martedì 8 dicembre 2015

MATRIMONIO E LINGUAGGIO di Silvano Borruso

MATRIMONIO E LINGUAGGIO

Moltissimi lungo i secoli hanno trattato di matrimonio e sessualità umana da tutti i punti di vista possibili, impossibili, plausibili ed implausibili eccetto (mi si corregga se sbaglio) quello di una sana metafisica. È possibile definire il matrimonio metafisicamente?
Se sì, amici e nemici dell’istituto matrimoniale dovrebbero accettare, o rifiutare, codesta definizione esclusivamente in termini morali. In quelli intellettuali o religiosi la definizione si sosterrebbe: eretta, inamovibile, roccia visibile a tutti, incontestata perchè incontestabile.
E se no, l’anarchia nella quale ci dibattiamo –e non da poco- circa il matrimonio troverebbe la sua giustificazione, insieme agli errori filosofici classici di confusione, separazione e riduzione che la accompagnano inevitabilmente.
La Tetra Mietitrice
Con lo sguardo torvo da dentro il suo altrettanto torvo manto, un giorno la Morte si vide venire incontro una giovane coppia: lui poco più che ventenne; lei quindicenne, appena fuori dall’infanzia. I due sorridenti.
-          Chi siete? Cosa volete?
-          Siamo un uomo e una donna. I nomi non hanno importanza. Veniamo a sfidarti a un duello all’ultimo sangue.
-          Davvero? Non sapete che nessuno di voi due mi sfuggirà?
-          Lo sappiamo, ma ti sconfiggeremo. La nostra discendenza ci perpetuerà, più numerosa e di migliore qualità di noi due. E il tuo potere non oltrepasserà i nostri corpi mortali.
Il dialogo è immaginario. Non così gli attori, che hanno già ricevuto la loro ricompensa: lui dopo 20 anni dalla sfida, lei dopo 62 e dieci figli, 47 nipoti e 43 pronipoti.
È difficile contraddire la proposizione che lo scopo principale del matrimonio è di trascendere la morte mettendo al mondo e portando su nuove unità del migliore capitale umano. La morte viene così sconfitta a due livelli: fisico e culturale.
Alternative
Chi si oppone a codesta definizione non ha tutti i torti. Il matrimonio non è dopotutto necessario per mettere al mondo nuovi esseri umani. Perchè quindi oberare i due con un compromesso vita natural durante impossibile? Che si amino come possono, e che l’educazione abbia luogo nel migliore dei modi possibile.
Codesta attitudine confonde l’amore con una relazione sentimentale, crea un disordine sociale di sterilità, e consegna ogni coppia a una resa incondizionata ai poteri della morte. Un uomo e una donna che convivono per ragioni diverse dalla procreazione ed educazione di una prole marciano verso la morte senza lasciar traccia. Per non dire che giovani generati al di fuori del vincolo matrimoniale sono culturalmente morti dall’inizio stesso della loro esistenza, la quale ha un’alta probabilità di una fine prematura anche fisica.
Osserviamo quindi come aumenta il disordine allontanandosi dalla metafisica del matrimonio.
Unità contro Disintegrazione
Ogni essere umano tende all’unità, ma in condizioni molto sfavorevoli al suo raggiungimento. Arrivarci non è automatico. Ci vuole una lotta di una vita. Come fa notare Agostino, ogni circolo ha un centro di unità e una circonferenza di dispersione. Per l’uomo, unità significa dominare la circonferenza dal centro; disintegrazione, tentare di arraffare quanta più circonferenza bramano i suoi desideri.
Paradossalmente però, afferma Agostino e l’esperienza corrobora, quanta più circonferenza si arraffa, tanto più poveri si diventa.
I due sposi vivono oberati da un doppio handicap di disordine esistenziale inferto alla natura umana dalle conseguenze del peccato originale. Si aggiunga lo stesso lascito in ciascuno dei figli e si comincia a intravvedere che compito grandioso e terrificante sia il matrimonio.
È un istituto a relazione speciale: un accordo solenne, una convenzione dove si scambiano persone, non un contratto dove si scambiano beni e servizi. Il che rende inevitabile l’abdicazione di sovranità per tutta la persona, non solo per il proprio corpo. Detto altrimenti, il matrimonio è la forma più elementare di unione politica, dove il compromesso è la sola forma possibile di comando.
L’ordinamento politico matrimoniale si complica in rapporto direttamente proporzionale al numero di figli messi al mondo da educare, che costituiscono proprio il guanto di sfida lanciato in faccia alla Morte.
Ecco perchè il matrimonio richiede la rinuncia di sé. L’unione di due volontà è impossibile senza che ognuna rinunci a una porzione di sé. Lo stesso vale per l’unione di due intelletti, due insiemi di passioni, di gusti, ecc. Perfino l’unione dei sessi, se ridotta a poco più che una autogratificazione, distrugge l’unità del matrimonio, non la rafforza. Ecco perchè la si chiama debito. I debiti sono dovuti a un altro, che nel matrimonio non sono solo gli sposi ma anche e soprattutto la prole, per mezzo di unità, fedeltà e amore.
Da Divorzio a LGBT
Il divorzio è l’applicazione pratica della confusione di libertà con indipendenza, la principale riguardante l’uomo moderno. Cominciò ad agire come un cuneo sottile di divisione, che in poco più di 200 anni è riuscito a demolire in pratica l’istituzione del matrimonio, riducendo la famiglia a quello che è oggi.
Lo scivolo di Gerasa sul quale ci si avventurò al tempo ha finito per fare entrare in lizza le force LGBT, che impongono le loro vedute a suon di una implacabile propaganda e di inganni non meno efficaci.
La propaganda viene manipolata da forze finanziarie e politiche che gestiscono il potere, l’inganno fa leva quasi esclusivamente sull’ignoranza, specialmente del linguaggio e della umanistica, come mostra l’aneddoto che segue.
Beijing 1995. Una solitaria dimostrante cinese sfoggia un cartellone che dice (in inglese) a lettere di scatola FREEDOM FOR LESBIANS. Un giornalista le si avvicina:
-          Do you speak English?
-          Yes.
-          Capisce per che cosa sta dimostrando?
-          Si, ma c’è una cosa che ignoro. Dov’è Lesbia?
Esiste, come sa chi ha studiato i classici, un’isola dell’Egeo che si chiama non Lesbia ma Lesbos. Fu la patria di Saffo di Mitilene (fl. 600 a.C.), poetessa con la reputazione di intrattenere relazioni erotiche con donne. Ma non esiste al mondo un paese detto Lesbia i cui abitanti, oppressi non si sa da chi o cosa, anelano libertà come era stato fatto credere alla solitaria dimostrante del 1995 a Pechino.
Anche se vero, sarebbe defamazione, e pertanto ingiustizia, espandere a tutta una popolazione un epiteto meritato da una sola dei suoi elementi, per quanto famosa.
Rimane il problema di come chiamare codeste donne. Saffiche? Il termine esiste, ma riguarda il tipo di metro usato dalla Nostra. Se i Lesbici (uomini e donne abitanti dell’isola) non obiettano di essere chiamati così, è affar loro.
È tutta un’altra storia per il termine “gay”, giornalmente fatto ingozzare con la violenza da coloro che lo ritengono più palatabile di “omosessuale”. Codesta attitudine merita una analisi non tanto morale quanto linguistica.
I termini “omosessuale” ed “eterosessuale”, tanto per cominciare, sono un ossimoro e un pleonasmo rispettivamente. La ragione è etimologica: il latino sexus (con la variante secus, da secare) implica in fatti divisione, lacuna incolmabile.
Come chiamare quindi uomini che considerano normale permettere l’unione del seme di vita di uno con la merda di morte di un altro? Qualunque essi scelgano non è, non può e non deve essere “gay”.
Chiamando le cose per il loro nome, il termine italiano giusto, per quanto politicamente scorretto, sarebbe “concubinato maschile”. Ma chi ama nascondere la realtà dietro una coltre di eufemismi ha scelto il termine straniero “gay”, improprio per una doppia ragione.
La prima è l’origine straniera, proveniente dai bassifondi newyorkini o chissà da dove altro; la seconda è il significato originale verificabile in ogni dizionario. Il Garzanti dà “gaio, allegro, vivace”; il Concise Oxford Dictionary aggiunge “spensierato, a cuor leggero, sportivo, ed altri. L’originale Oxford Dictionary fa un eruditissimo trattamento del termine, che non è il caso di riportare qui. Il che mostra come un linguaggio si impoverisce dall’applicare a un termine vari significati ad applicargliene solo uno, sciatto e ignorante.
Che poi i praticanti di codesta abitudine sentano, o fingano, gaiezza, sensazione di ilarità e altro, è del tutto irrilevante. Il loro tentativo di imporre l’eufemismo con le cattive su tutti va contestato esclusivamente in termini linguistici. Non suggerisco il ritorno a termini dispregiativi ben conosciuti, dei quali non farò uso, e non suggerisco alternative. Se ai concubini non piace il termine vero, che se ne cerchino loro uno migliore. Per conto mio non ho mai fatto uso dell’eufemismo né ho intenzione di farne in futuro.
Un altro termine dibattibile è “omofobo”, non so se più mostruoso che grottesco o viceversa. I manipolatori del linguaggio vorrebbero che significhi “chi prova avversione per i LGBT”, ma l’etimologia dice tutt’altro.
“Homo”- (che in italiano perde la H) è un prefisso greco che vuol dire “stesso”. Lo si trova in parole come omocentrico, omogenetico, omomorfo e un lungo eccetera. –Fobo è un suffisso greco che vuol dire “avente paura”, “timoroso”. Che qualcosa che fa paura provochi anche avversione è normale, ma non viceversa. Uno xenofobo non gradisce gli stranieri perchè ne ha paura, non ha paura degli stranieri perchè sgradevoli. La prima attitudine potrebbe plausibilmente seguire qualche spiacevole esperienza con stranieri; la seconda è del tutto irrazionale.
Andiamo quindi al punto: cos’è un “omofobo”? Etimologicamente vuol dire “timoroso dello stesso”, ma di quale “stesso”? Chiaramente si tratta di una parola senza senso. Ripeto, questo saggio non intende suggerire alternative, ma incoraggiare gli utenti del linguaggio a fare uno sforzo extra per trovare (o fabbricare) termini che convogliano idee, non capricci e stravaganze.
Rimangono B e T della sigla. “Bisessuale” ha significato doppio: a) un’indeciso circa il sesso al quale appartiene; b) uno attratto eroticamente da ambo i sessi (più tecnicamente “anfierotico”). Linguisticamente è corretto per entrambi i casi, per cui stet.
I transessuali (sofferenti di disforia da genere) sono coloro che per una qualsiasi ragione si sentono insoddisfatti con il sesso a cui la natura li ha “condannati”, anelando così una ‘libertà” non meglio definita.
Augurando buon pro a tutti codesti innovatori, affrontiamo “gender”. Non è eufemismo, ma un termine di venerabile uso grammaticale. L’inglese e il latino hanno tre generi: maschile, femminile e neutro. L’uso non è ovvio ma tradizionale: gli alberi, in latino, sono di genere femminile. Le lingue romanze si sono liberate del neutro, così che hanno due, non tre generi.
Ma da un certo tempo in qua si viene imponendo l’uso di “gender” anche in italiano invece di “sesso”. L’ordine del giorno, per quanto lo si voglia occultare, sembra chiaro: cancellare la consapevolezza sessuale nei riceventi di tale propaganda. Ecco perchè i “genders” crescono e si moltiplicano a dismisura sotto la spinta dei promotori di una uguaglianza estrema, ma vengono contestati da chi non intende sottomettersi ai distruttori del linguaggio.
Per cui se chi legge è d’accordo, mai trasferisca l’uso di quella parola dal campo grammaticale a quello biologico. E attenzione alla prestidigitazione linguistica!


8 dicembre 2015