mercoledì 14 novembre 2018

UNA VITTORIA MUTILATA. LE RAGIONI DELLA GRANDE GUERRA

. Quella della grande Guerra, è sempre stata una rievocazione “totalizzante” che ha, cioè, sempre coinvolto emotivamente tutti gli strati e le componenti ideologiche, politiche e sociali della società italiana ed europea, senza ambiguità di sorta, se non quelle a malapena sussurrate da un timido e malconcio pacifismo. Cosa questa, assolutamente non riscontrabile per quanto attiene, invece, l’ultimo conflitto mondiale, ove qualunque episodio celebrativo ha subito l’immancabile investitura ideologica, data dalla logica della guerra civile e della manichea contrapposizione Fascismo-Antifascismo, la cui spirale è durata sino ai giorni nostri. Da quella Grande e terribile Guerra, da quel micidiale scontro tra masse d’acciaio in movimento, da quell’inedito cozzare di moltitudini, nel nome di una mai vista mobilitazione totale, uscì rafforzata la generazione dei Totalitarismi Occidentali, Fascista e Bolscevico. Ma uscì anche rafforzata e plasmata come non mai, quella coscienza di italianità che il Risorgimento, nella sua natura di rivoluzione liberale e borghese e perciò stesso, elitaria, non era assolutamente riuscito a conferire al nostro Paese. E qui, ci basti ricordare come andarono a finire i tentativi rivoluzionari di Carlo Pisacane e di Bakunin, per non parlare della pluridecennale guerriglia, (che ad oggi, si insiste prosaicamente, a chiamare “brigantaggio”) che la Calabria borbonica oppose al governo torinese del neonato Regno d’Italia. Dalla Prima, Grande Guerra, uscirono i Mussolini, i D’Annunzio ed i Fasci di Combattimento, ma anche personaggi come Sandro Pertini e gli Arditi del Popolo (destinati a breve vita sul proscenio della politica italiana, sic!). Quella volta l’Italia si fece Nazione e, a conferma di questo rinnovato e radicato senso di appartenenza, all’indomani degli accordi di Parigi e di Berlino, di fronte alla tracotanza ed all’arroganza dell’americano Wilson, ma anche del francese Clemenceau e dell’insipienza del britannico Lloyd George, sulla questione delle promesse di concessioni territoriali all’Italia, tra cui quella irrinunciabile di Fiume, con uno spontaneo atto di forza guidato da D’Annunzio e da alcuni esponenti del Regio Esercito, ma anche da altri settori del nazionalismo italiano, Fiume venne occupata. In barba a tutti quegli equilibri diplomatici, a quelle prudenze mediatorie, a quei distinguo ed a quegli atteggiamenti di irrisoria sufficienza che, sino a quel momento, avevano caratterizzato l’atteggiamento delle varie Potenze in campo con l’Italia. Quello di Fiume, fu l’episodio apicale, il punto di massimo consenso e di incontro del consenso nazionale attorno ad un tema comune, probabilmente mai registrato nella storia italiana. D’Annunzio, De Ambris, ma anche Marinetti, Mussolini, Gramsci e gli ambienti legati al nascente socialismo marxista, al pari di quelli espressione dell’insurrezionalismo anarchico, appoggiarono e condivisero senza riserve l’impresa fiumana, la Carta del Carnaro e le istanze che ne stavano alla base. Una Rivoluzione mancata, conclusa nel famoso “Natale di sangue” del 1920, sostituita da un’altra Rivoluzione, quella Fascista, anch’essa sostenuta da un forte consenso popolare, che non sarebbe però mai arrivato ai livelli di quello per l’impresa fiumana. La Grande Guerra, quale fucina di un rinnovato senso di appartenenza nazionale, ma anche quale evento ben interpretabile sotto due ottiche opposte ma, in qualche modo, collimanti. Partendo dall’assunto base che la Prima Guerra Mondiale fu il punto d’arrivo di un processo storico iniziato con la Rivoluzione Francese ed i Risorgimenti Europei, essa può esser vista come il tragico atto finale della metastorica e geopolitica ambizione delle Potenze marinare e mercantili (Gran Bretagna ed Usa in primis, seguite dalla Francia…) di eliminare dallo scenario geopolitico quegli Imperi che, ad Est come ad Ovest avevano, per troppo tempo, mantenuto una funzione stabilizzatrice sul “kontinentalblock” euro- asiatico, frenando l’impetuosa espansione dell’economia capitalista globale, sorretta da un vertiginoso sviluppo tecnologico. Due visioni del mondo opposte, l’ecumene imperiale della vecchia Cacania e dell’Impero Ottomano, poste lì a frenare i sussulti di una Modernità sovversiva, fatta di idee liberali e materialiste centripete volte a distruggere un equilibrio che gli accordi di Vienna, sembravano voler sancire per i secoli a venire. Il Primo Conflitto Mondiale rappresenta, pertanto, il crollo finale dell’ultimo residuo di un mondo impostato sull’autorità degli ordinamenti tradizionali, Impero e Monarchia. Al suo posto una congerie di contesti nazionali o multinazionali, sempre più soggetti alle capricciose e volubili volontà dei mercati e dei loro burattinai. Ma, a ben vedere, quella stessa narrazione idelogica di cui abbiamo poc’anzi illustrato i tratti salienti, potrebbe esser tranquillamente capovolta e portare, di presso, alle stesse conclusioni poc’anzi illustrate. La Rivoluzione Francese ed i vari Risorgimenti sorsero non tanto, in qualità di sovversive agitazioni, volte a cancellare l’autorità della Tradizione, quali portabandiera di un marcio modernismo ma, al contrario, esse furono la risposta ad un plurisecolare processo di decadenza che, proprio quei tanto blasonati ordinamenti tradizionali, esprimevano e cioè Chiesa, Impero e Monarchia. A seguito di una plurisecolare contesa tra Ecclesia ed Imperium, che aveva notevolmente indebolito e fiaccato la costruzione geopolitica del Sacro Romano Impero, l’Europa tutta si era stabilizzata attorno ad una realtà fatta di Monarchie nazionali ed Imperi, che vedeva contrapposte le prime (Inghilterra, Francia, Spagna ed altre) in quanto costruzioni nazionali dotate di maggior omogeneità etnica, ai secondi, incarnati dalla monarchia Asburgica ed in seguito Austro-Ungarica, l’Impero Russo e lo Stato Ottomano, prevalentemente multietnici. Abitati da popoli che, sotto la spinta delle istanze identitarie espresse dal Romanticismo, tutte coniugate all’insegna della riscoperta delle radici, cominciarono a spingere per vedere riconosciuti i propri diritti di nazioni, gli Imperi si dimostrarono presto inattuali e non adatti a stare al passo con le nuove istanze espresse da una Modernità che, non sempre nascevano all’insegna del percorso ideologico tracciato dall’Illuminismo, anzi. Se le tre Rivoluzioni di inizio Modernità, inglese, americana e francese, avevano scosso gli equilibri di un mondo sclerotizzato attorno ad ordinamenti incapaci a stare al passo con i tempi, il percorso ideologico tra il 18° ed il 19° secolo, rappresentò una deviazione dalle iniziali coordinate ideologiche illuministe. Il Positivismo, il Liberalismo, lo stesso Utopismo, furono ben presto affiancati da fenomeni di più radicale ed intensa portata ideologica. Il nostrano insurrezionalismo liberale, che accompagnò l’inizio del nostro Risorgimento dovette, ben presto, fare i conti con l’insurrezionalismo repubblicano mazziniano, in Germania con il nascente marxismo, mentre in Francia Proudhon e Blanqui, durante l’esperienza della comune del ‘ 48 si fecero portatori di un ideale di socialismo che debordava notevolmente da quello espresso in quegli stessi anni da Marx ed Engels, finendo con l’innestare con costoro una polemica, ad oggi, rimasta insoluta. Ma, a dare la stura ad un qualcosa di nuovo ed inaspettato, furono le istanze vitaliste di Schopenauer, Nietzsche e Stirner che andarono a confluire in una visione di sintesi che trovò in George Sorel, e nel suo anarco-sindacalismo, una sintesi perfetta. Uno scenario questo, che fece da contorno e propellente ad un repubblicanesimo e ad un senso dell’appartenenza che, sempre più lontani andavano facendosi dalle istanze di un Rosmini, di un Gioberti o di un Cavour e sempre più andavano in direzione di quel futuristico Interventismo, che, inteso nella sua più completa accezione di paradigma esistenziale, ebbe nelle istanze dei Corradini, dei Federzoni, dei Salvemini, ma anche dei D’Annunzio, dei Marinetti dei Mussolini e dei Michele Bianchi (e dei suoi Fasci di Azione Internazionale, sic!) gli esponenti più in vista. La Grande Guerra fu allora vista come Guerra di Liberazione, in primis da quello stato di minorità in cui la giovane nazione italiana era, in quegli anni, relegata. La stessa vicenda risorgimentale, nel massiccio e provvido aiuto britannico ai garibaldini, rientrava in uno scenario geopolitico animato dalla necessità della Gran Bretagna di fare della neonata Italia la sentinella ai propri interessi nel Mediterraneo, proprio in concomitanza con la costruzione del canale di Suez, che avrebbe fatto del Regno Unito, il controllore della maggior parte delle rotte del commercio mondiale. Voglia di rivalsa, senso di identità, istanze di annessione territoriale, in un’epoca di potente sviluppo industriale e di domini coloniali europei, spinsero l’Italia ad abbandonare la bismarckiana Intesa con Austria e Reich germanico, in favore dell’alleanza con quelle talassocratiche Potenze che, nell’intenzione dei governi d’allora, avrebbero dovuto concederci chissà quali domini. Ma le cose non andarono proprio così. Il Globalismo mostrò il suo vero volto, infido e traditore e fu Fiume e tutto quel che venne dopo. Ovverosia la fine dell’Italia e dell’Europa ed il progressivo estendersi del dominio del Liberal Capitalismo, a livello globale, anche sulla pelle di quelle stesse potenze che ne avevano così tanto, caldeggiato l’ascesa. Ed allora, visto come sono poi andate le cose, chi aveva ragione? I Metternich ed i De Maistre o Mazzini, Garibaldi e Proudhon? Domanda provocatoria ma che, non può esimerci da una considerazione sulla direzione e sulla costitutiva doppiezza ed ambiguità del destino dell’Occidente, oggi come non mai, in bilico tra un suicida asservimento al dominio dell’elemento Tecno Economico sull’umano e tra il suo rovesciamento a favore di un nuovo tipo di oltre-uomo, grazie a quella Techne a lui resa nella sua primigenia veste di sacro strumento di perfezionamento individuale. Ed allora, nel nome della ontologica doppiezza che caratterizza la vicenda d’Occidente tutto, a proposito della nostra domanda poc’anzi formulata, non possiamo non affermare la fondamentale giustezza di ambedue le posizioni, conservatrice e rivoluzionaria, in attesa di quella sintesi tra polarità opposte, che sola può farci sperare nel ritorno e nel riscatto dell’Europa e dell’Occidente.
 UMBERTO BIANCHI