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Quella della grande Guerra, è sempre stata una rievocazione “totalizzante”
che ha, cioè, sempre coinvolto emotivamente tutti gli strati e le componenti
ideologiche, politiche e sociali della società italiana ed europea, senza
ambiguità di sorta, se non quelle a malapena sussurrate da un timido e
malconcio pacifismo. Cosa questa, assolutamente non riscontrabile per
quanto attiene, invece, l’ultimo conflitto mondiale, ove qualunque episodio
celebrativo ha subito l’immancabile investitura ideologica, data dalla logica
della guerra civile e della manichea contrapposizione Fascismo-Antifascismo,
la cui spirale è durata sino ai giorni nostri.
Da quella Grande e terribile Guerra, da quel micidiale scontro tra masse
d’acciaio in movimento, da quell’inedito cozzare di moltitudini, nel nome di
una mai vista mobilitazione totale, uscì rafforzata la generazione dei
Totalitarismi Occidentali, Fascista e Bolscevico. Ma uscì anche rafforzata e
plasmata come non mai, quella coscienza di italianità che il Risorgimento,
nella sua natura di rivoluzione liberale e borghese e perciò stesso, elitaria,
non era assolutamente riuscito a conferire al nostro Paese. E qui, ci basti
ricordare come andarono a finire i tentativi rivoluzionari di Carlo Pisacane e di
Bakunin, per non parlare della pluridecennale guerriglia, (che ad oggi, si
insiste prosaicamente, a chiamare “brigantaggio”) che la Calabria borbonica
oppose al governo torinese del neonato Regno d’Italia.
Dalla Prima, Grande Guerra, uscirono i Mussolini, i D’Annunzio ed i Fasci di
Combattimento, ma anche personaggi come Sandro Pertini e gli Arditi del
Popolo (destinati a breve vita sul proscenio della politica italiana, sic!). Quella
volta l’Italia si fece Nazione e, a conferma di questo rinnovato e radicato
senso di appartenenza, all’indomani degli accordi di Parigi e di Berlino, di
fronte alla tracotanza ed all’arroganza dell’americano Wilson, ma anche del
francese Clemenceau e dell’insipienza del britannico Lloyd George, sulla
questione delle promesse di concessioni territoriali all’Italia, tra cui quella
irrinunciabile di Fiume, con uno spontaneo atto di forza guidato da
D’Annunzio e da alcuni esponenti del Regio Esercito, ma anche da altri
settori del nazionalismo italiano, Fiume venne occupata.
In barba a tutti quegli equilibri diplomatici, a quelle prudenze mediatorie, a
quei distinguo ed a quegli atteggiamenti di irrisoria sufficienza che, sino a
quel momento, avevano caratterizzato l’atteggiamento delle varie Potenze in
campo con l’Italia. Quello di Fiume, fu l’episodio apicale, il punto di massimo
consenso e di incontro del consenso nazionale attorno ad un tema comune,
probabilmente mai registrato nella storia italiana. D’Annunzio, De Ambris, ma
anche Marinetti, Mussolini, Gramsci e gli ambienti legati al nascente
socialismo marxista, al pari di quelli espressione dell’insurrezionalismo
anarchico, appoggiarono e condivisero senza riserve l’impresa fiumana, la
Carta del Carnaro e le istanze che ne stavano alla base. Una Rivoluzione
mancata, conclusa nel famoso “Natale di sangue” del 1920, sostituita da
un’altra Rivoluzione, quella Fascista, anch’essa sostenuta da un forte
consenso popolare, che non sarebbe però mai arrivato ai livelli di quello per
l’impresa fiumana.
La Grande Guerra, quale fucina di un rinnovato senso di appartenenza
nazionale, ma anche quale evento ben interpretabile sotto due ottiche
opposte ma, in qualche modo, collimanti. Partendo dall’assunto base che la
Prima Guerra Mondiale fu il punto d’arrivo di un processo storico iniziato con
la Rivoluzione Francese ed i Risorgimenti Europei, essa può esser vista
come il tragico atto finale della metastorica e geopolitica ambizione delle
Potenze marinare e mercantili (Gran Bretagna ed Usa in primis, seguite dalla
Francia…) di eliminare dallo scenario geopolitico quegli Imperi che, ad Est
come ad Ovest avevano, per troppo tempo, mantenuto una funzione
stabilizzatrice sul “kontinentalblock” euro- asiatico, frenando l’impetuosa
espansione dell’economia capitalista globale, sorretta da un vertiginoso
sviluppo tecnologico.
Due visioni del mondo opposte, l’ecumene imperiale della vecchia Cacania e
dell’Impero Ottomano, poste lì a frenare i sussulti di una Modernità
sovversiva, fatta di idee liberali e materialiste centripete volte a distruggere un
equilibrio che gli accordi di Vienna, sembravano voler sancire per i secoli a
venire. Il Primo Conflitto Mondiale rappresenta, pertanto, il crollo finale
dell’ultimo residuo di un mondo impostato sull’autorità degli ordinamenti
tradizionali, Impero e Monarchia. Al suo posto una congerie di contesti
nazionali o multinazionali, sempre più soggetti alle capricciose e volubili
volontà dei mercati e dei loro burattinai.
Ma, a ben vedere, quella stessa narrazione idelogica di cui abbiamo poc’anzi
illustrato i tratti salienti, potrebbe esser tranquillamente capovolta e portare, di
presso, alle stesse conclusioni poc’anzi illustrate. La Rivoluzione Francese ed
i vari Risorgimenti sorsero non tanto, in qualità di sovversive agitazioni, volte
a cancellare l’autorità della Tradizione, quali portabandiera di un marcio
modernismo ma, al contrario, esse furono la risposta ad un plurisecolare
processo di decadenza che, proprio quei tanto blasonati ordinamenti
tradizionali, esprimevano e cioè Chiesa, Impero e Monarchia.
A seguito di una plurisecolare contesa tra Ecclesia ed Imperium, che aveva
notevolmente indebolito e fiaccato la costruzione geopolitica del Sacro
Romano Impero, l’Europa tutta si era stabilizzata attorno ad una realtà fatta di
Monarchie nazionali ed Imperi, che vedeva contrapposte le prime (Inghilterra,
Francia, Spagna ed altre) in quanto costruzioni nazionali dotate di maggior
omogeneità etnica, ai secondi, incarnati dalla monarchia Asburgica ed in
seguito Austro-Ungarica, l’Impero Russo e lo Stato Ottomano,
prevalentemente multietnici. Abitati da popoli che, sotto la spinta delle istanze
identitarie espresse dal Romanticismo, tutte coniugate all’insegna della
riscoperta delle radici, cominciarono a spingere per vedere riconosciuti i
propri diritti di nazioni, gli Imperi si dimostrarono presto inattuali e non adatti a
stare al passo con le nuove istanze espresse da una Modernità che, non
sempre nascevano all’insegna del percorso ideologico tracciato
dall’Illuminismo, anzi.
Se le tre Rivoluzioni di inizio Modernità, inglese, americana e francese,
avevano scosso gli equilibri di un mondo sclerotizzato attorno ad ordinamenti
incapaci a stare al passo con i tempi, il percorso ideologico tra il 18° ed il 19°
secolo, rappresentò una deviazione dalle iniziali coordinate ideologiche
illuministe. Il Positivismo, il Liberalismo, lo stesso Utopismo, furono ben
presto affiancati da fenomeni di più radicale ed intensa portata ideologica. Il
nostrano insurrezionalismo liberale, che accompagnò l’inizio del nostro
Risorgimento dovette, ben presto, fare i conti con l’insurrezionalismo
repubblicano mazziniano, in Germania con il nascente marxismo, mentre in
Francia Proudhon e Blanqui, durante l’esperienza della comune del ‘ 48 si
fecero portatori di un ideale di socialismo che debordava notevolmente da
quello espresso in quegli stessi anni da Marx ed Engels, finendo con
l’innestare con costoro una polemica, ad oggi, rimasta insoluta.
Ma, a dare la stura ad un qualcosa di nuovo ed inaspettato, furono le istanze
vitaliste di Schopenauer, Nietzsche e Stirner che andarono a confluire in una
visione di sintesi che trovò in George Sorel, e nel suo anarco-sindacalismo,
una sintesi perfetta. Uno scenario questo, che fece da contorno e propellente
ad un repubblicanesimo e ad un senso dell’appartenenza che, sempre più
lontani andavano facendosi dalle istanze di un Rosmini, di un Gioberti o di un
Cavour e sempre più andavano in direzione di quel futuristico Interventismo,
che, inteso nella sua più completa accezione di paradigma esistenziale, ebbe
nelle istanze dei Corradini, dei Federzoni, dei Salvemini, ma anche dei
D’Annunzio, dei Marinetti dei Mussolini e dei Michele Bianchi (e dei suoi
Fasci di Azione Internazionale, sic!) gli esponenti più in vista.
La Grande Guerra fu allora vista come Guerra di Liberazione, in primis da
quello stato di minorità in cui la giovane nazione italiana era, in quegli anni,
relegata. La stessa vicenda risorgimentale, nel massiccio e provvido aiuto
britannico ai garibaldini, rientrava in uno scenario geopolitico animato dalla
necessità della Gran Bretagna di fare della neonata Italia la sentinella ai
propri interessi nel Mediterraneo, proprio in concomitanza con la costruzione
del canale di Suez, che avrebbe fatto del Regno Unito, il controllore della
maggior parte delle rotte del commercio mondiale.
Voglia di rivalsa, senso di identità, istanze di annessione territoriale, in
un’epoca di potente sviluppo industriale e di domini coloniali europei,
spinsero l’Italia ad abbandonare la bismarckiana Intesa con Austria e Reich
germanico, in favore dell’alleanza con quelle talassocratiche Potenze che,
nell’intenzione dei governi d’allora, avrebbero dovuto concederci chissà quali
domini. Ma le cose non andarono proprio così. Il Globalismo mostrò il suo
vero volto, infido e traditore e fu Fiume e tutto quel che venne dopo.
Ovverosia la fine dell’Italia e dell’Europa ed il progressivo estendersi del
dominio del Liberal Capitalismo, a livello globale, anche sulla pelle di quelle
stesse potenze che ne avevano così tanto, caldeggiato l’ascesa.
Ed allora, visto come sono poi andate le cose, chi aveva ragione? I
Metternich ed i De Maistre o Mazzini, Garibaldi e Proudhon? Domanda
provocatoria ma che, non può esimerci da una considerazione sulla direzione
e sulla costitutiva doppiezza ed ambiguità del destino dell’Occidente, oggi
come non mai, in bilico tra un suicida asservimento al dominio dell’elemento
Tecno Economico sull’umano e tra il suo rovesciamento a favore di un nuovo
tipo di oltre-uomo, grazie a quella Techne a lui resa nella sua primigenia
veste di sacro strumento di perfezionamento individuale. Ed allora, nel nome
della ontologica doppiezza che caratterizza la vicenda d’Occidente tutto, a
proposito della nostra domanda poc’anzi formulata, non possiamo non
affermare la fondamentale giustezza di ambedue le posizioni, conservatrice e
rivoluzionaria, in attesa di quella sintesi tra polarità opposte, che sola può
farci sperare nel ritorno e nel riscatto dell’Europa e dell’Occidente.
UMBERTO BIANCHI