venerdì 12 ottobre 2018

CESARE E QUEL CHE È DI CESARE di Silvano Borruso



L’unica cosa chiara nella famosa ingiunzione di dare a Cesare il suo, è che è per tutti, ma non specifica né chi sia Cesare, né che cosa gli si debba come suo. Ciò fu lasciato ai futuri cristiani perchè lo studiassero e implementassero. Lo faremo a continuazione.

Prima Parte: Cesare

Per secoli si intese per Cesare l’istituto monarchico, dinastico o meno. Nel mondo antico c’era di tutto un po’: l’Imperator (greco Sebaste) romano, il tiranno ellenico, la diarchia spartana, la democrazia ateniese e via dicendo. Cesare era anche aristocratico, con governi di pochi uomini scelti. Non scenderò a particolari, ma faccio notare che i Somali a tutt’oggi preferiscono governarsi per mezzo di clan autonomi senza governo centrale, e meno ancora monarchico.[1]
La Cristianità adottò la monarchia, per lo più dinastica ma anche elettiva, come in Polonia. L’istituto monarchico aveva due caratteristiche e un problema:
Prima caratteristica: il comando unificato del potere legislativo, giudiziario ed esecutivo;
Seconda: il principio monarchico-gerarchico: il monarca sceglieva il successore e lo formava. Si dava per scontato, non sempre azzeccandocela, che le doti di comando fossero ereditarie. Nella Cristianità il principio monarchico vigeva anche nei corpi intermedi: municipi, giurisdizioni territoriali e personali, corporazioni, famiglie ecc.
Il problema, comune a ogni forma di governo, era il perenne Quis custodiet ipsos custodes? Cioè, chi pone limiti alla tentazione di ogni monarca di trascurare il bene comune a favore del proprio? La Cristianità lo aveva risolto con il principio del dovere, comune al monarca fino all’último cittadino, suddito o vassallo che dir si voglia.
Passati i secoli siamo in grado di osservare, in quello che una volta fu la Cristianità, i risultati pratici del processo sovversivo “divide et impera”, spinto dalla rivoluzione mal chiamata “francese”. I fini di essa vennero particolareggiati dai suoi stessi fautori fin dal principio:
Uguaglianza e libertà erano i diritti dell’uomo nella sua perfezione originaria e primitiva, assegnategli dalla natura. Il primo attacco all’uguaglianza fu sferrato dalla proprietà; quello alla libertà, dalle società politiche o governi. Il solo sostegno della proprietà e dei governi sono le leggi, religiose e civili. Per restituire all’uomo quindi i diritti primitivi di uguaglianza e di libertà, sono da distruggere prima la religione, poi la società civile, e in fine la proprietà.[2]
Il ragionamento non fa una grinza, sempre che l’idillio descritto dalle penne fertili di Jean Jacques (1712-1778) e del suo predecessore Thomas Hobbes (1588-1679) sia storicamente vero. Però nessuno dei due, e meno ancora l’infinito numero di adepti, si è mai preoccupato dell’esistenza storica dell’utopía detta Contratto Sociale.
I primi ad attaccare l’ordine sociale cristiano con successo furono gli Umanisti, intellettuali paganeggianti del XV secolo; seguì l’attacco morale della Riforma protestante del XVI, e quello alle istituzioni con la rivoluzione summenzionata. Il medesimo impegno continua oggi: smantellare qualunque istituzione con tracce residue di unità in diversità, per sostituirla con altre, uniformi e uguali. Vi campeggiano, come vedremo, le prerogative di Cesare.
Il suo comando unificato fu il bersaglio di Montesquieu (1689-1755), che disquisì circa la separazione dei tre poteri. Non ci volle molto per verificarne i risultati. Nel 1851, in poco più di 60 anni di politiche rivoluzionarie, così scriveva Pierre Joseph Proudhon (1809-1865):
Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, ad ogni azione, ad ogni transazione, ad ogni movimento, annotato, registrato, censito, tariffato, timbrato, squadrato, postillato, ammonito, quotato, collettato, patentato, licenziato, autorizzato, impedito, riformato, raddrizzato, corretto. Vuol dire essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato, e, alla minima resistenza, alla prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, braccato, tartassato, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell'interesse generale. Ecco il governo, la sua giustizia, la sua morale![3]
La giustizia e la morale stigmatizzate da Proudhon non erano quelle del “governo” il cui potere si andava affievolendo, ma quelle dello Stato moderno che ne aveva usurpato le funzioni. Ecco come lo giudicava il filosofo spagnolo Joaquín Costa (1846-1911):
La sola personalità, immensa, gigantesca, schiacciante, pancosmica, che violando le leggi naturali della società, monopolizza la legislazione con la legge del più forte.[4]
A 100 anni da codesta seconda citazione, è visibilissimo quel che è successo sostituendo un comando unificato con un non-comando la cui descrizione sfida ogni immaginazione.
I libri di testo di quel che passa per “storia” raccontano che dopo un effimero passaggio di “monarchie costituzionali” siamo arrivati all’agognata Democrazia insieme all’inseparabile “Stato di Diritto”, al di fuori dei quali non è che pianto e stridore di denti.
La realtà è ben diversa. I tre poteri li si esercita, ma non separatamente. Li si esercita temerariamente, cioè a completo casaccio. Innumerevoli leggi e leggine, cambianti come nuvole, vengono promulgate giornalmente da parlamenti, capi dell’esecutivo, tribunali più o meno “supremi”, municipi, burocrati sguinzagliati, e generalmente parlando da chiunque si avvantaggia della “gran finzione” come la chiamava Frédéric Bastiat (1801-1850) del Governo, attraverso la quale ognuno si adopera per vivere a spese altrui.
Detto altrimenti, nello Stato di Diritto nessuno custodit ipsos custodes. Valga un esempio: un mirmidone della specie che pullula in uno dei tanti uffici da dove comanda un pezzettino del fu Cesare, si pianta davanti ad un impresario che dopo un anno di causa giudiziaria ha ottenuto sentenza favorevole: “Ci rendiamo conto che il giudice ha sentenziato a tuo favore, ma ti faremo la vita impossibile fino a mandare a picco il tuo progetto se non ci dai (qui particolareggiava l’ammontare della mazzetta). Ogni commento è superfluo.
La perdita del comando unificato trascinò nella sua caduta il principio monarchico, mentre si affermava, in una corsa ad ostacoli, quello elettivo. È più facile seguirne lo sviluppo nella storia ecclesiastica, più lineare di quella civile.
Secondo una tradizione, S. Pietro scelse personalmente Lino, Cleto e Clemente, i primi tre successori. Ma presto si passò all’elezione per acclamazione “del clero e popolo” di Roma, alla quale si aggiunsero “indicazioni” prima degli imperatori bizantini e poi carolingi. Con le guerre tra i nipoti di Carlomagno, che segnarono la perdita dell’unità politica, le elezioni papali degenerarono, verso il secolo IX, in lotte dinastiche tra poderose famiglie romane, ognuna delle quali mirava a piazzare un rampollo sul trono di Pietro.
Nel secolo X (“di ferro” ssecondo alcuni) il papato lo gestiva un curioso istituto che certi storiografi soprannominano “pornocrazia”. Ne erano in carica due donne della famiglia dei Teofilatti: Teodora e la figlia senatrice di Roma Marozia, che come suggerisce il titolo poco laudatorio, non andavano tanto per il sottile nell’uso di metodi poco ortodossi.
Così che quando l’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico III si presentò a Roma per farsi incoronare dal papa, ne incontrò ben tre, senza che nessuno sapesse chi fosse quello legittimo. Espulse i tre e nominò papa Clemente II, che lo incoronò.
Codesto intervento di Cesare nel mettere a salvo le cose di Dio crebbe meno sopportabile con la nomina di una serie di papi germanici ad opera dei tre Ottoni I, II e III. Ne seguì una lotta un tanto controproducente tra Impero e Papato, che affievoliva sempre di più il principio che entrambi avessero il dovere di dare il suo tanto a Cesare quanto a Dio. E così Papa Nicola II istituì il Collegio di cardinali nel 1059. Da un lato voleva sbarazzarsi del potere imperiale, dall’altro salvare il salvabile del principio monarchico. Agì però durante la minoranza di Enrico IV, sotto il quale le due istituzioni, invece di avvicinarsi, cominciarono ad allontanarsi l’una dall’altra. Gli storiografi di tendenza guelfa chiamano “libertà” della Chiesa quella che in realtà fu la sua indipendenza da Cesare, negandogli il contributo alla nomina del Sommo Pontefice.
Nonostante il cardinalato, Gregorio VII fu l’ultimo papa ad essere eletto “per acclamazione” nel 1073. Al conosciutissimo confronto di Canossa (1077) seguì la lotta per le investiture dei vescovi, risoltasi a Worms nel 1122 con la completa indipendenza della Chiesa dall’Impero.
Fuori dalle due istituzioni, il principio monarchico rimaneva in forza tra i Benedettini di Cluny, mentre l’elettivo lo promuovevano i Cistercensi di San Bernardo di Chiaravalle. La debolezza del principio elettivo apparve all’elezione papale del 1130, cuando un contrattempo provvidenziale salvo la Chiesa da un papa giudeo.
Fu costui Pietro Pierleoni, romano e nipote di un convertito, che tra il soborno e l’usura era arrivato al cardinalato. Quell’anno aspettava la morte di papa Onorio II per essere eletto lui. Ma il francese Aymeric de la Châtre, insieme a un ridotto numero di cardinali diaconi, presbiteri e vescovi, rapirono il morente Onorio ad un monastero, ne attesero l’ultimo respiro e immediatamente elessero papa uno di loro, Gregorio Papareschi con il nome di Innocenzo II. Mancavano solo tre ore all’altra elezione.
Pierleoni, eletto come Anacleto II, non ottenne l’appoggio dei Cesare della Cristianità. Nonostante esercitasse un potere de facto a Roma, rimase nella storia come antipapa.
L’intenzione iniziale del Conclave era di ovviare a codeste debolezze, ma ne sorsero altre. Alla morte di Clemente IV a Viterbo nel 1268, il tempo de sede vacante si allungò a 33 mesi, il più durevole della storia. Vi si dibatteva non tanto il merito personale di questi o quegli, ma se il papa dovesse essere francese o italiano.  Il sindaco e il popolo viterbesi, impazientitisi con il ritardo, ridussero prima le porzioni di cibo ai cardinali, e poi scoperchiarono parzialmente l’edificio.
La fame e il freddo ridiressero l’elezione verso l’arcivescovo di Liegi Teobaldo Visconti, che però si trovava in  quel frangente a S. Giovanni d’Acri, in Crociata con Edoardo I d’Inghilterra. Accettò, ma dovette ricevere le ordinazioni sacerdotale ed episcopale prima di essere coronato come Gregorio X. Le sue regole per le elezioni papali rimasero in  forza fino al XX secolo, quando le riformò papa Paolo VI.
Il Cesare Franz Joseph di Austria-Ungheria intervenne nel Conclave del 1903, impedendo che i porporati elegessero un massone. Con il salto da 70 a 120 del Collegio cardinalizio decretato da Giovanni XXIII, l’unica traccia di principio monarchico rimasta nel Conclave fu il Concistoro Segreto, convocato dal Pontefice per far sì che i cardinali potessero sviluppare opinioni circa i papabili e conoscersi tra di loro.
Però l’istituto del Conclave si indirizzò sempre di più verso rappresentare popoli e culture diverse, piuttosto che dare priorità allo scegliere un papabile. Sparito il Concistoro Segreto, l’elezione papale è oggi alla mercè del puro caso, effettivamente al capolinea di un percorso di 959 anni, 1059-2018.
L’assenza di comando unificato ha avuto effetti più deleteri nella società civile del cosiddetto “Occidente”, ossia i frantumi dell’antica Cristianità che sopravvivono alle mazzate rivoluzionarie di secoli. In paesi orientali che hanno fatto caso omesso delle sirene democratiche le cose vanno meglio, nonostante la proverbiale indifferenza culturale verso la verità e conseguente libertà.
Mi si permetta una considerazione aneddotica circa gli effetti sociali di uguaglianza e libertà rivoluzionarie.
Salvo il principio che le analogie non hanno valore probatorio, esse certamente aiutano a capire che le due ideologie non uniscono; possono solo dividere. Proprio come fa una certa sabbia.
Il pricipato islamico di Dubai volle costruire delle isole artificiali sabbiose a forma di chioma di palma, oggi visionabili in internet. Però i milioni di tonnellate di sabbia locale non servirono allo scopo, giacché i granelli di sabbia autoctona sono, come le turbe di una democrazia qualunque, uguali e libere, cioé perfettamente sferiche. Non esiste cemento che le faccia aderire l’una l’altra in unità. Però, invece di abbandonare l’ovviamente folle progetto, il principato importò sabbia dall’Australia, lontana un quarto di circonferenza terrestre.
Gli effetti della Rivoluzione egualitaria e libertaria sono analoghi. Tanto le istituzioni quanto gli individui dell’odierno “Occidente” si assomigliano sempre di più ai granelli di sabbia di Dubai: liberi da ogni legame, indipendenti l’uno dall’altro, e tanto uguali quanto inutili per impartire un che di unità a una società.
A chiederci se esista possibilità alcuna di tornare ad un ordine sociale cristiano di società di società, diverse però unite come l’universo (unum in diversis), sotto un comando unificato e gerarchico, esprimeremmo pii desideri, ma non faremmo storia. La domanda da fare è un’altra: è esistito, nei due secoli e mezzo trascorsi, un solo caso di capovolgimento controrivoluzionario che abbia avuto successo?
La risposta è affermativa, sebbene poco conosciuta. Il ritorno alla Tradizione, con la sconfitta di metodi e princìpi rivoluzionari, ebbe luogo nell’Ecuador di Gabriel García Moreno (1822-1875). Avvenne in una repubblica presidenziale, non in una monarchia. E il successo fu tale che la Massoneria condannò a morte Garcia Moreno, facendolo assassinare il 6 agosto 1875.


Seconda Parte: quel che è di Cesare

Il Fuero Viejo de Castilla, un testo di diritto feudale del secolo XIII, apre così:
Quattro cose appartengono per natura al re, che non deve né cederle ad altro uomo, né separarsi da esse: la giustizia, la moneta, il territorio e la sua rendita.
Andiamo in cerca delle quattro, per verificare che fine hanno fatto.
Giustizia
Che amministrare la giustizia fosse prerogativa reale non vuol dire che il sovrano si occupasse di ogni causa civile o penale: in una società organica, cioè composta di società a tutti i livelli, la giustizia era amministrata il più in basso possibile. Il tribunale del re era di ultima istanza.
Si racconta che tre cose piacessero alla regina Isabella di Spagna: a) una donna incinta, b) un prete che celebra Messa, e c) un malfattore che pende da una forca. Il pittore senese Ambrogio Lorenzetti (secolo XIV) ha lasciato quattro affreschi nella Sala dei Nove del palazzo del Governo, due che rappresentano il buon governo e due il malgoverno. Colpisce che il carnefice del buon governo, dipinto nell’atto di decapitare un uomo, sia nientemeno che un angelo!
La visione di giustizia, condivisa dal pittore e dalla regina, era quella di Ulpiano, giurista romano del I secolo: dare a ciascuno il suo. Per farlo, bisogna però sapere cosa sia il suo di ciascuno, per non rischiare o di non darlo, o di dare il non suo, ingiustizie entrambi.
Nel mondo antico esistevano molte versioni della giustizia di Cesare. L’aggettivo “draconiano” si riferisce a leggi promulgate dal legislatore ateniese Draco (ca 620 a.C.), che contemplavano la pena capitale per una lunga lista di delitti, ridotti da Solone al solo omicidio circa 40 anni dopo. Racconta Erodoto che Cambise II di Persia, nel sapere che un giudice aveva ricevuto una mazzetta, lo fece spellare vivo, conciarne la pelle, farne strisce e impagliare con esse la sede giudiziaria, sulla quale fece sedere il figlio del giudice a mo’ di avvertimento.
La giustizia di Roma non era esente da corruzione (Ponzio Pilato docet), però mostra la sua equità poco comune con Claudio Lisia, tribuno della guarnigione di Siria, che non esitò a mobilizzare una forza di 470 militi per frustrare la congiura di 40 giudei che si erano promessi di uccidere Paolo (Atti 24). La filosofia classica chiamava “distributiva” la giustizia che premiava il dovere e puniva la trasgressione.
I Cesare della Cristianità, nonostante i loro difetti, facevano entrambe le cose. Il Re Sole Luigi XIV di Francia punì l’intendente delle finanze Fouquet con l’ergastolo e la confisca dei beni per malversazione aggravata e continuata di fondi pubblici, coserella oggi generalmente detta “corruzione”. Si può dibattere –e lo si fa- se la pena imposta a Fouquet fosse giusta, però seguì a un processo di tre anni. La differenza è che oggi tutto un sottobosco si abboffa con gli stessi (o peggiori) metodi dello sfortunato intendente, senza conseguenze palpabili. Cioè, con Cesare la giustizia in qualche modo funzionava; remota iustitia, faceva notare Agostino,  quid sunt regna nisi magna latrocinia? La democrazia non ne conosce neanche la definizione.
Cesare non solo premiava il dovere compiuto, ma anche si sottometteva alle leggi da lui promulgate. Negli anni Sessanta del XIX secolo, Franz Joseph di Austria-Ungheria uscì a caccia in una delle riserve imperiali. A sera, stanco, sudato e sudicio, tornò al padiglione dove soleva passare la notte, e gli sovvenne che poteva evitare di aggirarlo facendo uso di una porticina di servizio posteriore. Però una sentinella gli sbarrò il passo: “Ho ordine di non far passare nessuno” disse il soldato semplice all’Imperatore. Il quale, senza dir niente, salutò, battè i tacchi e se ne andò.
Trascorsi pochi giorni, il colonnello fece chiamare la sentinella: “Sei colpevole” gli disse un tanto severamente, “di non aver riconosciuto Sua Maestà Imperiale. Pertanto Sua Maestà ti rimuove dal tuo posto”.  Davanti alla faccia afflitta del giovane, il colonnello seguì: “E ti promuove a sergente. E perché non ti dimentichi delle fattezze di Sua Maestà, ti manda venti ritratti suoi”. E consegnò all’attonito nuovo sergente 20 monete d’oro con l’effigie del sovrano. Si chieda il lettore se qualcosa di simile sia mai avvenuta in regime di democrazia.
L’uguaglianza rivoluzionaria ha devastato la giustizia di Cesare. Lungi dal dare a ciascuno il suo, dà a tutti lo stesso, prima però permettendo loro di fare ciò che vogliono, inventando “diritti” inesistenti e concedendoli a destra e a manca, anche ad animali.
L’Aquinate enumera otto tipi di pena per altrettanti tipi di delitti. L’uguaglianza rivoluzionaria conosce solo il carcere e la multa, per omicidio come per lesioni personali gravi, danni alla proprietà, e per azioni “discriminanti”, nuovo tabù della non-società egualitaria. Azioni intrinsecamente ingiuste rimangono impunite, per esempio citare qualcuno in giudizio senza ragione, o estorcere una mazzetta a cambio di una agevolazione fiscale.
C’è di più: 250 anni di martellìo rivoluzionario hanno inculcato l’idea che un delinquente politico sia di un genere più “nobile” della sua controparte comune: da Platone fino al secolo XVIII costoro venivano considerati nemici del bene comune, e giustiziati senza tanti ambagi. Molti dei loro nomi decorano (se è il termine giusto) strade e piazze di città che devono proprio a loro il disordine sociale che le attanaglia.
La libertà rivoluzionaria penalizza e depenalizza secondo decisioni di “rappresentanti del popolo” crassamente ignoranti di diritto, quando non secondo decisioni di logge massoniche. Quest’ultimo andazzo lo si vide dalla sincronizzazione, non di rado a livello mondiale, di leggi a favore del divorzio, l’aborto e ora la sodomia, che tuttora viene punita con il linciaggio qua e là in Africa e in Islam.
La moneta
Stiamo per addentrarci in una fanghiglia dalla quale non usciremo senza difficoltà. Il problema non è politico, sociale, economico o storico, ma logico e metafisico, e quel ch’è peggio, irrisolto da due millenni e mezzo. Tenterò di spiegarlo.
Il termine “moneta” o l’equivalente “denaro” da sempre occulta due funzioni contraddittorie: mezzo di scambio e riserva di valore.
Invito il lettore a verificarlo hic et nunc: che fa il “denaro” che in questo momento ha in tasca? Può solo rispondere “è mio, fino a quando non decida di spenderlo”. Arriva la spesa: quel “denaro” aiuta l’economia cambiando di mano, ma sparisce dalla tasca del lettore.
La semplice verifica suggerisce delle considerazioni.
Prima: l’uso deallo stesso termine “denaro” per entrambi gli elementi di una contraddizione non può che generare confusione.
Seconda: spendere, o risparmiare, sono azioni tanto contraddittorie quanto i termini “mezzo di scambio” e “riserva di valore”.
Terza: i termini “riserva di valore” e “risparmio” necessariamente implicano proprietà della  “moneta”. La storiella che segue aiuterà a capire.
Un  turista appare alla reception di un piccolo hotel di una cittadina sonnolenta, con scarsa attività economica e un debito diffuso. Lascia 100 dollari di caparra alla cassa e va ad ispezionare le facilità. Il gestore acchiappa i 100 dollari e corre ad estinguere il suo debito al supermercato; il padrone di questo fa lo stesso con il macellaio, che agisce ugualmente con il veterinario, che si ricorda di dover proprio 100 dollari alla signora di facili costumi residente all’hotel, dove costei è debitrice di una somma uguale, che deposita in cassa. Torna il turista, insoddisfatto di quello che ha visto; riacchiappa i 100 dollari e se ne va.
Analizzando l’accaduto, durante i cinque rapidi cambi di mano della banconota, questa non ha avuto padrone. Si è comportata come puro mezzo di scambio, estinguendo debiti per cinque volte il suo valore facciale. E in assenza di padrone, nessuno avrebbe potuto sottrarla alla circolazione per imporre un tributo a chi avesse bisogno di mezzo di scambio: non era altro.
Codesto tributo non è che l’USURA, figlia primogenita della contraddizione suvventilata, il cancro che sta consumando tutta una civiltà passando inosservato.
E l’usura, con le sue confusioni, ha generato una seconda figlia: la crematistica, condannata a suo tempo da Aristotele, ma che è una specie di magia, incantesimo o superstizione che dir si voglia, cioè la credenza che essere ricco vuol dire possedere molto denaro.
Però è impossibile possedere “denaro”, poco o molto: la sola cosa che si può possedere è la riserva di valore, che chiameremo con il suo nome da ora in poi.
Tutta una civilizzazione si è lasciata irretire dall’incantesimo. Trascinando nella sua caduta gente di ogni lega, da intellettuali più o meno accademici a strozzini professionisti che circolano camuffati da benefattori dell’umanità. La confusione concede il titolo di “investitore” a chi, davanti a uno schieramento di schermi di computer, si dedica a estrarre riserva di valore manipolando la medesima, senza prestar attenzione (benevolmente parlando) che guadagnare senza lavorare necessariamente forzerà qualcuno a lavorare senza guadagnare.
La suddetta è la legge inviolabile della crematistica. Funziona a livello personale, sociale, politico, economico ecc. Chiamando le cose con il loro nome aiuta a capire.
Orbene, la “moneta” ambigua non può “appartenere” né a Cesare né a nessun altro. Neanche può il mezzo di scambio, come visto, però è dovere di Cesare emetterlo, per esercitare il diritto di tassazione.
Poco più di un secolo prima della redazione del documento medievale sopracitato, circolavano, nell’Inghilterra di Enrico I ultimogenito di Guglielmo il Conquistatore, i tally sticks (bastoncini combaciantisi), che con una durata di 726 anni (1100-1826) mantengono ancora oggi il record mondiale di stabilità monetaria. Vediamo come funzionarono.
Erano i tallies bastoncini di salice, nocciolo o bosso, di 12 x 3 x 0,8cm circa. Un debitore scriveva il suo nome sulla parte piatta del tally, vi intagliava tacche laterali di dimensioni corrispondenti a sterline, scellini e pence, e poi spaccava il tally longitudinalmente, lasciando così un doppio testimone infalsificabile della transazione. La scarsezza cronica di moneta metallica faceva sì che i tallies fossero accettati come mezzo di scambio, e perfino dallo Scacchiere in pagamento di imposte. La pratica si estese altrove.
Qui interviene la legge inviolabile summenzionata. Come puro mezzo di scambio, i tallies erano inutili come riserva di valore. Si sottraevano pertanto all’usura: non era possibile prestarli a interesse, cioè imporre un tributo a chi ne avesse bisogno.
Alla fine della guerra dinastica tra la casata di York e quella di Lancaster (1485) entrarono le banche nel paese. Queste immediatamente individuarono i tallies come ostacoli ai loro disegni, e mossero loro guerra senza indugio. Ci vollero tre secoli e mezzo prima di vincerla.
Con la fondazione della Banca di Inghilterra (1694) la guerra si intensificò, ma solo nel 1826 le banche riuscirono a liberarsi dei tallies per legge. Ritirati dalla circolazione, vennero immagazzinati negli scantinati del Parlamento. Nel 1834 qualcuno ebbe la malaugurate idea di bruciarli in un caminetto; l’intensissimo calore appiccò il fuoco all’edificio e lo rase al suolo.
Il secolo XIX vide il passaggio lento ma inesorabile dell’emissione di mezzo di scambio da Cesare alle banche, che emettono e manipolano però il cosiddetto “credito”, continuando a muovere guerra senza quartiere al mezzo di scambio, come testifica la sparizione dei grossi tagli di euro e di rupie. Il credito bancario copre più del 95% del potere di acquisto di un paese.
Il credito non è che un atto di fede, con il quale Tizio, autorizzato dal direttore di una banca ad emetterlo, si ritiene prestatario, impegnandosi a pagare interesse su una somma che ha contrattato di emettere però che non esiste fino a quando lui non firma il primo assegno.
La banca, però, non autorizza il prestatario a creare interesse. Questo lo deve produrre o lavorando di più, o facendo lavorare di più un altro prestatario, o indebitandosi ulteriormente per pagarlo. Così che se dieci prestatari autorizzati ad emettere 10mila unità di riserva di valore dopo un anno devono “restituirne” 11mila, è matematicamente certo che prima o poi uno di essi andrà in bancarotta.
Quando le banche prestavano contante, correvano uno di due rischi: lucro cessante, per non usare loro il mezzo di scambio prestato, o danno emergente, se il prestatario non fosse stato in condizioni di resteituire il prestito. Con il credito, i due rischi non esistono, e pertanto non esiste ragione per domandare interesse, o che è lo stesso, imporre usura.
La stessa usura le banche la impongono a Cesare, a cui “prestano” quello che Cesare stesso potrebbe emettere senza indebitarsi. Ma i Cesare che tentano di farlo, leggono con attenzione la lunga lista di quelli di loro che lo hanno tentato, facendo una brutta fine. E i più si astengono.
In ogni caso, sappiamo ora chi ha usurpato la seconda prerogativa di Cesare.
Il territorio
Una qualsiiasi delle seguenti tre condizioni è necessria e sufficiente per determinare la proprietà di qualsiasi cosa: o l’hai fatta tu, o l’hai scambiata con qualcosa fatta da te, o si tratta di res nullius, cioè senza padrone apparente. A quale delle tre appartiene un territorio?
Chiaramente non alla prima. La seconda sarebbe difensibile con un titolo di proprietà, se la storia non insegnasse che all’origine di un titolo fondiario qualsiasi, dovunque, ci si imbatte in un atto di violenza: una invasione militare, una espulsione armata, un assassinio, e “formalità” del genere. Res nullius passerebbe, fino a riflettere che un fondo non è res, ma locus, o meglio situs, una delle dieci categorie aristoteliche.
Ne segue che un titolo di proprietà fondiaria è un costrutto giuridico senza fondamento in re. Può sembrare una  follia una tale affermazione in pieno secolo XXI, ma qualunque analisi: storica, filosofica o scientifica, porta alla stessa conclusione. Vediamolo.
La ragione più naturale è metafisica: la terra, immortale, non può appartenere a un mortale di passaggio. Ma senza di essa non si produce ricchezza, dal che segue che ogni essere umano, sebbene mortale, ha diritto ad occuparne una superficie che gli permetta di lavorare.
La storia corrobora. Nell’antichità, dovunque nel mondo, la proprietà terriera era collettiva, non individuale. Ma avvenne che nelle terre confiscate da Roma ai popoli che ne avevano ostacolato l’espansione, il diritto romano concesse ai senatori proprietari lo ius utendi et abutendi del possedimento, che già nel secolo II a.C. poteva chiamarsi latifondo.
È importante afferrare che l’istituto del titolo di proprietà porta necessariamente dall’agricoltura intensiva a quella estensiva, cioè al latifondo, grazie alle differenze naturali presenti in ogni aggregato di esseri umani, sie esso un municipio, regione, nazione, ecc. Il processo è sempre lo stesso.
Nel momento in cui un proprietario, abile e operoso, arriva all’uso completo della sua proprietà, si accorge che un vicino, meno abile o meno operoso, ha trascurato la sua. Gli offre un prezzo attraente, e così incorpora un secondo fondo all’anteriore. E un terzo, e un quarto... fino al latifondo. Plinio il Vecchio lamentava che latifundia perdidere Italiam. E Plinio il Giovane faceva notare come l’intera superficie coltivabile di Egitto fosse proprietà di sei persone
Ma coltivare un latifondo con la manodopera di un fondo familiare non è fattibile, cosicché il latifondista ne ha bisogno da fuori. La può attrarre in due modi.
1.      Mantenendo una grande superficie in proprietà, ma lasciandola incolta. Così paga salari bassi, che i braccianti non possono rifiutare senza diventare disoccupati;
2.      Affittando la superficie posseduta, con canoni così alti da non lasciare molta scelta all’affuttuario tra accettare o andare altrove.
Altrimenti detto, il latifondo ha la schiavitù come compagno inseparabile di viaggio. Ecco la sola ragione per cui nessuna, ripeto nessuna “riforma agraria” basata sul titolo di proprietà abbia avuto successo in qualunque epoca o parte del mondo sotto considerazione.
Si impone un’osservazione: il valore reale di qualsiasi titolo di proprietà è né più né meno che quello della forza fisica, armata o no, con la quale se ne possa impedire l’occupazione. Cesare, pertanto, non è che un proprietario fondiario, disposto a difenderne l’integrità con le forze armate. Ciò fecero i sovrani Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona nel distruggere a cannonate i numerosi castelli di quei baroni che si opponevano all’unità politica di Spagna.
Non è difficile verificare come la proprietà privata del suolo porti a guerre senza fine, quando non inutili e sanguinose. La storia non racconta molto di più.
Dopo aver accettato il battesimo con il nome di Afonso nel 1491, il manikongo (capo del già Kongo, oggi Angola settentrionale) Mvemba Nzinga mantenne contatti politico-culturali con il Portogallo fino alla sua morte nel 1543. I Portoghesi lo onorano ancora come “Costantino d’Africa” per il suoi meriti di evangelizzatore. Orbene, Re Afonso si rifiutò sempre di vendere terre ai Portoghesi. Scherzava con l’ambasciatori di Lisbona: “Castro, qual è il castigo per chi tiene i piedi a terra”?
Nel senso contrario un decreto di Costantino il Grande, datato 321, permise ai terratenenti cristiani di trasferire le loro proprietà (con lo ius utendi et abutendi) alla “Chiesa”. Stiamo ancora pagando le conseguenze, a volte sorprendenti, di codesta decisione.
Secondo quanto affermato poc’anzi la Chiesa, istituzione immortale, può possedere terra, anch’essa immortale. Sempre che lo scopo della proprietà sia anch’esso immortale, come costruire edifici di culto et similia.
Ma il decreto costantiniano riduceva la Chiesa alla sua gerarchia, fatta da mortali in carne ed ossa come papi. vescovi e clero. I quali, per garantirsi il vivere di rendita, inventarono il “titolo” di proprietà. Così lo loda Paul Johnson (1928- )
La Chiesa ne aveva bisogno per la sicurezza delle sue proprietà, e lo inserì nei codici legislativi da essa elaborati, e in maniera così indelebile da far sopravvivere la proprietà alle forme di feudalesimo impostele succcssivamente. Lo striumento giuridico del titolo (o carta) fondiario, che intesta con proprietà assoluta tanto l’individuo privato quanto la corporazione, è una delle grandi invenzioni della storia umana. Insieme alla nozione di Stato di Diritto, si tratta di un istituto economicamente e politicamente importantissimo. In quanto Tizio è in condizioni di possedere terra assolutamente, senza qualifiche sociali o economiche, e in quanto un tale diritto viene protetto, perfino contro io governo. Dallo Stato di Diritto, Tizio gode di una vera sicurezza di possesso.[5]
Le sperticate lodi di Johnson vanno leggermente moderate. La “sicurezza di possesso” della qualo poteva parlare nel 1980, viene smentita oggi dai numerosi casi di governi che proteggono gli occupanti illegali di una supposta “proprietà”. Non è un mistero, ma il verificarsi della profezia di Rousseau circa la “libertà primitiva” anteriore all’immaginario Contratto Sociale. I governi seguono i dettati della Rivoluzione con principi e metodi adeguati al tempo e al luogo. E per di più puniscono la proprietà con tasse ingiustificate e liberticide.
L’affermazione di Johnson circa “le forme di feudalesimo imposta alla proprietà” si riferisce, involontariamente forse, al citato Fuero Viejo de Castilla. che affermava come la fonsadera appartenesse naturalmente al re, così come lo affermava il manikongo Afonso Mvemba Nzinga.
La gerarchia ecclesiastica montò su nei secoli una immensa rete di previdenza sociale, pagata parzialmente con la rendita delle sue proprietà. Era un modo di mitigare lo ius abutendi mettendo in salvo lo ius utendi. In realta si trattava di una foglia di fico che nascondeva profonde divisioni sociali: lo spacco tra il basso e l’alto clero, i privilegi ingiusti accumulati da nobili che sempre più rifiutavano di accollarsi doveri liberamente assunti, specialmente quello militare, la mancanza di libertà di movimento, la servitù della gleba e tantaltro.
Il castello di carte venne giù alla Riforma, che sotto cappa di sola scriptura, sola fides e slogan pseudo religiosi del genere, fu in realtà manovra di “una masnada di ladri” come li apostrofava Hilaire Belloc, a caccia di rendite già ecclesiastiche.
La fonsadera non tornò mai più nelle mani di Cesare, né lo fecero los yantares, la rendita di ubicazione della quale tratteremo sotto.

Rendita
La prova più lampante che la rendita sia il prodotto del lavoro umano e non della superficie del suolo è offerta dagli insediamenti umani abbandonati, ghost towns di tanti film Western. Dovunque si trovano, li accomuna l’assenza totale di canoni di affitto, o altri compensi, per occupare qualunque casa, stanza, castello o altro.
I trattati di economia non distinguono abitualmente tra due rendite: una, prodotta del lavoro del proprietario; una seconda, prodotta dal lavoro di chi vive e opera attorno alla proprietà,
Orbene, codesta seconda rendita (da ubicazione) appartiene in giustizia a coloro che la creano lavorando nello stesso territorio dove si erge la proprietà. La prima fetta di tale rendita, come tassa giusta, pagherebbe un congruo stipendio alle madri produttrici ed educatrici di capitale umano; il resto pagherebbe per vari servizi pubblici. Il tutto in stretta giustizia.
Vengono spontanee due domande: a) non è questa un’utopia? Perché non avviene? È fattibile? Le tre domande le risponde un breve resoconto di quel che avvenne in Libia tr il 1979 e il 2011.
Nel 1979 il colonnello Gaddafi nazionalizzò la terra, le banche e il petrolio. Non ebbe pertanto bisogno di tassare il valore aggiunto dal lavoro dei cittadini; tassò invece quello sottratto alle risorse naturali del paese. Nel 2011 la Libia era il paese più prospero d’Africa: elettricità, istruzione e sanità erano gratis; gli agricoltori ricevevano terra, attrezzi agricoli, il primo bestiame e le prime sementi gratis; la banca nazionale offriva un prestito di 50mila dollari senza interesse ai contraenti matrimonio; la benzina costava 14 centesimi di euro al litro. E come se fosse poco, in 25 anni di lavoro silenzioso e ininterrotto, 1986-2011, si era costruito il Gran Fiume Artificiale, un acquedotto di 6mila km con tubature di 4m di diametro, che dalle profondità freatiche di Kufra convogliavano acqua alla cosa mediterranea. Il tutto senza chiedere un centesimo in prestito a nessuno.[6]
È tutt’altra storia nel Regno Unito, dove le cose vanno in senso opposto. Nel 2016 la rendita del paese ammontava a 493 miliardi di sterline, senza che nessuna andasse a impinguare lo Exchequer, l’erario pubblico britannico. La intascarono i discendenti dei landlords ai quali Enrico VIII aveva dissennatamente venduto le terre di 900 monasteri distrutti dal suo scagnozzo Thomas Cromwell nel 1536-1541. Cesare aveva ceduto il diritto di sovranità sul suolo a cambio di effimere somme sprecate in guerre inutili. E ne aveva rinforzato la sicurezza con... titoli di proprietà!
Ecco la patata bollente tra le mani di Mme May, che continuerà a bollire in quelle del suo successore chiunque egli (or ella) sia. Brexit non risolverà il problema se chi lavora verrà sottomesso a tasse che, come un tapis roulant, forzano i creatori di rendita a correre sempre piu veloci per rimanere nello stesso posto.
Nel lontanissimo 1899 Thorstein Veblen (1857-1929), economista norvegese emigrato negli Stati Uniti, pubblicò Theory of the Leisure Class, dove dettagliava il “consumo cospicuo” di tutta un’accozzaglia di persone con più denaro (riserva di valore, non dimentichiamo) che buonsenso. Ma gli sfuggì la natura di un tale consumo come rendita della fonsadera di Cesare. Detto consumo è visibilissimo: costosissimi yachts da crociera, auto Ferrari, Rolls Royce ecc., abiti e profumi griffati, viaggi senza meta eccetto ostentarli in faccia a rivali, e capricci quanto più cospicui e cari tanto meglio. Un duca britannico morì nel 2018 lasciando un’eredità di otto miliardi di sterline. Ecco dove dovrebbe rivolgersi l’attenzione di chi lamenta “non ci sono soldi” per le spese pubbliche. Ci sono e come, ma non dove dovrebbero essere.
Che il lettore tragga le sue conclusioni, e smettiamo di lamentare il divario tra i ricchi e i poveri. Aver sottratto a Cesare l’emissione di mezzo di scambio e la rendita di ubicazione del suolo è causa più che sufficiente per portare un apparente mistero alla luce del sole.


29 settembre 2018

  Silvano Borruso



[1] Nonostante gli sforzi della cosiddetta  “comunità internazionale” che tenta imporre loro il sistema centralista occidentale, senza riuscirci.
[2] Augustin Barruel (1741-1820). Citato da H. Delassus, in Le problème de l’heure presente, XIII 4.
[3] Idée générale de la Révolution au XIXe siècle (1851).
[4] Citato da J. Vallet de Goytisolo, in Verbo n. 561-562 (2018) p. 104.
[5] “Is there a Moral Basis for Capitalism?” in Democracy and Mediating Structures, ed. Michael Novak (Washington D.C.: American Enterprise Institute, 1980, p. 52). Neretto aggiunto. Corsivo nell’originale.
[6] Il contenuto del paragrafo è verificabile in Rete. La política economico-sociale del colonnello è reperibile nel libretto The Green Book, di 33 pagine, scaricabile.