venerdì 28 settembre 2012

L’unica verità


L’unica verità
di Vincenzo Vinceguerra (Opera, 15 agosto 1012)
      Da alcuni anni a questa parte si assiste allo spettacolo offerto da persone che hanno come primario interesse la ricerca del consenso, dei complimenti e del conto in banca, impegnate a ricostruire le vicende del 12 dicembre 1969 in modo romanzesco e fantasioso, convinte (almeno affermano di esserlo) di aver trovato la chiave di lettura degli eventi in una duplicità di azioni e di operazioni: doppie organizzazioni, doppie strutture segrete, doppi depistaggi, doppie bombe.
Purtroppo con questi personaggi in cerca di notorietà a buon mercato, la verità non può essere doppia ma una sola, quella che vede un’operazione ben coordinata che coinvolge uomini ed organizzazioni del nei ofascismo di Stato (Movimento sociale Italiano, Ordine nuovo, Avanguardia nazionale), servizi segreti militari e civili italiani e stranieri impegnati nella stabilizzazione politica del Paese.
Nell’affannosa ricerca dello scoop ad ogni costo, si è giunti in questo modo ad ipotizzare che doveva essere portata nella banca dell’Agricoltura di Milano, il pomeriggio del 12 dicembre 1969, una bomba “buona”, destinata a fare boom, affidata all’ingenuo “anarchico” Pietro Valpreda dagli uomini di Avanguardia nazionale per conto della Divisione Affari riservati del Ministero degli Interni, repentinamente e furtivamente sostituta con una bomba “cattiva”, destinata a fare strage, dai malvagi di Ordine nuovo appoggiati dal Servizio informazioni difesa (Sid).
Per scriverci un romanzo, girarci un film, disegnarci un fumetto, questa “verità” può andare bene e rendere meglio, ma la verità non romanzata afferma che i “cattivi” di Ordine nuovo del Veneto e di Roma erano sotto la protezione esplicita della Divisione Affari riservati del Ministero degli Interni esattamente come i “buoni” di Avanguardia nazionale.
Prendiamo l’esempio, per cominciare, di Delfo Zorzi, indicato dai suoi colleghi Carlo Digilio e Martino Siciliano come l’autore della strage di piazza Fontana.
L’accusa non è stata ritenuta provata in sede processuale ma il rapporto fra Delfo Zorzi e i funzionari del Ministero degli Interni è provato al di là di ogni ragionevole dubbio. Arrestato il 16 novembre 1968, a Mestre, su indicazione presumibile del suo collega Giampiero Mariga, Delfo Zorzi in Questura si comporta come un tenore all’opera: “canta”.
In un verbale della polizia, a firma del commissario di Ps Naccarato, si legge che Zorzi “non tenne un atteggiamento negativo ma si lasciò andare ad ampia collaborazione. Dichiarava inoltre che il Mariga si rifornirebbe di armi presso un deposito esistente nel trevigiano e che, per eventuali riparazioni di armi, gli illegittimi detentori delle stesse farebbero capo ad un ufficiale dei paracadutisti in congedo residente tra Mantova e Verona”.
Il riferimento a Giovanni Ventura, a Roberto Besutti ed Elio Massgrande è chiarissimo ed esplicito, ma non ci saranno conseguenze né per Zorzi, né per Mariga e tantomeno per gli alti personaggi chiamati in causa.
Quando uno se la “canta” in Questura, ne consegue il suo allontanamento immediato da un’organizzazione politica che si pretende collocata all’opposizione del sistema parlamentare.
Viceversa, la patente di “canterino” rende Delfo Zorzi un elemento di sicuro affidamento per gli ordinovisti di Mestre-Venezia, anzi fa di lui una colonna portante del gruppo, a conferma che la collaborazione con la polizia è una nota di merito all’interno di Ordine nuovo.
Difatti, Delfo Zorzi da qual giorno è arruolato fra le file degli informatori da Elvio Catenacci, e messo in contatto col viceprefetto Antonio Sampaoli Pignocchi, ufficialmente capo dell’ufficio stampa del ministero degli Interni, in realtà funzionario del servizio segreto civile, e di lui, a distanza di oltre sedici anni affermerà di ricordarsi bene anche il prefetto Umberto Federico D’Amato.
Insomma, il presunto autore materiale della strage del 12 dicembre 1969, a Milano, il “cattivo” che avrebbe sostituito la bomba “buona” collocata da Pietro Valpreda, è un uomo del servizio segreto civile, lo stesso che protegge e dirige gli uomini di Avanguardia nazionale.
Per rendersi conto di quanto sia grottesca la suddivisione tra i “buoni”, identificati nel ministero degli Interni e in Avanguardia nazionale, e i “cattivi” del Sid-Ordine nuovo la vicenda personale di Delfo Zorzi basta e avanza.
Non dovendo farci un conto in banca, né partecipare alla sceneggiatura di film, avendo come unico fine l’affermazione della verità, proseguiamo nella nostra ricostruzione.
E’ sempre il questore Elvio Catenacci, ormai direttore della Divisione Affari Riservati, a minacciare a Padova, il 23 luglio 1969, il commissario di Ps Pasquale Juliano, colpevole di aver iniziato un’inchiesta contro il missino Massimiliano Fachini per armi, esplosivi ed altro.
Ed è sempre lo stesso Catenacci a disporre che si mantenga segreta la scoperta, avvenuta il 13 dicembre 1969, giorno successivo alla strage di piazza Fontana a Milano, del negozio padovano in cui sono state vendute almeno alcune delle borse utilizzate negli attentati di Roma e di Milano del 12 dicembre 1969.
Se il ruolo del ministero degli Interni e della Divisione Affari riservati non è emerso in tutta la sua evidenza e gravità nel corso di oltre quarant’anni, il merito, se così si può definire, è tutto del giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio, oggi senatore del Pd.
E’ cotanto giudice che, per mera casualità, nel settembre del 1972 viene a conoscenza del fatto che la Divisione Affari riservati e le questure di Padova, Roma e Milano gli hanno sempre taciuto di aver identificato nell’immediatezza della strage il negozio padovano in cui erano state vendute le borse usate per gli attentati.
E’ un fatto di eccezionale gravità perché denuncia la volontà di impedire l’identificazione della persona che ha acquistato quelle borse, con una serie di omissioni ma anche con un’azione diretta di cui lo stesso Gerardo D’Ambrosio viene a conoscenza il 12 ottobre 1972: quel giorno, da un appunto della polizia scientifica, il magistrato apprende che ignoti hanno trafugato e fatto scomparire il laccio che assicura il cartellino del prezzo rinvenuto sulla borsa contenente la bomba inesplosa, perché non innescata, con il fine di impedire che da esso si potesse risalire al negozio che l’aveva venduta.
Per Gerardo D’Ambrosio si tratta di una mera bazzecola, di un “fatto di non rilevante gravità”, dovuto all’imbecillità di tre sprovveduti funzionari di polizia con i quali, anche dopo averli formalmente incriminati, lui continua a collaborare nelle indagini sulla strage di piazza Fontana, senza pretendere che siano allontanati se non dal servizio almeno dalla direzione degli uffici politici di Roma e Milano che i commissari Bonaventura Provenza e Antonino Allegra continuano tranquillamente a dirigere.
Dopo la strage del 12 dicembre 1969, il servizio segreto civile, diretto da Elvio Catenacci, con la complicità dei dirigenti degli uffici politici di Roma, Padova e Milano depista le indagini per proteggere Franco Freda ed i suoi colleghi.
Non basta. Come avrà modo di ricordare il sostituto procuratore della Repubblica di Padova, Pietro Calogero, in un’intervista, dopo le dichiarazioni accusatorie di Guido Lorenzon nei confronti di Giovanni Ventura e Franco Freda, organizza un incontro fra il teste e quest’ultimo affidando alla polizia il compito di registrare il colloquio.
Il risultato sarà, secondo il racconto di Calogero, che la prima volta la polizia non aveva inserito le batterie nel registratore, la seconda volta le batterie erano scariche, la terza volta dal tenore delle risposte di Freda egli ne ricavò la netta impressione che quest’ultimo fosse a conoscenza della trappola.
A dirigere l’ufficio politico della Questura di Padova c’era il commissario di Ps, Saverio Molino, che aveva fra i suoi atti anche la registrazione delle telefonate fatte da Franco Freda nei mesi precedenti la strage, per ordinare i timer poi utilizzati negli attentati.
Ad incriminare il funzionario sarà, il 16 novembre 1973, il procuratore della Repubblica di Padova, Aldo Fais, perché il furbissimo Gerardo D’Ambrosio che avrebbe avuto il dovere di farlo si asterrà dal perseguire Saverio Molino per una ragione evidente: con le prove del depistaggio finalizzato ad impedire l’individuazione del negozio dove erano state vendute, a Padova, le borse usate negli attentati, con l’incriminazione formale di Elvio Catenacci, Bonaventura Provenza e Antonino Allegra, procedere contro Saverio Molino per aver omesso di segnalare il contenuto delle telefonate con le quali erano stati ordinati i timer nel mese di settembre del 1969, avrebbe significato riconoscere che il ministero degli Interni aveva garantito protezione ed impunità al gruppo ordinovista veneto, di cui faceva parte Franco Freda, prima e dopo la strage.
Inoltre, il coinvolgimento del direttore della Divisione Affari riservati e di ben tre dirigenti degli uffici politici di tre questure non avrebbe consentito a Gerardo D’Ambrosio di ipotizzare l’infedeltà di un singolo funzionario ma l’avrebbe obbligato a chiamare in causa i vertici del servizio segreto civile e della polizia come complici di Franco Freda e dei suoi colleghi.
E mai sarebbe divenuto senatore.
Queste non sono fantasie scaturite in notti insonni pensando al conto in banca, sono fatti provati perfino sul piano processuale nonostante la magistratura di cui purtroppo gode questo Paese.
Fatti che provano come il ministero degli Interni, nel 1969, era attivo nella protezione e nelle complicità sia degli uomini di Avanguardia nazionale che di quelli di Ordine nuovo.
Una dimostrazione ulteriore, indiretta ma significativa, viene dal fatto che gli ordinovisti veneti, Giovanni Ventura e Marco Pozzan, porteranno sul banco degli imputati il servizio segreto militare, nelle persone di Gianadelio Maletti e Antonio Labruna, ma non diranno mai una sola parola sul conto della Divisione Affari riservati del ministero degli Interni.
Quale valore attribuire, dinanzi alla semplice esposizione di fatti peraltro ampiamente noti a chi conosce la storia del processo per la strage di piazza Fontana, alla pretesa che ci sia stata una bomba “buona” collocata da Pietro Valpreda per conto di Avanguardia nazionale e del ministero degli Interni, ed una “cattiva” deposta dagli ordinovisti veneti su incarico del Sid?
Se non c’è la volontà di introdurre, consapevolmente, una nota ulteriore di confusione in una vicenda che inizia ad apparire in tutta la sua chiarezza (non per merito di magistrati e di giornalisti), si potrebbe anche ipotizzare che accanto alle “doppie bombe”, alle “doppie strutture”, alle “doppie organizzazioni”, ai “doppi depistaggi” ecc. ci siano anche i “doppi fessi”.
In realtà, i servizi segreti italiani, sia militari che civili, collaborano nell’operazione del 1969 destinata a concludersi il 14 dicembre di quell’anno con la proclamazione dello stato di emergenza.
Lo dice la presenza dell’agente del Sid, giornalista missino de “Il Secolo d’Italia”, Guido Giannettini accanto ai veneti che lavorano per conto dei servizi nel campo dell’infiltrazione a sinistra, in particolare fra i marxisti-leninisti.
Lo dice anche un nome che è stato fatto scomparire dalla magistratura, insieme a quello di Guido Paglia, dalla vicenda processuale di piazza Fontana, quello di Gianfranco Finaldi.
Stefano Delle Chiaie, difatti, non indicherà nel solo Guido Paglia la persona che deve confermare il suo alibi per il pomeriggio del 12 dicembre 1969, ma insieme a lui citerà anche Gianfranco Finaldi.  Chi era costui?
Era il presidente dell’Istituto “A. Pollio”, lo stesso che organizzò il convegno all’hotel “Parco dei principi” sulla “guerra rivoluzionaria” del 3-5 maggio 1965.
Cos’è stato l’Istituto “Alberto Pollio”, lo ricaviamo da una nota del direttore del Sifar, Egidio Viggiani, del 23 maggio 1964, che lo definisce “una lancia spezzata delle Forze armate, con quelle funzioni di propaganda e – se del caso – di agitazione politica che le Ffaa non potrebbero istituzionalmente esercitare in proprio. Tutto ciò, naturalmente, sempre in termini di responsabile cautela, e comunque senza mai permettere di stabilire un nesso formale fra l’attività dell’Istituto stesso e gli uffici militari”.
Un uomo del ministero degli Interni, Stefano Delle Chiaie, cita come testimone a sua difesa un personaggio del Sid e dello Stato maggiore dell’Esercito, come Gianfranco Finaldi, perché sa perfettamente, essendo un gregario di Junio Valerio Borghese, che il servizio segreto militare è parte integrante dell’operazione esattamente come quello civile, e sa che lo proteggerà.
Come ha recitato la parte assegnatagli prima degli attentati del 12 dicembre 1969, il Sid continuerà a farlo anche dopo quando si tratterà di cancellare le tracce di un’operazione di respiro internazionale e i cui sono a conoscenza, a grandi linee, i vertici politici e militari italiani.
Una verità che ha infastidito e preoccupato qualche apparato statale che sfiduciato dall’incapacità dell’amministrazione penitenziaria, in particolare del carcere di Opera, di dissuaderlo dal proseguire la sua battaglia ideale, politica e civile a favore del Paese e del suo popolo, ha pensato bene nel mese di dicembre del 2011 di scendere in campo in prima persona con un’operazione finalizzata all’intimidazione.
Non è, per carità, una doppia operazione anche se potrebbe avere una finalità palese ed una occulta, non dichiarata, ma avendo chi scrive un morale altissimo, una salute di ferro, la volontà di proseguire senza mai fermarsi nella sua battaglia, la speranza fondata di campare cent’anni, potrebbero anche risparmiare tempo e soldi.
Del resto, già in passato certe operazioni in carcere sono fallite.
Comunque, non ci rivolgiamo ai furbi ed ai fessi che pretendono di scrivere la storia del Paese con “verità” parziali e strampalate, di quelle che non fanno male al Potere perché finalizzate a proteggerlo e ad escludere le responsabilità.
Ci rivolgiamo a coloro che oggi hanno vent’anni, che non sono ancora corrotti dall’ambizione e dalla viltà, perché possano giudicare i fatti e le logiche conclusioni che dalla loro corretta lettura scaturiscono.
Non è una “doppia” speranza, è una sola, semplice e lineare come la verità.
Vincenzo Vinciguerra
scritti scomodi, ma proprio per questo da divulgare