martedì 3 luglio 2018

L PENSIERO ANTAGONISTA: HEGEL, MARX E GENTILE

HEGEL TRA MARX E GENTILE.
Si fa un gran parlare di Hegel e del suo pensiero, le cui interpretazioni
spaziano da una rigida vulgata in chiave razionalista ed immanentista, sino
ad una di matrice platonicheggiante sino ad arrivare, ancor più recentemente
(grazie all’opera di studiosi del calibro di Alexander Magee e di
Giandomenico Casalino), a riscoprirne ed a metterne in evidenza una
valenza prettamente ermetica.

Per meglio capire ed inquadrare il grande filosofo tedesco, si può anche
compiere un lavoro a posteriori, andando, cioè ad esaminarne le implicazioni
filosofiche, proprio negli scritti di un autore del calibro di Giovanni Gentile
riguardanti Karl Marx. La fine del 19° secolo, vede in Italia e nell’Europa
intera un forte dibattito sul pensiero marxista e sul socialismo in genere. Un
dibattito che non può non tener conto della presenza di un convitato di pietra,
rappresentato dai riverberi del pensiero hegeliano. In Italia, sulle orme
dell’hegeliano Bertrando Spaventa e dell’americano John Dewey, prendono
spunto i lavori di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.

Se il primo si farà fautore di un tiepido hegelismo e di un passeggero
“innamoramento” dell’ideologia marxista, il secondo, invece, spingerà sino
alle estreme conseguenze il proprio attaccamento all’hegelismo, arrivando
ad elaborare una critica del tutto peculiare di quest’ultima sino a conferire allo
stesso hegelismo la propria, particolare, interpretazione. Il dibattito va,
anzitutto, inquadrato in quelle che erano le coordinate di pensiero dell’intero
dibattito filosofico che, a partire dall’alba della Modernità in poi, si erano
concretizzate in quella che si potrebbe definire, quale “demolizione della
metafisica” , quel “Keine metaphisik mehr!” che, dalla lI metà del secolo 19°,
si fece manifesto ufficiale d’azione dell’intera intellighentzjia europea ed
occidentale.

E’ in questo ambito, dunque, che dobbiamo muoverci per meglio
comprendere l’interpretazione gentiliana di Marx (e, per analogia, anche
quella di Hegel...). Cominciamo con il dire che Marx, applica alle sue tesi la
metodologia “dialettica” di Hegel, (per cui la Storia altri non è che un continuo
processo antagonista tra sfruttati e sfruttatori, la cui sintesi sarà appunto un
ribaltamento sociale (rivoluzione) e la conseguente realizzazione di una
società comunistica), capovolgendone però lo spirito e le conseguenti
dinamiche. In Hegel, Spirito Assoluto e Spirito Individuale vanno a coincidere,
il secondo costituendo la produzione dell’altro (Idealismo). In Marx, tutto ciò
viene ribaltato in favore di un primato antropologico dell’individuo e del suo
fare che, alfine generano le idee.

Quello stesso individuo che, rispetto a quanto preconizzato da Cartesio,
Hegel, Fichte, ma anche dallo stesso Fuerbach, non è più il fulcro da cui
vanno producendosi le idee e l’interpretazione della realtà, rappresentato
invece dalla società nel suo complesso e dalle istanze economiche che ne
accompagnano via via, l’esistenza. Pertanto il capovolgimento della dialettica
hegeliana operato da Marx, determina un nuovo principio-cardine che andrà
animando l’intero costrutto filosofico del socialismo a venire, ovverosia la
teoria della “praxis”.

A generare la Storia e le idee è, prima di tutto, l’agire umano in “societas”,
strettamente interrelato ad istanze di ordine puramente economico. E proprio
il proposito di “demolizione della metafisica”, la critica di Marx (e di
Gentile...sic!) ai suoi precursori utopisti alla Owen ed alla Fourier, come allo
stesso Fuerbach, è serrata. Se di quest’ultimo, in particolare, si apprezza il
fatto di aver spostato su un piano meramente antropologico e materialista
l’intera sfera spirituale umana (ed in primis l’istanza religiosa...), permane
l’accusa di una sopravvivenza della tanto odiata metafisica, determinata
dall’aver nuovamente riposto la sfera religiosa al pari di quella dello spirito

umano, in un ambito meramente idealistico ed astratto e perciò stesso,
riconducibile ad una qualche valenza metafisica.

La critica va poi estendendosi ed accomunando, come abbiamo già poc’anzi
accennato, sia il Feuerbach che i precedenti pensatori utopisti, accusati di
aver dato luogo ad elaborazioni intellettuali statiche, totalmente scollegate da
quell’agire umano legato alle condizioni economiche del momento e, perciò
stesso, autoreferenziali, profondamente innervate in una modalità borghese
di concepire la realtà. Lo stesso dibattito tra Gentile da una parte e Croce e
Sorel dall’altra, sulla pretesa “storicità” della filosofia marxista, è sintomatico
di quel clima culturale a cui abbiamo accennato sopra.

Gentile, anche sulla falsariga di quanto precedentemente elaborato dal
filosofo Antonio Labriola, si fa fautore della “storicità” del marxismo, ovverosia
del suo pieno,inserimento ed incardinamento nel Divenire dei processi storici,
di cui costituisce una chiave di lettura universale e non uno spunto da cui
occasionalmente attingere, così come invece per Benedetto Croce che, al
pari di Sorel, svolgono una critica alla costruzione totalitaria e totalizzante del
pensiero marxista.

Pertanto, se la critica di Marx ai suoi contemporanei è tutta incentrata sulla
distanza del pensiero di questi dalle dinamiche della realtà e, pertanto, ad
una qualsivoglia forma di sopravvivenza della metafisica, la critica di Gentile
a Marx e ad Engels, sarà altrettanto incentrata sugli stessi motivi. Ma
procediamo per ordine. Di Engels, Gentile critica l’interpretazione che questi,
nell’ “Antidhuring” fa della dialettica hegeliana, a suo parere sin troppo legata
ad un canone che, anche se si manifesta in una forma di Positivismo, finisce
con il rimandare ad una forma di platonicheggiante “idealismo”.

Sulla falsariga di quanto premesso, la critica di Gentile a Marx, è più
complessa ed elaborata. Riprendendo quanto Bertrando Spaventa, (suo

“metre a penser”) ci dice in “Principii di filosofia”, nel saggio “La filosofia della
prassi”, nel fare il punto sul rapporto fra pensiero ed esperienza, scienza e
filosofia, Gentile sottolinea «la novità del concetto, così essenziale alla
filosofia moderna, della infinita potenza del conoscere» (cfr. G. Gentile, La
filosofia di Marx, cit., pp. 146-47).

Secondo Gentile la relazione imprescindibile fra pensiero ed esperienza può
essere fondata solo sul riconoscimento del carattere trascendentale delle
categorie, ma questo esclude che il principio del conoscere, il ‘fare’ della
filosofia della praxis, sia l’attività sensibile. E siccome Marx non si pone il
problema di elaborare il sensibile come categoria trascendentale, il tentativo
di una concezione materialistica della storia si risolve in un fallimento:
“La radice della contraddizione, che spunta per ogni verso nel materialismo di
Marx, è nell’assoluto difetto di ogni critica relativa al concetto della prassi
applicata alla realtà sensibile, alla materia, che presso di lui si equivalgono.
Marx non pare si sia curato minimamente di vedere in che modo la prassi si
potesse accoppiare alla materia, in quanto unica realtà; mentre tutta la storia
antecedente della filosofia doveva ammonirlo dell’inconciliabilità dei due
principii: di quella forma (= prassi) con quel contenuto (= materia)” (La
filosofia di Marx, cit., p. 163).
“Un eclettismo di elementi contraddittori” – conclude Gentile – “è il carattere
generale di questa filosofia di Marx; della quale”, aggiunge alludendo alla crisi
del marxismo, “non han forse gran torto oggi alcuni tra i suoi discepoli di non
sapere che farsi. Molte idee feconde vi sono a fondamento, che
separatamente prese son degne di meditazione: ma isolate non
appartengono, come s’è provato, a Marx, né quindi possono giustificare
quella parola “marxismo”, che si vuole sinonimo di filosofia schiettamente
realistica (p. 165).”
Come si può vedere, l’accusa a Marx di “confusionarismo”, riprende per un
verso, le accuse da Croce e da Sorel e da altri ancora, mosse al filosofo di
Treviri, circa una scarsa valenza filosofica e teoretica del suo pensiero,
animato, invece, da istanze ribellistiche di ordine meramente sociologico e
politico. Non solo. Alla base di quanto qui detto, il fatto che Marx finisca con
l’esser fatto bersaglio di un’altra e quasi sottaciuta accusa: quella di aver
determinato una vera e propria metafisica “materialista”.

Partendo dalla critica del concetto di “metafisica” fatta dallo stesso Engels nel
già citato “Antidhuring”, laddove per metafisica si debba intendere la
tendenza inaugurata dagli empiristi Bacone e Locke, atta a trasportare il
metodo di ricerca sperimentale applicato alle scienze naturali, all’ambito
filosofico, producendo così quella limitata schematicità di pensiero, oggidì
caratteristico del pensiero occidentale, il pensiero dialettico hegeliano, eletto
a criterio-guida, diviene esso stesso una forma di metafisica, anche nelle sue
espletazioni materialiste e marxiste.
Alla base di queste considerazioni sta il fatto che, per lo stesso Gentile in
Hegel è presente un fondamentale errore di impostazione: quest’ultimo
avrebbe infatti costruito la propria dialettica con elementi propri a quelli del
cosiddetto «pensato», appartenenti, ovverosia, al pensiero determinato ed
alle scienze. Mentre, per Gentile, solo nel «pensare in atto» consiste
l'autocoscienza dialettica che tutto comprende, mentre il «pensato» è un fatto
illusorio.
Pertanto nel suo attualismo l'unica vera realtà consiste nell'atto puro del
“pensiero che pensa”, ovverosia “l'autocoscienza nel momento attuale, in cui
si manifesta lo spirito che comprende tutto l'esistente”. Praticamente
l’essenza della realtà non è data dai singoli enti pensati, ma dal pensiero in
atto che ne sta alla base e ne determina la successiva rappresentazione.
Essendovi pertanto immedesimazione tra Spirito e Pensiero,quale
attività perenne, non vi può essere distinzione alcuna tra soggetto e oggetto.
Nella sua contrarietà a qualunque forma di dualismo e naturalismo,
Gentile teorizza l'unità di natura e spirito (monismo), cioè di spirito e materia
all'interno della coscienza pensante. La coscienza pertanto, viene concepita
come sintesi di soggetto e oggetto, in cui il primo pone il secondo.
A ben vedere, però, il pensiero gentiliano, così lesto a liberarsi delle scomode
valenze metafisiche o trascendenti che dir si voglia, dei pensatori precedenti,
Hegel in primis, per uno strano scherzo del destino, si trova a ripercorrere le
stesse strade del pensiero di quest’ultimo, anch’egli, anche se con modalità
differenti, proclamante quella coincidenza tra Spirito Assoluto e Spirito
Individuale, tra Spirito e Materia, tra Soggetto ed Oggetto, tra Io e Realtà, che
tanto si avvicina al “Deus sive substantia” di Spinoza, e tanto stranamente ci
riporta ai motivi dell’Ermetismo di un Meister Eckhart, di un Jackob Bohme, di
un Giordano Bruno, di un Marsilio Ficino, di un Ruggero Bacone e di altri
ancora.
Questo perché la dialettica hegeliana, nel suo tentativo di dare un senso alle
problematiche che la nascente Modernità poneva alle coscienze di un’epoca,
travagliata dal contrasto tra Modernità e Tradizione, Conservazione e
Rivoluzione, cercò di conciliare queste antinomie in un grandioso disegno

filosofico, in grado di far convivere al proprio interno, in una cornice
innovativa, elementi di innovazione.
Al pari di Kant, Hegel fu un filosofo della transizione; stabilì alcuni punti fermi,
con l’illusione di fermare quell’impetuoso e contraddittorio Divenire storico,
che ebbe poi in Fuerbach il suo primo epigono. Ma come per tutte le cose in
bilico, può accadere che si vada poi cadendo verso l’una o l’altra direzione,
salvo poi, come per una strana legge oscillatoria, repentinamente volgersi
verso altre, inaspettate direzioni.
E così, una metodologia di pensiero (come nel caso di quelle dialettica ed
immanentista nella fattispecie...) usata a sostegno di istanze puramente
materialiste, può finire con il trascinare il suo entusiasta ed ignaro seguace
verso lidi e conclusioni ben lontane da quelle inizialmente preconizzate. A
questo punto, altro non può non tornarci in mente se non l’immagine di quel
moto circolare dell’Essere e delle sue manifestazioni che, miglior
rappresentazione non trovò se non in quel Serpente-Uroboro Primordiale,
raffigurato nel mordersi la propria coda, in modo tale da far coincidere la fine
con l’inizio, nella cornice della Totalità di un Tutto che, al proprio interno
contempera e comprende tutte le opposizioni.
Umberto Bianchi