su come Trump e
l’amministrazione Usa riusciranno a fronteggiare ed a compensare le previsioni
sugli scompensi e la decrescita prossima ventura dell’economia del gigante
nordamericano. E la risposta non può che venire dallo scenario geo politico e geo
economico e dai suoi principali punti di frizione. Primo su tutto, gli Usa puntano,
ora più che mai, al controllo delle fonti di approvvigionamento di materie prime,
petrolio in primis e relativi contesti geopolitici. Conferirsi una esclusiva assoluta,
o quasi, sulla distribuzione dell’oro nero, significa poter pesantemente
condizionare i competitor cinesi e russi. Estromettere l’Iran dalla penisola
arabica con la guerra nello Yemen ed al contempo riuscire ad estendere la
propria influenza sull’area tra Iraq ed il riottoso Afghanistan, forzando la mano
con sanzioni e nuovi accordi (specie in tema di armamenti missilistici),
garantirebbe agli Usa la possibilità di creare un formidabile contraltare geo
politico ed economico alla Cina ed alla sua Via della Seta ed alla penetrazione
della Russia nell’area mediorientale, attraverso il cuneo siriano. Il controllo del

governo (e del petrolio, sic!) venezuelano ridarebbe agli Usa una maggior libertà
di azione in quell’area latino americana da troppi anni attraversata da fermenti
populisti e sovranisti, (dal Brasile della gestione Lula, ai vari governi della
sinistra populista, dalla Bolivia all’Ecuador...), permettendo di tornare a
condizionare l’intera area sud del continente americano tramite l’oro nero
venezuelano oltre a quell’area caraibica, da cui estrometterebbe qualsiasi
influenza russa su Cuba che, del petrolio venezuelano ha recentemente fruito “ad
abundatiam”, grazie al governo di Chavez e dei suoi successori. Il governo
chavista, a sua volta, ha sottoscritto nel corso degli anni una serie di accordi
economici e militari con quell’Iran, di cui gli Usa di Trump vorrebbero
pesantemente condizionare la politica. Le stesse prese di posizione sulla
questione della Crimea e del Donbass, decisamente avverse alla Federazione
Russa di Putin, sono intese a contenerne l’influenza su tutta quell’area compresa
tra il Mar Nero ed i Dardanelli, di vitale importanza per il passaggio di navi e
merci da e verso il Mediterraneo. In tutto questo, la politica di Trump e quella
Usa in genere, nel puntare ad impadronirsi in modo esclusivo della gestione e
della distribuzione degli approvvigionamenti di materie prime, attraverso la
longa manu delle varie compagnie petrolifere, renderebbe, nel medio termine,
molto problematica l’espansione economica del gigante cinese. Nell’immediato,
la politica dei dazi di Trump ha sortito l’effetto di un rallentamento della corsa
della Cina, ma, come abbiamo sopra visto, anche di un complessivo
rallentamento del commercio mondiale. E siccome oggi viviamo in un mondo
“globalizzato”, ovverosia strettamente interconnesso, le ricadute negative sulle
economie europee ed italiana in particolare, non tardano a farsi sentire,
rimettendoci dinnanzi all’eterno quesito sul “come” ovviare alle umoralità ed
alle instabilità geoeconomiche globali. A dover essere messo in discussione non
è qui un provvedimento tecnico piuttosto che un altro, bensì un’intera

impostazione economica e tutto quel che ne consegue, ovverosia quella liberal-
liberista. Di fronte alla sempre più frequente ricorrenza, di disastrose crisi

finanziarie globali che, ad oggi lasciano i popoli d’Europa totalmente indifesi,
sempre più vittime di un costante e generale impoverimento, consistente nella
graduale perdita dei principali diritti sociali, accompagnati a degrado, carovita
ed insicurezza senza precedenti, sempre più si da strada l’idea di un ritorno ad
uno Stato “forte”, interventista in economia, in totale controtendenza con quanto
sinora propalato dalle varie scuole economiche liberiste. Trump ci sta
danneggiando perché ha ricominciato una virulenta politica economica
protezionista. E noi dobbiamo trovare la capacità di rispondere parimenti. Il
moderato keynesismo che , qua e là potrebbe rispuntare, non è assolutamente
sufficiente. I timidi tentativi di mantenere delle quote di partecipazione del
Tesoro in alcune aziende nostrane oggi in difficoltà, quali Alitalia e Ferrovie, non
è assolutamente sufficiente. Accanto alla graduale uscita dagli accordi-cappio
dei vari WTO e dalla gabbia dell’Euro, sarà invece necessario un programma di
nazionalizzazione delle attività strategiche per il nostro paese. Gas, Luce,

Energia, Trasporti e Telecomunicazioni, debbono ritornare sotto un controllo
pubblico, spurgato dalle pastoie della nostrana, soffocante, burocrazia. Creare
assolutamente un meccanismo legislativo che permetta ai governi, in
determinati casi, una forma di decretazione d’urgenza per far passare tutti quei
programmi o proposte di legge o decreti che, in normali condizioni, dovrebbero
passare tra i mille lacci e lacciuoli della burocrazia di cui sopra ed
ingloriosamente arenarsi. Incentivare la piccola-media intrapresa e l’azionariato
diffuso, con una politica di bassa fiscalità. Ridare potere alla Banca Centrale di
emettere moneta, autonomamente da Bruxelles, senza la partecipazione delle
banche private e pertanto ritornare ad una moneta emessa dallo Stato e non da
queste ultime. Ma, il punto centrale dell’intera questione sta in un aspetto, non
ancora toccato da nessuno dei vari ed improvvisati “sovranisti” da strapazzo che
oggi, agitano la scena politica italiota ed europea, urlando slogan, ma non
proponendo ancora nulla di veramente risolutivo. Punto di forza degli Usa, al di
là delle varie analisi sui possibili scenari geopolitici ed economici, sta nel fatto
che essi detengono la maggior parte del circolante monetario espresso in dollari
del mondo e questo perché, Lor Signori il denaro lo producono e lo esportano, al
pari di una pregiata materia prima, grazie agli accordi di Bretton Woods, che
hanno stabilito “de iure”, la supremazia del dollaro Usa, eletto a valuta di
riferimento, sull’intero mercato valutario internazionale. L’abbandonare
unilateralmente questi accordi, in concordanza con i partner europei ed al
maggior numero possibile di nazioni extra europee, costituirebbe per gli Usa un
colpo durissimo, peggiore di quello rappresentato dall’uscita dalla Nato o da un
altro disastroso attentato di Al Qaeda. Al contempo, andrebbe incentivata ed
implementata la pratica di un azionariato diffuso, accompagnata da precise
disposizioni normative avverse alle grandi concentrazioni economiche e
finanziarie, tali da rendere difficile la creazione di cartelli e gruppi di pressione
in tal senso. Sempre in questa direzione, il ripristino in territorio italiano di un
corrispettivo giuridico della legge Steagall, abrogata dalla famigerata presidenza
Clinton e che prevedeva la divisione degli istituti bancari, tra quelli
esclusivamente indirizzati al risparmio e quelli invece specializzati in esclusiva
negli investimenti. L’ultimo colpetto all’edificio globale, infine, andrebbe dato al
problema del costo del denaro, attraverso l’abolizione del meccanismo delle
famigerate plusvalenze, che va a caricare l’interesse del danaro prestato di altri
interessi e via discorrendo nel tempo, corrodendo inesorabilmente le economie
dei risparmiatori e dei consumatori e conferendo, invece, all’ istituto bancario
dei guadagni da capogiro. In questo modo, la stessa alea di rischio degli
investimenti azionari, ma anche la loro eccessiva fluttuazione andrebbero
riducendosi notevolmente, con buona pace di speculatori ed affini. Come ben si
può vedere, questa, al pari di altre, fasi di crisi e/o stagnazione è indotta e può
ben essere superata, solo adottando certi semplici e poco costosi problemi.
L’edificio globale da Lor Signori creato, è, ad oggi, molto più fragile di quel che
potrebbe, a prima vista, sembrare. Se alcuni “rumors” possono creare crisi e

contraccolpi a livello internazionale, non indifferenti, proviamo solo ad
immaginare cosa ne sarebbe del Nuovo Ordine Mondiale, solo ad iniziare certi
programmi...Il problema, al solito, è uno solo: chiarezza negli obiettivi e volontà
di agire. La marcia Europetta buonista, è oggi in preda ad un forte mal di
stomaco: populismi di varia estrazione e natura, trovano spazio d’ascolto e
consenso sin qui inusitati, ma non basta. Vivendo in una società, per dirla con
Baumann, “liquida”, di fronte a chiacchiere non corroborate da fatti concreti, i
consensi potrebbero ben presto sfumare nel nulla, sancendo un altro trionfo
della banalità del Politically correct. Per questo, chiarezza e volontà di agire, al di
là di ogni schema, limite, appartenenza sono, oggi più che mai, fondamentali. E
stavolta, statene certi, ne va della nostra sopravvivenza come uomini liberi.
UMBERTO BIANCHI